Sette decimi del mondo sono coperti dagli oceani.
Essi mettono cibo sulle nostre tavole, forniscono l’85 per cento dell’ossigeno che respiriamo e regolano il clima del Pianeta. Ma le attività umane li stanno mettendo in pericolo.
Lo scorso 25 settembre 2020 l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, il Gruppo Intergovernativo sul cambiamento Climatico) ha presentato un rapporto sulla situazione che mette i brividi: se anche le emissioni di gas serra venissero ridotte rapidamente e il riscaldamento globale venisse limitato a meno di 2° C, il livello dei mari potrebbe comunque alzarsi di 30-60 centimetri entro il 2100.
In più stiamo spopolando le acque dei loro abitanti: già nel 1992 si era raggiunto il picco della pesca, dopo il quale è iniziato un declino inesorabile delle catture. Un terzo dei mammiferi marini è a rischio di estinzione.
Le nostre emissioni di carbonio hanno triplicato l’acidità degli oceani rispetto al periodo preindustriale, minacciando la vita acquatica da ogni direzione. Ma c’è anche molta gente al lavoro per contrastare tutto questo: “Esistono molte potenziali soluzioni”, dice Heather Koldewey, scienziata della conservazione presso la Società Zoologica di Londra.
“È davvero straordinaria la possibilità che abbiamo di fare del bene al mondo”. Ecco, allora, 5 iniziative brillanti per salvaguardare il futuro degli oceani e salvare noi stessi.
1. La macchina intelligente che cattura la plastica alla radice
Le particelle di plastica ormai sono ovunque nei nostri mari: ne abbiamo trovate persino nelle aree più remote dei poli e sul fondo delle fosse oceaniche.
Esistono già vari progetti per tentare di rimuoverle, ma la start-up Ichthion sta sviluppando una tecnologia per estrarre i rifiuti plastici direttamente dai fiumi.
Questi ultimi rappresentano un fattore importante nell’inquinamento degli oceani perché raccolgono tonnellate di plastica dalla terraferma e la portano al mare.
“Le attività umane che si svolgono centinaia di migliaia di chilometri nell’entroterra hanno un impatto enorme sulle acque”, dice Heather Koldewey, che di recente ha partecipato a una spedizione di ricerca per quantificare i rifiuti plastici nel Gange.
Il sistema Azure di Ichthion consiste in un macchinario che viene posizionato al centro di un fiume e spinge i rifiuti galleggianti verso le rive, dove un nastro trasportatore li raccoglie.
Tramite una telecamera puntata sul nastro, un algoritmo di intelligenza artificiale riconosce i vari generi di rifiuto dal colore e dalla forma, e questo permette ai ricercatori di determinare quali rifiuti sono più comuni e da dove provengono.
“Senza questi dati ci troveremmo a combattere un problema che non comprendiamo davvero”, dice Inty Grønneberg, l'amministratore delegato di Ichthion. Con Azure si possono raccogliere anche ottanta tonnellate di plastica al giorno, che viene poi catalogata, immagazzinata e mandata al riciclo.
I primi sistemi Azure dovrebbero essere installati l'anno prossimo in alcuni fiumi dell’Ecuador, e si spera che possano fermare l’afflusso di rifiuti plastici verso le isole Galapagos.
Ora Ichthion sta lavorando a un altro macchinario che verrà montato su imbarcazioni o filtrerà lo particelle di plastica dall’acqua, un’idea ispirata agli squali elefante che filtrano il plancton con le branchie.
Nella foto sotto, Inty Grønneberg accanto a un componente del sistema Azure, che può eliminare i rifiuti plastici dai fiumi senza danneggiare flora e fauna selvatiche.
2. Barriere coralline più resistenti
Le barriere coralline sono ecosistemi brulicanti di vita, che ospitano un quarto delle creature marine.
Ma, se la temperatura media degli oceani dovesse alzarsi anche solo di due gradi entro il 2100, gran parte delle barriere del mondo andrebbe distrutta.
Una potenziale via per salvarle sarebbe allevare coralli super-resistenti.
In Australia Madeleine van Oppen sta portando avanti un lavoro iniziato anni fa con la biologa dei coralli Ruth Gates, morta nel 2018, che consiste nel testare varie tecniche definite collettivamente “evoluzione assistita”, che vanno dall’allevamento selettivo all’editing genetico.
Alcune specie di corallo sono per natura più adattabili ai cambiamenti di temperatura, e si stanno già ottenendo risultati promettenti con l’incrocio selettivo tra queste e altre specie per produrre ibridi con una più elevata tolleranza all’aumento della temperatura.
Nel frattempo gli scienziati stanno cercando anche di individuare quali geni conferiscono ai coralli più resistenti questa loro caratteristica. Lo scopo finale potrebbe diventare rimpiazzare le barriere naturali con coralli cresciuti in laboratorio.
Heather Koldewey, scienziata della conservazione della Società Zoologica di Londra, avverte tuttavia che non c’è il tempo per decenni di ricerche ed esperimenti: la necessità di soluzioni praticabili è urgente, dobbiamo essere pronti ad agire subito.
In ogni caso, finché i vari paesi del mondo non ridurranno le emissioni di gas serra, “tutto quel che potremo fare per le barriere coralline sarà guadagnare un po’ di tempo”.
Nella foto in alto a sinistra, un ricercatore prepara campioni di corallo in laboratorio. Nella foto sotto, Madeleine van Oppen (a destra) e Line Bay al lavoro per creare coralli più resistenti che possano adeguarsi ai cambiamenti delle condizioni negli oceani.
3. Squali nel cielo
Lungo le coste australiane e sudafricane si usano spesso reti per ridurre gli attacchi da parte degli squali.
Il loro scopo, tuttavia, non è di fungere da barriera tra esseri umani e squali, bensì di intrappolare e uccidere deliberatamente migliaia di questi ultimi ogni anno, in base alla teoria che meno squali significhi meno attacchi.
Gli squali, però, sono predatori collocati in cima alla catena alimentare, e dunque parte fondamentale dell'ecosistema, oltre al fatto che le reti possono intrappolare anche altre creature marine particolarmente vulnerabili come razze, tartarughe e delfini.
Per tenere comunque al sicuro i bagnanti, un’alternativa non economicamente onerosa e sostenibile per l’ambiente è rappresentata dal Progetto Airship, che prevede di impiegare dirigibili equipaggiati con telecamere sensibili al movimento per tenere sotto sorveglianza le coste.
Secondo il fondatore del progetto, Kye Adams, i dirigibili possono pattugliare le rive tutto il giorno, a differenza dei droni della guardie costiere che hanno un’autonomia di appena venti minuti.
Il sistema è stato testato per due stagioni in Australia con l’impiego di “falsi squali", ossia nuotatori umani, e Kye Adams riferisce di essere rimasto positivamente sorpreso da quanto bene le sue telecamere siano riuscite a percepire i volontari che nuotavano con le braccia aperte per imitare un paio di pinne pettorali.
Il prossimo passo sarà impiegare intelligenze artificiali per rilevare i veri squali. A un certo punto i dirigibili potrebbero effettivamente diventare un’opzione per rassicurare bagnanti e surfisti senza dover dispiegare le pericolose reti o lanciare campagne di abbattimento degli squali.
Nella foto sotto, Kye Adams spera che il progetto Airship riesca presto a fermare la strage di squali e l'uso delle reti.
4. Sorvegliare i pescatori di frodo dallo spazio
Fino a pochi anni fa sorvegliare la pesca di frodo in mare aperto era praticamente impossibile: quel che accadeva al di là dell’orizzonte rimaneva perfettamente nascosto.
A partire dal 2016, tuttavia, il Global Fishing Watch ha cominciato a tenere d’occhio gli oceani dallo Spazio.
Si tratta di una collaborazione tra Google, il gruppo di conservazione ambientale Oceana e gli esperti di tecnologia satellitare della SkyTruth, che sta rendendo sempre più difficile alle imbarcazioni nascondere le loro vere attività.
La tecnologia si basa sui sistemi di tracciamento che le grosse imbarcazioni devono obbligatoriamente avere a bordo per segnalare posizione, velocità e rotta al fine di evitare le collisioni: il team del Global Fishing Watch impiega queste informazioni, che sono pubbliche, per insegnare agli algoritmi come funzionano le diverse forme di pesca.
Per esempio i pescherecci che impiegano i palamiti (lunghe lenze dotate di numerosi ami) percorrono più volte in linea retta gli stessi tratti di mare, mentre quelli che impiegano le reti si muovono su rotte meno prevedibili.
Il sistema analizza 60 milioni di punti dati ogni giorno per identificare gli schemi di movimento ricorrenti di oltre 65mila pescherecci e li proietta quasi in tempo reale su una mappa interattiva online, che chiunque può visualizzare e scaricare.
I governi di vari paesi stanno già impiegando questi dati per combattere la pesca illegale nelle riserve marine, e i ricercatori li usano per elaborare strategie di pesca legale più sostenibili per l’ambiente.
Il Global Fishing Watch sa identificare anche le imbarcazioni che tentano di imbrogliare il Sistema: per esempio, i suoi algoritmi si accorgono di quando più imbarcazioni usano lo stesso numero di identificazione, o di quando manomettono i propri sistemi GPS per trasmettere posizioni che non corrispondono con quelle segnalate dal satellite.
5. Mandate i robot!
Gli abissi oceanici sono l’habitat più vasto che esista sul Pianeta, eppure ne sappiamo ancora pochissimo.
Ma, con l’emergere di nuove minacce all’ambiente come le miniere sottomarine, la necessità di studiarli meglio si è fatta urgente: dobbiamo sapere quali specie vivono laggiù e che impatto possono avere su di loro le nostre attività.
Il problema è che l’esplorazione degli abissi è tutt’altro che facile da realizzare.
Ora però nuove tecnologie, tra cui flotte di sommergibili robot chiamati “veicoli subacquei autonomi" (AUV), ci stanno venendo in aiuto.
Con le loro telecamere potenti ad alta risoluzione, gli AUV diventano gli occhi tramite i quali possiamo lanciare uno sguardo sul mondo sotto le acque.
L’unica difficoltà è che serve qualcuno che a posteriori esamini le registrazioni: “Il tempo necessario a visionare tutte quelle immagini è impressionante”, dice Kerry Howell, ecologa marina dell’Università di Plymouth a capo del progetto Deep Links, che di recente ha cominciato a testare l’impiego dell’intelligenza artificiale per accelerare il processo.
Il suo team ha raccolto 150mila immagini registrate da un AUV britannico chiamato Autosub6000 durante un’immersione a oltre un chilometro di profondità presso il Banco di Rockall, nell’Oceano Atlantico.
Il dottorando Nils Piechaud ha avuto l’ingrato compito di visionare 1.200 di queste immagini, identificare 40mila animali di oltre 100 specie diverse e usare questi dati per insegnare a TensorFlow - un algoritmo di deep learning di Google - a identificare a sua volta gli animali che popolano gli abissi.
All’algoritmo sono poi state sottoposte altre immagini che non aveva ancora visto, per testare le sue capacità di riconoscimento. “Con alcune specie se l’è cavata molto bene”, dice Howell.
La macchina, infatti, ha riconosciuto correttamente gli xenofiofori (organismi marini che assomigliano a palle da croquet fatte di favi di miele) il 90 per cento delle volte.
Per ora siamo ancora agli inizi, ma Howell ha fiducia che gli algoritmi potranno assistere i ricercatori nei più gravosi lavori relativi ai numeri e mostrare le vere potenzialità delle tecnologie autonome.
“L’aspetto più affascinante dell’intelligenza artificiale”, commenta l’ecologa marina, “è la sua coerenza interna”: a differenza degli esseri umani, infatti, un algoritmo non si stanca e non commette errori imprevedibili.
È ovvio che nemmeno le macchine hanno sempre ragione, ma i loro errori si possono quantificare e rimuovere dai database, una cosa impossibile da fare quando sono coinvolte le erratiche menti degli esseri umani.
Nella foto in alto a sinistra: questa stella marina dei fondali oceanici, individuata da un AUV dell'Università di Plymouth, è stata vista da occhi umani solo una manciata di volte. Nella foto sotto: Boaty McBoatface è un AUV che esplora gli abissi marini con il British Antarctic Survey.