Nell’estate del 1870 la “questione italiana” sembrava essersi placata.
Il nuovo regno pareva aver rinunciato alla conquista del Lazio e di Roma, l’ultimo territorio sulla penisola sottratto al controllo italiano.
Ma nel settembre di quell’anno tutto cambiò precipitosamente e il governo con un colpo di mano s’impadronì dell’Urbe completando il processo di unificazione nazionale.
Ricorre quest’anno il 150° anniversario dell’annessione di Roma all’Italia: la conquistò un manipolo di uomini facendo breccia nelle mura romane ed entrando nella Città Eterna accolto con entusiasmo dal popolo.
1. Non una città qualsiasi
Roma all’epoca non era una città qualsiasi.
Era ancora, prima di tutto, la sede del Papa e quindi la capitale ideale di tutta la cristianità, oltre che di un piccolo Stato esteso più o meno quanto il Lazio, ultimo rimasuglio del potere temporale della Chiesa.
I teologi cattolici tentavano ancora di giustificare questo residuo medievale sostenendo che in questo modo la cultura cattolica avrebbe potuto mostrare al mondo come andavano davvero amministrati gli Stati, ma ben pochi ormai prestavano ascolto a questa interpretazione.
In modo molto più concreto, il Papa godeva della protezione politica e militare dell’imperatore dei francesi Napoleone III, che nel 1852 aveva raggiunto questa carica anche grazie all’appoggio dei cattolici francesi, tradizionalmente molto conservatori.
Nel 1864 il governo di Oltralpe era riuscito a imporre a quello italiano la cosiddetta Convenzione di settembre, sottoscritta il 15 settembre a Fontainebleau, secondo la quale l’Italia rinunciava a Roma come capitale e come segno di buona volontà trasferiva la principale sede amministrativa a Firenze.
Garibaldi aveva tentato inutilmente di innescare una rivolta popolare nel 1867, ma il suo tentativo era stato bloccato dai francesi, prontamente accorsi, nella battaglia di Mentana.
2. La Francia in guerra e manovre italiane
Il dominio dei Papi su Roma e sul Lazio ne era uscito rafforzato: la presenza di un reparto militare francese, che era stato lasciato di stanza nella Città Eterna, faceva intendere le intenzioni del governo di Parigi di sostenere l’alleato a tempo indeterminato.
Tutto cambiò nell’agosto del 1870. La Francia aveva improvvidamente dichiarato guerra alla Prussia solo per scoprire la potenza dell’esercito teutonico che in una serie di battaglie aveva sconfitto i suoi uomini, guidati dal generale Mac Mahon (foto a sinistra).
La battaglia decisiva si era svolta a Sedan, nella Francia settentrionale, il 1° e il 2 settembre, e si era conclusa con l’annientamento dell’esercito francese. Lo stesso 2 settembre Napoleone III aveva abdicato e due giorni dopo era stata proclamata la Repubblica (la Terza della serie). Intanto la diplomazia italiana si era già messa in moto per assicurarsi la benevolenza, o almeno il non intervento, delle altre potenze.
In realtà tutto il progetto aveva rischiato di fallire in partenza perché il re Vittorio Emanuele II avrebbe voluto correre in aiuto di Napoleone III in nome di una cavalleresca generosità e restituire l’aiuto avuto durante la Seconda guerra di indipendenza del 1859: il capo del governo Giovanni Lanza e il ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, coadiuvati dal ministro delle Finanze Quintino Sella, avevano faticato a impedirgli passi falsi e a mantenere la neutralità.
Anche Papa Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti, aveva sondato le cancellerie degli Stati europei, scoprendo che nessun governo era particolarmente ansioso di schierarsi al suo fianco. Era quindi solo.
Tuttavia il governo italiano era incerto sul da farsi. Il 7 settembre il re, mentre inviava a tutte le capitali una nota in cui si esponevano le ragioni della presa di Roma da parte dell’Italia e prometteva ampie garanzie e tutele per il Papa, fantasticava di far scoppiare una finta rivolta contro il potere papale, che gli permettesse di presentarsi come il “salvatore” del successore di Pietro e, in questa veste, di entrare a Roma con la sua benedizione.
Mastai Ferretti, che all’epoca aveva 78 anni e una lunghissima esperienza politica alle spalle, non si lasciò ingannare nemmeno per un momento: davanti all’ambasciatore del re, il conte Ponza di San Martino, che il 9 settembre gli presentò il progetto del sovrano, urlò fuori di sé dalla rabbia: «Siete tutti un sacco di vipere, sepolcri imbiancati e mancatori di fede! Non sono profeta né figlio di un profeta, ma vi assicuro che a Roma non entrerete!».
Il conte ne fu così sconvolto che, pare, lasciando lo studio privato del Papa si perse nel palazzo e non trovando l’uscita dovette chiedere aiuto a uno dei monsignori presenti.
Nella foto sotto, Papa Pio IX (nato Giovanni Maria Mastai Ferretti, 1792 – 1878)
3. L’esercito attende fuori le mura e papalini all’attacco
In realtà la decisione era già stata presa e l’11 settembre l’esercito italiano al comando del generale Raffaele Cadorna (foto a sinistra), forte di 65mila uomini, aveva varcato la frontiera in più punti e convergeva sulla città senza incontrare resistenza.
L’unico scontro avvenne a Civita Castellana e fu così breve da far infuriare un ufficiale belga, un certo Senone di Resimont, costretto dai suoi superiori ad alzare bandiera bianca troppo presto: «Non ho nemmeno un ferito! Tre soli contusi da qualche calcinaccio fatto saltare dalle vostre granate!».
Anche Cadorna aveva i suoi problemi: doveva evitare un assedio prolungato e, soprattutto, doveva evitare di colpire per sbaglio gli edifici di residenza del Papa. Perciò, pur provenendo da nord, fece una larga deviazione verso est per raggiungere le mura di Roma in un punto ben lontano dal Vaticano.
Il punto prescelto, che sarebbe passato alla storia, era Porta Pia. Lo stato maggiore italiano si sistemò a Villa Albani, un gioiello artistico a cinquecento metri dalle mura della città, in attesa del via libera politico definitivo.
Dall’altro lato, in città, la vita era come sospesa: «Tutti cittadini fanno un po’ di provviste in casa, temendo le fameliche conseguenze di un lungo assedio», si legge nel diario di un romano. «I ricchi nascondono denaro e valori... Gli avvisi sacri piovono da tutte le parti: dovunque novene, tridui, litanie...».
Finalmente il 18 settembre arrivò a Cadorna il telegramma del ministro della Guerra: «Il governo del re ha deciso che le truppe operanti sotto i di lei ordini debbano impadronirsi di forza della città di Roma».
Iniziarono i preparativi, subito captati anche dentro le mura: avvisati dagli informatori, gli ufficiali papalini sapevano già il 19 che l’ora dell’attacco sarebbe stata il giorno successivo, alle cinque e mezzo del mattino.
In realtà il 20 settembre furono i papalini, appostati in una villa poco fuori Porta Pia, ad aprire il fuoco per primi e a fare i primi morti italiani, prima di ritirarsi precipitosamente in città.
Le fotografie scattate dopo il combattimento
mostrano che il quartiere prescelto per l’attacco era completamente diverso da come è ora: all’interno delle mura aureliane il terreno era coperto da una fitta vegetazione di pini e cipressi, tra i quali faceva capolino qualche raro palazzo, mentre all’esterno un vero e proprio bosco arrivava fino a ridosso della recinzione.
Proprio questi alberi fornirono la copertura necessaria all’artiglieria per arrivare a portata di tiro.
Nella foto sotto, la cinta di mura aureliane e Porta Pia. A una cinquantina di metri alla sua destra, la breccia dalla quale passarono i soldati italiani per entrare in Roma.
4. Chi apre il fuoco?
Poiché Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse dato l’ordine di sparare sulla Città Eterna, il comando finale fu dato dal capitano d’artiglieria Giacomo Segre, che era ebreo e per il quale ovviamente la scomunica non avrebbe rappresentato nulla.
I primi colpi furono troppo bassi: poi l’artiglieria aggiustò il tiro e le mura iniziarono a sgretolarsi, sotto lo sguardo non solo dei militari ma anche di una variopinta folla di curiosi che dalla campagna si erano avvicinati fino a pochi metri dalla linea del fuoco per godersi lo spettacolo.
Il Papa aveva ordinato una resistenza puramente simbolica e la resa ai primi colpi di cannone: in realtà i soldati agli ordini del generale Hermann Kanzler, spinti dal loro orgoglio e dal loro istinto militare, cercarono di difendere sul serio la città quando la breccia venne aperta e comparvero i primi bersaglieri.
Tutti sapevano che lo scontro era assolutamente impari e che i papalini non avevano nessuna possibilità di vincere, tanto che alle 9 il comando in capo aveva già deciso di arrendersi.
Siccome però non erano state preparare le necessarie bandiere bianche, passò diverso tempo prima che l’ordine diventasse operativo, durante il quale i soldati papalini continuarono a difendersi.
Alle dieci fu lanciato l’attacco dei bersaglieri che però risultò mal coordinato: troppi soldati si mossero contemporaneamente verso la breccia, larga non più di trenta metri, creando un immenso ingorgo.
Come scrisse il cronista Antonio Di Pierro, era «un’enorme piazza d’armi, un carnaio, un brulicare di soldati che avanzavano a spintoni e gomitate, tentavano di sorpassarsi l’un l’altro tra urla, imprecazioni, spari». Fu qui che si ebbe il maggior numero di morti tra le fila italiane, dato che la massa di soldati era un bersaglio perfetto per i difensori.
Lo scontro vero e proprio durò meno di un quarto d’ora, poi le forze papaline arretrarono e quelle italiane si riversarono in città: una commissione d’inchiesta stabilì, molto tempo dopo, che il primo a varcare le mura sia stato un sottotenente del 12° Bersaglieri, Federico Cocito.
Alle tre del pomeriggio, avendo ormai i difensori deposto ovunque le armi, alle truppe italiane fu permesso di entrare nella Città Eterna con una massa di civili che si riversò per tutte le sue vie.
I soldati furono accolti con straordinario entusiasmo dal popolino (molto meno dai membri della nobiltà e del clero, spaventati e preoccupati per le conseguenze del gesto) in una festa che durò fino a notte: «Il corso s’è illuminato come per incanto», scrisse un giovanissimo Edmondo De Amicis.
«A percorrere la strada in carrozza non si vede più terra: è tutto un mare di teste, a cui la strada non basta e straripa nei caffè, nelle piazze, nelle botteghe, negli atrii, nei vicoli». Roma era italiana.
5. Pio IX: fu ostile all’Italia fino alla morte
Nato a Senigallia nel 1792 da nobile famiglia, dopo gli studi teologici fu ordinato sacerdote nel 1819.
Entrò nell’ordine terziario francescano, dedicandosi, dopo una parentesi diplomatica in Cile, all’ospizio per poveri San Michele a Roma.
Contro la sua volontà fu nominato vescovo di Spoleto a soli 35 anni. Nel 1846 fu eletto Papa al secondo scrutinio, col nome di Pio IX. Nei primi due anni di pontificato seguì una politica di cauta apertura, ma i moti del 1848 e l’esilio da Roma durante la Repubblica Romana (1848-49) cambiarono il suo atteggiamento politico.
Nonostante questo, numerosi furono gli interventi di miglioramento nel campo economico tra cui le prime ferrovie nei territori della Santa Sede. Nel 1870 convocò il Concilio Vaticano I che affermò il dogma dell’infallibilità papale.
Dopo la presa di Roma si dichiarò prigioniero dello Stato italiano e si autorecluse nei palazzi Vaticani. Morì nel 1878. Il suo papato (31 anni, 7 mesi e 23 giorni) è stato il più lungo della storia dopo quello di San Pietro.
Nel settembre 1870 l’esercito papalino sotto il generale tedesco Hermann Kanzler contava teoricamente 13.157 uomini e 1.206 cavalli: nella realtà dei fatti erano circa 10mila mercenari, metà italiani e metà europei. Tremila erano francesi, 1.200 tedeschi e austriaci, mille svizzeri, cui si erano uniti, per bizzarri giochi del destino, tre turchi, quattro tunisini, due brasiliani, un marocchino, due svedesi, un peruviano, un messicano e un aborigeno della Nuova Zelanda.
Curiosità: Raffaele Cadorna: fu espulso due volte dall’Accademia
Nato a Milano nel 1815 da nobile famiglia, fu espulso due volte dall’Accademia militare per indisciplina e dovette partire dal grado di cadetto. Partecipò a tutte le guerre di indipendenza, guadagnandosi fama e onori nella battaglia di San Martino (1859). Combatté con durezza il brigantaggio prima di guidare l’esercito alla presa di Roma. Fu eletto deputato e poi divenne senatore. Morì a Roma nel 1897.