Calava il sole sul fango impastato di cadaveri nella valle di Dien Bien Phu, lo sperduto villaggio indocinese dove la Francia aveva trovato la Waterloo del suo colonialismo nel Sudest Asiatico.
Da quel desolato anfiteatro di trincee e casematte violate, disseminato di pezzi d’artiglieria andati in frantumi, quel 7 maggio 1954 nasceva un astro militare destinato a diventare l’incubo dei generali occidentali e l’icona dei movimenti di liberazione nazionale che presto avrebbero sbriciolato il consunto assetto coloniale ottocentesco.
Minuto, schivo, calcolatore ma coraggioso, sempre in bilico tra gli insegnamenti di Napoleone e quelli di Marx, il comandante Giap fu senza dubbio il più grande stratega del dopoguerra. Un eroe per il Vietnam, un vero incubo per le potenze occidentali.
Si chiamava Vo Nguyen Giap, ma per tutti divenne semplicemente Giap, il generale Giap. Uno scricciolo d’uomo che superava a stento il metro e cinquanta e che mai avrebbe passato le selezioni all’Accademia di West Point, culla dei futuri comandanti yankee, fusti cresciuti a vitamine e Ovomaltina; e tanto meno a Saint- Cyr, l’esclusiva scuola dove si formavano i nuovi quadri dell’Armée francese, eleganti pargoli di famiglie con pedigree militari che affondavano le radici nel Medioevo.
Giap, con quel nome breve come uno schiaffo e buffo come il personaggio di un fumetto, passava sempre inosservato, veniva per forza sottovalutato. Era una delle sue qualità, e gli spocchiosi stati maggiori occidentali ci cascarono con tutte le scarpe.
Ma la lezione impartita da Giap a Dien Bien Phu, un capolavoro assoluto di strategia militare, in seguito avrebbero dovuto mandarla a memoria e inserirla nei libri di testo, tanto a West Point quanto a Saint-Cyr.
Ma chi era veramente Vo Nguyen Giap, il piccolo generale che fece grande il Vietnam? Scopriamolo insieme.
1. IL GENERALE GIAP
Giap era l’ultimo discendente, ma probabilmente il primo ad aver studiato, di una razza di comandanti vietnamiti che in duemila anni si erano sempre opposti con la tattica della guerra “mordi e fuggi” a ogni tentativo di occupazione.
Cresciuto nel culto di Tran Hung Dao, il grande condottiero che nel XIII secolo aveva guidato la resistenza contro i Mongoli e i Cinesi, il futuro generale era figlio di contadini.
Era nato il 25 agosto 1911 nella provincia povera di Quang Binh, oggi Vietnam centrale e allora inglobata nell’Indocina francese.
Il padre si spaccò la schiena nei campi per mandare Giap e i suoi fratelli a studiare, prima a Hue, quindi al liceo francese di Hanoi, dove i professori si riempivano la bocca di concetti alti e nobili come libertà, eguaglianza e fraternità: parole beffarde se pronunciate in un Paese che di francese aveva conosciuto soltanto il cappio liberticida.
Per dare un senso a quei principi, durante lo studio all’università, dove si laureò in Legge, Giap lesse le opere di Marx ed Engels, e contemporaneamente divorò i resoconti delle campagne di Napoleone e le gesta di Alessandro Magno.
Iscrittosi al Partito Comunista Indocinese, messo al bando dalle autorità nel 1939, seguì il destino da esule di altri compagni di partito, compreso Ho Chi Min, padre del futuro Vietnam indipendente. Fu lui, l’anno dopo, ad affidare a Giap il compito di organizzare il Viet Minh, il braccio armato del movimento di liberazione.
Giap non deluse, cominciando a plasmare quell’esercito di popolo che gli avrebbe meritato l’appellativo di “Napoleone rosso”, il geniale stratega venuto dal nulla che, proprio come l’aquila còrsa, sommava alle doti militari la tempra dell’alacre organizzatore e l’acume sottile del politico.
La sua grandezza non corrispondeva al ritratto romantico e vitalistico del guerrigliero latino-americano che scuote il suo popolo asservito. Al contrario: Giap trovava forza nella fredda lettura marxista della fase rivoluzionaria, nella fede in una guerra di popolo come unico viatico al riequilibrio dell’asimmetria delle forze in campo.
Con le spalle coperte da un esercito di contadini, l’aratro in una mano e il fucile nell’altra, Giap seppe orchestrare magistralmente la resistenza, scegliendo di volta in volta se impiegare le brigate partigiane in azioni di guerriglia o i soldati regolari nelle fasi di guerra convenzionale.
Il battesimo del fuoco per gli embrioni del futuro esercito rosso si ebbe già contro i Giapponesi nel 1940, allorché presero possesso con un blitz dei territori del Sudest Asiatico controllati da Parigi.
Terminato il conflitto mondiale, con il ritorno dell’Indocina alla Francia, in un velleitario tentativo di rinnovare il giogo coloniale, la resistenza dei Viet Minh di Giap si trasformò in insurrezione: Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza del Paese e il successivo intervento armato di Parigi fece esplodere la Guerra d’Indocina, un conflitto che si trascinò dal 23 novembre 1946 al 12 luglio 1954.
2. CUORI VIETNAMITI E ARMI CINESI
Truppe corazzate e unità di fanteria francese presero Hanoi dopo una battaglia casa per casa che durò un mese.
Mentre il governo di Ho Chi Minh era costretto alla clandestinità e le milizie di Giap riparavano sulle montagne del Nordest, gli occidentali rinsaldavano la presa sui principali centri urbani del Vietnam centrosettentrionale.
Ma lo scontro era appena agli inizi. La strategia di Giap, quella di fare del «Paese un vasto campo di battaglia dove il nemico è assediato, attaccato e sconfitto», nel corso dei mesi cominciò a dare i suoi frutti e a frantumare le certezze francesi.
Le contadine portavano armi, munizioni e sacchi di riso ai guerriglieri nascosti nella giungla; i ragazzi informavano dei passaggi di truppe nemiche e fungevano da staffette. Uomini, donne e bambini combattevano in ogni modo: attentati, omicidi, sabotaggi, atti di guerriglia.
L’esercito di Giap non era più il manipolo di 34 indomiti con una sola mitragliatrice leggera e 17 fucili, com’era stato all’inizio. Si incominciava a intravedere la sagoma del temibile Esercito Popolare del Vietnam, e le armi cinesi che iniziarono ad arrivare copiose equipaggiarono un contingente che superava le 5.000 unità.
All’inizio degli anni Cinquanta, la “guerra sporca”, come la chiamavano le opposizioni parigine, aveva già drenato alla Francia più del doppio delle risorse giunte con il piano Marshall. Le vittime, tra morti accertati, feriti e dispersi, superavano le 90 mila unità.
Al nuovo comandante delle truppe, il generale Henri Navarre, nel 1953 venne affidato il compito di cogliere una vittoria da copertina, un successo con cui presentarsi al tavolo delle trattative con gli insorti per decidere del futuro indocinese da una posizione di forza.
Navarre individuò in Dien Bien Phu, un villaggio nella vallata del fiume Nam Hou, al confine con il Laos e a 300 km da Hanoi, il teatro ideale dove insediare una base ben munita che avrebbe funzionato come testa di ponte per azioni mirate contro i Viet Minh.
L’auspicio era quello di stanare finalmente Giap e obbligarlo allo scontro frontale. Accecati dalla spocchia, i francesi non considerarono il pericolo rappresentato da una base così remota, difesa sì da oltre 10 mila effettivi, ma totalmente dipendente dai rifornimenti via cielo.
La superiorità della loro aeronautica, unita a quella dell’artiglieria, sembrava in grado di annichilire qualsiasi tentativo nemico, tant’è che nemmeno si preoccuparono di conquistare e presidiare le alture dalle quali si dominava la base. Giap colse l’attimo e accettò la sfida.
Fece affluire a Dien Bien Phu 50 mila uomini, mettendo in piedi un esercito di fantasmi che si muoveva silente, soltanto di notte, battendo sentieri nascosti attraverso la giungla. Ciò che i francesi non sapevano era che i Viet Minh disponevano di pezzi di artiglieria e addirittura della contraerea: li trascinarono a mano o in bicicletta, nella massima segretezza, a costo di uno sforzo titanico.
Giap distrasse i francesi con uno stillicidio di imboscate e attentati in tutto il Paese, mentre intorno alla base di Dien Bien Phu il cappio si andava lentamente serrando, con un rapporto di forze di cinque a uno a favore dei vietnamiti. Quando le nubi si chiusero, impedendo gli approvvigionamenti (il resto lo fece l’artiglieria di Giap, arando la pista d’atterraggio), l’assedio si trasformò in attacco.
Già al primo colpo di obice i francesi compresero di essere finiti in un tritacarne, un buco fangoso dal quale non era nemmeno possibile rispondere all’artiglieria avversaria, perfettamente mimetizzata nel folto della vegetazione, interrata sulle colline circostanti, che erano state lasciate inspiegabilmente senza presidio.
Scoppiata all’alba del 13 marzo 1954, la battaglia di Dien Bien Phu, durante la quale la resistenza francese scrisse pagine di autentico eroismo, si chiuse il 7 maggio, dopo 55 giorni di assedio.
L’immagine della resa del bunker del generale Christian de Castries, aristocratico comandante della base, segnò la fine dell’Indocina francese e pose il sigillo alla leggendaria vittoria di Giap.
Nell’immaginario collettivo affianca quella, altrettanto iconica, scattata il 30 aprile 1975 a Saigon, che immortalò l’ambasciatore americano in fuga, la bandiera sotto il braccio, mentre saliva su un elicottero posato sul tetto dell’ambasciata.
Nella foto sotto, Ho Chin Minh (a sinistra) discute con Giap la strategia da mettere in atto a Dien Bien Phu poco prima della battaglia (marzo 1954).
3. TOCCA AGLI AMERICANI
Nella giungla vietnamita anche l’elefante americano trovò la prima e unica sconfitta della sua storia militare: le terribili ferite inferte dagli artigli della tigre Giap lo dissanguarono lentamente, fino a farlo capitolare.
Gli Usa, però, non erano i francesi, una potenza coloniale moribonda, bensì il baricentro della politica occidentale, il bastione militare su cui incombeva la responsabilità di reggere la sfida mortale con la Russia di Stalin.
Un duello che passava anche dallo scacchiere del Sudest Asiatico. Parigi non poteva lasciare a Ho Chi Minh le redini dell’intero Vietnam, così il Paese fu smembrato in due all’altezza del 17° parallelo: al Nord i comunisti, al Sud un governo filoamericano; da una parte l’esercito settentrionale, guidato da Giap, dall’altra quello del Sud, armato dagli Stati Uniti.
Come terzo incomodo, il Fronte di Liberazione Nazionale, i cui combattenti diventarono i famosi Vietcong, un movimento di resistenza il cui obiettivo era la riunificazione del Paese sotto il governo comunista. La guerra durò dal 1960 al 1975, con il progressivo coinvolgimento degli Usa in un’escalation che arrivò a trasferire sul suolo vietnamita oltre mezzo milione di uomini in armi.
I bombardamenti sistematici dei territori del Nord, cominciati nel 1965 e continuati ininterrottamente fino alla metà del 1968, rappresentarono la più insistente campagna aerea dalla Seconda guerra mondiale, assommando ben 300 mila missioni: sui centri nevralgici del Vietnam del Nord furono sganciate più bombe che sulla Germania di Hitler.
Nonostante l’immane sforzo bellico, però, la situazione sul terreno rimaneva deludente per gli americani. Nella foto sotto, guerriglieri vietcong nel 1966, durante la Guerra del Vietnam.
Intorno al 17° parallelo si era instaurato un sanguinoso stallo, che soltanto la spregiudicata genialità di Giap poteva far saltare. Facendo proprio lo slogan che era di Danton, “De l’audace, de l’audace et encore de l’audace!” (Audacia, audacia e ancora audacia!), sul finire del 1967 il generale vietnamita mise a punto un piano temerario, ad altissimo rischio di insuccesso.
Si trattava di spostare la guerra dalla giungla, tra paludi e aree rurali, alle principali città del Sud, attaccando proprio dove gli americani ritenevano di essere intoccabili. Gli storici non sono concordi nell’attribuire al “Napoleone rosso” la spallata che portò alla clamorosa offensiva del Têt: c’è chi ricorda come Giap, considerato fin troppo attendista, fosse stato scavalcato da ufficiali ritenuti più audaci.
Eppure, nella spregiudicatezza dello scacco matto vietnamita al colosso statunitense c’è anche il segno inconfondibile dell’eroe di Dien Bien Phu: il sapiente dosaggio di guerra, politica e propaganda per raggiungere la vittoria.
La Guerra del Vietnam fu il primo conflitto moderno a essere coperto dalle televisioni, nel quale i giornalisti seguirono le truppe sul campo, senza essere oggetto di censura. La propaganda della “guerra giusta” e della “vittoria a portata di mano” aveva il fiato corto, quotidianamente smentita dai reportage che recapitavano le immagini degli orrori di un conflitto che si profilava sempre più lungo e oneroso.
Le cronache dall’abisso vietnamita finirono per gonfiare le vele dell’opposizione pacifista, amplificata dalle manifestazioni di piazza e dalle prese di posizioni di artisti e intellettuali non solo negli Stati Uniti, ma in tutto l’Occidente.
Era questo il vero tallone d’Achille del gigante americano: l’impossibilità di dilatare il conflitto senza rischiare di essere travolto dall’opposizione interna. Giap ne era consapevole e studiò il modo di assestare il colpo definitivo al morale già traballante del nemico.
Anche Washington aveva la sua potenziale Dien Bien Phu: una base presidiata dai Marines a Khe Sanh, nelle regioni settentrionali del Vietnam del Sud. E fu sul terrore americano di subire una disfatta simile a quella toccata ai francesi che Giap giocò le sue carte.
Nella foto sotto, 5 maggio 1966, Operazione “Georgia: i Marines fanno saltare in aria bunker e tunnel usati dai Vietcong.
4. CAPODANNO DI SANGUE
Per creare un diversivo e distogliere l’attenzione dal suo vero obiettivo, al generale vietnamita bastò far affluire nei dintorni della base americana le stesse divisioni che avevano intrappolato i francesi nel 1954.
Il messaggio arrivò forte e chiaro allo Stato maggiore statunitense, che infatti si affrettò a far affluire sulla base circa 6.000 Marines.
«Non ci sarà un’altra Dien Bien Phu» assicuravano i vertici Usa, mentre tutta l’attenzione dei media era catalizzata dal destino di Khe Sanh. Proprio quello che voleva Giap.
Con consumata abilità, i suoi uomini spostarono grandi quantità di armi, munizioni e rifornimenti verso il Sud, in vista di una poderosa spallata pianificata per il capodanno vietnamita, chiamato Têt. L’attacco a Khen Shan scattò l’8 gennaio, mentre l’offensiva su larga scala si scatenò la notte tra il 30 e il 31 gennaio.
Le forze comuniste colpirono tutte le maggiori città del Vietnam del Sud con notevole successo, cogliendo impreparate le forze americane e sudvietnamite. La débâcle dell’intelligence Usa fu tale da essere paragonata a quella dei giorni precedenti all’attacco giapponese di Pearl Harbor.
Dopo scontri violenti e pesanti perdite, le forze americane ripresero il controllo della situazione, ma lo shock dei guerriglieri comunisti penetrati perfino nell’ambasciata degli Stati Uniti a Saigon e le immagini dei disperati corpo a corpo per riconquistare le città perdute rimasero negli occhi dell’attonito pubblico americano.
Fu un disastro mediatico per la Casa Bianca: inferiore nel numero e negli armamenti, il nemico era tutt’altro che vinto; ed era ormai palese che né la politica né i vertici militari possedevano una strategia credibile, se non quella del progressivo disimpegno dal teatro di guerra.
Il costo in vite umane per i nordvietnamiti era stato pesantissimo, ma il rischio azzardato corso da Giap si dimostrò un punto di svolta nella guerra. Come ebbe a dire in seguito il generale: «Per noi non esiste una singola strategia. La nostra è sempre una sintesi, allo stesso tempo militare, politica e diplomatica. Questo è il motivo per cui, abbastanza chiaramente, l’offensiva del Têt aveva molteplici obiettivi».
Ormai icona mondiale e padre del nuovo Vietnam riunificato, alla morte di Ho Chi Min, nel 1969, Giap rifiutò il ruolo di presidente della Repubblica, preferendo mantenere quello di ministro della Difesa. Fautore di un comunismo non dittatoriale, ebbe un ruolo chiave nella deposizione del sanguinario dittatore cambogiano Pol Pot.
All’inizio degli anni Ottanta si ritirò a vita privata, rimanendo comunque un punto di riferimento della politica nazionale. Morì il 4 ottobre 2013, all’età di 102 anni. Nelle ultime apparizioni pubbliche, la candida divisa dai galloni dorati quasi lo inghiottiva; soltanto gli occhi brillavano dell’antica intelligenza del fulmine che era stato. Due occhi da rapace su un corpo da passero.
5. IL CAPOLAVORO DI DIEN BIEN PHU E L’ARDITISSIMA OFFENSIVA DEL TÊT
- IL CAPOLAVORO DI DIEN BIEN PHU
Nell’isolato villaggio di Dien Bien Phu, ai confini con il Laos, tra il 13 marzo e il 7 maggio 1954 si svolse la battaglia decisiva della Guerra d’Indocina: la vittoria dei Viet Minh, le forze comuniste guidate dal generale Giap, condannò la Francia al definitivo abbandono del protettorato su quella colonia.
Scattata la mattina del 20 novembre 1953, l’Operazione “Càstore” aveva fatto della vecchia base di Dien Bien Phu la testa di ponte francese contro i guerriglieri vietnamiti: vi prese posto un contingente composto da due battaglioni di soldati di etnia Thai, tre battaglioni di algerini, uno marocchino e quattro francesi, tra paracadutisti e Legione straniera, per un totale di 13 mila effettivi.
Numerosi errori strategici avrebbero condannato la base alla disfatta, dopo un’eroica resistenza. Primo fra tutti aver lasciato ai Viet Minh le colline circostanti, dalle quali gli uomini di Giap (oltre 50 mila) poterono bersagliare indisturbati le casematte nella valle sottostante.
L’attacco scattò il 13 marzo 1954 e i francesi compresero subito di non era nemmeno possibile rispondere all’artiglieria avversaria, perfettamente mimetizzata nel folto della vegetazione, interrata sulle colline circostanti, che erano state lasciate inspiegabilmente senza presidio.
Scoppiata all’alba del 13 marzo 1954, la battaglia di Dien Bien Phu, durante la quale la resistenza francese scrisse pagine di autentico eroismo, si chiuse il 7 maggio, dopo 55 giorni di assedio.
L’immagine della resa del bunker del generale Christian de Castries, aristocratico comandante della base, segnò la fine dell’Indocina francese e pose il sigillo alla avere scampo.
Le nubi basse e le piste di atterraggio danneggiate dai colpi di artiglieria impedirono di ricevere rifornimenti e soccorrere i feriti. La morsa vietnamita si serrò progressivamente intorno all’avamposto nella giungla, che capitolò definitivamente il 7 maggio.
Al termine della battaglia, la Francia contò circa 5.000 morti, in gran parte paracadutisti e legionari, i vietnamiti almeno 8.000 caduti e 15 mila feriti. Finirono in mano vietnamita oltre 11 mila prigionieri, di cui più di 4.000 feriti.
Chi era in grado di camminare fu costretto a sopportare una marcia di 400 km verso i campi di prigionia, durante la quale centinaia di soldati si ammalarono e morirono. Nella foto sotto, i vietminh innalzano la loro bandiera sulle posizioni francesi conquistate a Dien Bien Phu.
- L’ARDITISSIMA OFFENSIVA DEL TÊT
Scattata nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 1968, giorno del capodanno vietnamita (Têt), l’offensiva organizzata dal generale Giap contro le principali città del Vietnam del Sud (la metà del Paese controllata dagli Usa) colse impreparate le truppe americane e sudvietnamite.
Inizialmente fu un successo per i comunisti, che avevano schierato nell’impresa oltre 250 mila uomini. Soltanto dopo violenti scontri e gravi perdite gli statunitensi riuscirono a riprendere il controllo della situazione.
Dappertutto, ma non a Huế (nella foto sotto): nella vecchia città imperiale i combattimenti proseguirono fino ai primi di marzo e i Marines, giunti in soccorso del contingente sudvietnamita, dovettero affrontare una sanguinosa lotta strada per strada.
Nonostante la pronta reazione statunitense, l’offensiva del Têt impose alla Guerra del Vietnam una nuova direzione, rendendo evidente come la sbandierata vittoria a portata di mano di cui la propaganda occidentale si era nutrita fosse ben lontana dal realizzarsi.
Lo shock scosse l’America, costringendola a un progressivo disimpegno, fino all’abbandono definitvo di Saigon nel 1975.
Militarmente fu una sconfitta per le forze comuniste, che lasciarono sul campo oltre 45 mila morti (10 mila le vittime americane e sudvietnamite), ma l’operazione si trasformò in una clamorosa vittoria strategica di Giap, che dimostrò la vulnerabilità degli americani e l’eroica tenacia del suo popolo, disposto a immolare fino all’ultimo combattente. Tempo e sangue che gli Usa, incalzati dall’opposizione pacifista (sia interna che internazionale), non potevano più permettersi di sacrificare.
Nella foto sotto, uno stormo di Boeing CH-47 Chinook americani in azione nella battaglia di Khe Sanh.