In inglese si dice “Black lives matter”, una frase che prima è diventata un hashtag e poi un movimento per i diritti umani delle comunità afroamericane.
Ma il conflitto razziale insanguina da sempre l’America e sono stati tanti gli eroi che si sono battuti per l’uguaglianza e la democrazia: da Rosa Parks a Martin Luther King.
1. Nato da un hashtag
Il 25 maggio 2020 l’afroamericano George Floyd viene ucciso a Minneapolis (Minnesota, USA) dall’agente di Polizia Derek Chauvin, che gli preme il ginocchio sul collo per 8 minuti e 46 secondi, ignorando i suoi ripetuti appelli: «Non posso respirare».
L’intervento della Polizia era stato richiesto da un commerciante, che sospettava che Floyd lo avesse pagato con una banconota falsa per acquistare un pacchetto di sigarette.
Manifestazioni e proteste sono dilagate in tutto il Paese, ma un movimento si è imposto sugli altri: Black Lives Matter, letteralmente “le vite dei neri contano”.
È un movimento per i diritti umani sorto nella comunità afroamericana USA che lotta contro la violenza ai danni dei neri.
Ha preso vita dall’hashtag #BlackLivesMatter coniato dopo l’assoluzione nel 2013 della guardia George Zimmerman, che nel febbraio 2012 aveva ucciso il 17enne afroamericano Tryvon Martin in una cittadina della Florida.
L’idea era stata di Alicia Garza, un’afroamericana che aveva seguito il processo a Zimmermann su Facebook, da un bar di Oakland, California. Letto che era stato giudicato “non colpevole”, Alicia aveva scritto di getto un appassionato post che si concludeva così: «Neri. Vi amo. Amo tutti noi. Le nostre vite contano».
Patrisse Cullors, una sua amica, si trovava in un motel a 300 miglia da Oakland. Letto il post di Alicia, lo aveva rilanciato aggiungendo come hashtag le parole finali: #BlackLivesMatter.
Poi le due donne avevano coinvolto una terza amica, Opal Tometi, attivista nel campo dei diritti degli immigrati, e insieme avevano avviato una campagna di sensibilizzazione su Tumblr e Twitter.
2. Ne parla Hillary Clinton
Il 9 agosto 2014 un altro diciottenne nero, Michael Brown, viene ucciso da un poliziotto bianco, Darren Wilson, a Ferguson, Missouri.
Subito scoppiano violente proteste. Alicia Garza organizza una marcia nella cittadina, usando come motto l’hashtag dell’anno prima.
Quando però raggiunge Ferguson, scopre con immensa sorpresa che #BlackLivesMatter appare scritto sui muri e sui cartelli di protesta e viene gridato dai manifestanti.
In seguito l’hashtag è stampato su magliette e oggetti, ma la consacrazione definitiva arriva quando Hillary Clinton, ex segretario di stato USA, lo cita in un discorso sui diritti umani. Nel gennaio del 2015 BlackLivesMatter è eletto “Parola dell’anno”.
Le tre amiche – Garza, Cullors e Tometi – curano negli anni successivi la diffusione del movimento in tutti gli Stati Uniti, con interventi diretti, interviste, video e siti web, senza tuttavia prenderne formalmente la guida: il movimento ancora oggi si dichiara semplicemente network, rete, e non sottintende una vera organizzazione formale o una gerarchia.
Come ha detto la stessa Garza in un’intervista, «quando abbiamo cominciato, #BlackLives Matter era solo una serie di canali sui social media che collegavano tra loro online le persone che intendevano agire insieme nel mondo reale».
Ma chi è la fondatrice di Black Lives Matter? Alicia Garza è nata nel 1981 a Oakland in California, in una famiglia multirazziale: padre bianco, madre nera. Il suo cognome orginale è Schwartz.
Nel 2015 era attivista del BOLD (Black Organizing for Leadership and Dignity, Organizzazione dei Neri per la Leadership e la Dignità). Oggi dirige i progetti speciali del National Domestic Workers Alliance ed è a capo del Black Futures Lab.
Il suo attivismo è cominciato all’università (che ha frequentato a San Diego) quando ha promosso l’educazione sessuale a scuola e il controllo delle nascite e si è impegnata nell’organizzazione della prima Conferenza delle donne di colore nel 2002.
Nel 2003 ha incontrato Malachi Garza, un transessuale attivista. Nel 2008 lo ha sposato, prendendone il cognome. Nella foto sotto, le fondatrici del movimento Black Lives Matter. Da sinistra: Patrisse Cullors, Alicia Garza, Opal Tometi.
3. Le radici profonde
Ma sin dall’inizio #BlackLivesMatter non è stato solo un hashtag: il movimento che ne è scaturito si pone infatti sulla lunga scia delle iniziative per la difesa dei diritti dei neri.
Alla base di tutte le moderne proteste per l’uguaglianza dei cittadini di colore negli USA sta un altro omicidio, quello del quattordicenne Emmett Till nel 1955.
Till viveva con la madre a Chicago, ma quell’anno fu mandato a passare le vacanze estive a Money, una piccola località del Mississippi, nel profondo sud dell’America razzista e segregazionista.
Till fece subito amicizia con alcuni ragazzi coetanei. Il 24 agosto, mentre era in un bar, sembra che abbia rivolto la parola alla proprietaria, una giovane donna bianca di nome Carolyn Bryant.
La donna riferì l’accaduto al marito Roy. Il 27 agosto Roy e il suo fratellastro rapirono Till, lo torturarono e infine lo uccisero con un colpo di pistola. Il cadavere venne trovato qualche giorno dopo, in un fiume.
Le autorità avrebbero voluto seppellirlo senza troppe cerimonie, ma la madre pretese di avere un funerale pubblico e con la scusa di poter vedere il figlio per l’ultima volta ottenne che la bara venisse lasciata aperta.
Tutti poterono così vedere che era stato picchiato selvaggiamente, gli era stato cavato un occhio e aveva il collo martoriato dal filo spinato. Le foto delle torture fecero il giro del mondo e suscitarono enorme scalpore.
I due responsabili, subito individuati, vennero processati per direttissima da una giuria di 12 maschi bianchi che impiegarono 67 minuti per dichiararli innocenti. In seguito ammisero di aver ucciso il ragazzo. Morirono senza aver mai dimostrato alcun pentimento.
4. Un posto in autobus e una marcia, anzi tre
Pochi mesi dopo l’omicidio di Emmett, l’afroamericana Rosa Parks fu protagonista di un altro episodio famoso.
La sera del 1° dicembre 1955, rientrando dal lavoro, salì sull’autobus che doveva portarla a casa, a Montgomery, Alabama, uno degli stati più razzisti degli Stati Uniti, e prese posto.
Quando un bianco, salito dopo di lei, lo reclamò, Rosa rifiutò. L’autista chiamò la Polizia e la donna fu arrestata in base al regolamento locale che appunto imponeva ai neri di cedere il posto ai bianchi. Parks non si ribellò agli agenti e fu impossibile accusarla di resistenza a pubblico ufficiale.
Dell’episodio fu messo subito a conoscenza Martin Luther King, che si affacciava allora sulla scena del movimento per i diritti dei neri, il quale scelse di boicottare i mezzi pubblici di Montgomery come forma di protesta.
Per 381 giorni tutti i neri della città si spostarono a piedi oppure condividendo le poche automobili disponibili e il mancato introito mandò in crisi le società di trasporto.
L’anno successivo il caso arrivò alla Corte Suprema che all’unanimità dichiarò incostituzionale la segregazione sui pullman dell’Alabama e Rosa Parks divenne un simbolo. Montgomery, Alabama, fu lo sfondo di un altro episodio fondamentale nella lotta dei neri.
Nel 1965, dopo l’ennesimo omicidio di un nero, Jimie Lee Jackson, un gruppo di attivisti organizzò una marcia di protesta da Selma a Montgomery: 87 chilometri a piedi per chiedere il diritto di voto per i neri. Il primo tentativo avvenne il 7 marzo e sfociò nella cosiddetta Bloody Sunday, domenica di sangue, quando la polizia caricò i manifestanti disarmati.
Un secondo tentativo, attuato due giorni dopo, abortì perché il governatore dell’Alabama si rifiutò di proteggere i manifestanti. Dovette intervenire il presidente degli USA in persona, Lyndon Johnson, che schierò 2.000 uomini a salvaguardia delle 25mila persone che il 24 marzo raggiunsero la capitale.
5. Due anime
Il pastore battista Martin Luther King (foto sotto) divenne il punto di riferimento del movimento afroamericano non violento.
Ebbe la sua maggiore visibilità il 28 agosto 1963, quando tenne davanti al Lincoln Memorial di Washington il celebre discorso I have a Dream, Io ho un sogno, che dice fra l’altro: «I miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per ciò che la loro persona contiene».
Anche lui fu assassinato (Memphis, 4 aprile 1968), con un fucile di precisione. Ma ai movimenti pacifisti per l’uguaglianza dei neri si contrappongono altri gruppi decisamente aggressivi: un dualismo che riemerge evidente nelle dinamiche delle recenti proteste per la morte di Floyd.
Da un punto di vista storico, il gruppo più famoso tra i “duri” è quello delle Black Panthers, fondato a Oakland, California, da Huey P. Newton e Bobby Seale, che rifiutavano le idee non violente di King, teorizzando il principio dell’autodifesa.
Esso si traduceva nel cosiddetto patrolling, ossia nel pattugliare, tenendo le armi in bella vista, le azioni della Polizia, per impedire abusi di potere contro i neri che venivano fermati. Le Black Panthers inoltre avevano elaborato un’ideologia che recuperava molte idee marxiste e quindi si opponeva al capitalismo statunitense.
Il gruppo venne duramente contrastato dagli apparati statali e dall’FBI e il 4 dicembre 1969 Fred Hampton, uno dei leader, fu ucciso in uno scontro a fuoco. Le Black Panthers si dissolsero.