Ecco alcune stupefacenti informazioni direttamente dalle frontiere della scienza per allargare il nostro orizzonte quotidiano.
Vi aiuteranno a gestire paure e a conoscere meglio voi stessi e il mondo che vi circonda. Buona lettura!
1. LE DIETE FANNO INGRASSARE (TESTO: ANTHONY WARNER)
"Siccome scrivo di cibo e salute, a volte mi chiedono quale sarà l’equivalente moderno della crisi salutista provocata in passato dai fumatori: a quale abitudine di oggi guarderemo con orrore nel nostro futuro, domandandoci come abbiamo fatto a non capire il pericolo che stavamo correndo?
La mia risposta è la dieta. È mia opinione che tra cinquant’anni i nostri nipoti ci domanderanno come facessimo a credere che brevi periodi di auto-affamamento fossero un buon sistema per alterare il nostro peso, e anche perché coltivassimo l’ossessione di ridurre la meravigliosa varietà dei corpi umani a un’unica forma e un’unica taglia.
Nei Paesi Occidentali sono svariati milioni quelli che hanno tentato almeno una volta una dieta. Gli studi dimostrano che le persone che lo fanno poi riprendono ogni singolo chilo che avevano perso, se non addirittura di più: ricerche comportamentali a lungo termine indicano nelle diete uno dei segni più certi di un futuro aumento di peso.
Test eseguiti su coppie di gemelli hanno dimostrato che può trattarsi di un effetto causale: è l’ossessione stessa di perdere peso che ci porta a guadagnarne. Per quanto i media vogliano farci credere che il nostro corpo sia dotato di una malleabilità senza confine, la verità è che il grasso corporeo è raramente un fattore che possiamo controllare.
A determinare il nostro peso sono in buona parte i nostri geni: quando il cibo è liberamente disponibile, il peso individuale è un fattore ereditario prevedibile più o meno quanto la statura.
A contribuire sono vari elementi fisiologici, per esempio la leptina, un potente ormone prodotto dai nostri tessuti grassi, i cui livelli calano drasticamente quando cominciamo a perdere peso. La parte più primitiva del nostro cervello lo interpreta come un segnale della necessità di mangiare di più e ci fa reagire di conseguenza.
E, per quanto allungare la scala temporale ci dia un’illusione di controllo sul fenomeno, questo bisogno di mangiare è potente non meno di quello di respirare: possiamo sopprimerlo per giorni, settimane, magari persino mesi, ma alla fine sarà lui a vincere.
A peggiorare ulteriormente la situazione, gli ormoni possono rallentare il nostro metabolismo in risposta alla scarsità di cibo, arrestando le funzioni non essenziali allo scopo di risparmiare calorie.
Questo fenomeno si è evoluto molto prima delle diete delle celebrità e non sa distinguere tra una dieta volontaria e una carestia che rischia di ucciderci. Non è divertente come sembra: il processo di conservazione delle calorie può provocare letargia e sbalzi d’umore, diminuire le reazioni immunitarie e far calare il desiderio sessuale.
Senza considerare i danni psicologici, in un mondo che considera la magrezza e la conformità fisica obiettivi fondamentali e tratta chi ha fallito una dieta come il peggiore tra i perdenti.
Invece di percorrere ostinatamente queste vie che ormai sappiamo fallimentari, dovremmo piuttosto riflettere su che cosa potrebbe migliorare la nostra salute al di là di una perdita di peso: fare esercizio, mangiare cibi migliori, smettere di fumare, dormire meglio e ridurre lo stress sono tutti comportamenti con la concreta potenzialità di renderci più sani e più felici.
Ma in una società ossessionata dal grasso queste cose vengono accantonate come inutili sciocchezze se non provocano una perdita di peso. Ai nostri occhi il grasso è diventato l’unico e solo problema, e i suoi nemici si schierano in fila per tentare di venderci le loro soluzioni.
Tutti i guru della dieta proclamano di possedere l’unica vera soluzione e di sapere come ridurre all’obbedienza una volta per tutte ogni capriccio dei nostri corpi.
Ma forse il nostro problema non è che non abbiamo ancora trovato la dieta giusta per noi: forse il nostro problema è il rifiuto di accettare che privarci temporaneamente del nutrimento non è un modo sensato per migliorare la nostra salute".
Anthony Warner è chef e scrittore, noto come “The Angry Chef” (“Lo Chef Arrabbiato”).
2. CI PIACE QUANDO CI MENTONO (TESTO: CHRISTIAN JARRETT)
"Mark Twain diceva che una menzogna ha già fatto mezzo giro del mondo quando la verità si sta ancora mettendo le scarpe. E anche questa è una menzogna.
Probabilmente Mark Twain non ha mai detto nulla di simile, e l’origine della citazione resta incerta. Tuttavia, grazie alle recenti ricerche sulla diffusione delle notizie false via Twitter, ora sappiamo per certo che le menzogne viaggiano più veloci della verità, e la causa principale sembrerebbe la nostra fame di novità.
In uno studio pubblicato all’inizio del 2018 sulla rivista Science, tre ricercatori del MIT hanno analizzato 126mila notizie twittate da circa tre milioni di persone tra il 2006 e il 2017. Un punto fondamentale è che si trattava di notizie verificate dalla prima all’ultima come vere o false da sei siti di fact-checking, tra cui snopes.com e factcheck.org.
Confrontandole tra loro, lo studio ha appurato che le notizie false si diffondevano di più e più rapidamente: in termini numerici, i tweet veritieri hanno raramente raggiunto più di mille persone, mentre i più diffusi tra quelli falsi ne hanno raggiunte anche centomila.
Le notizie false avevano una probabilità del 70 per cento in più di quelle vere di venire ritwittate, e in media a quelle vere occorreva sei volte il tempo che occorreva a quelle false per raggiungere 1.500 persone.
Una possibile spiegazione avrebbe potuto essere che le notizie false venissero diffuse da utenti Twitter più popolari o più attivi, ma la ricerca ha scoperto il contrario: il tipico utente più portato a diffondere falsità tendeva ad avere pochi follower e a non essere particolarmente attivo sul web.
E la colpa non può nemmeno essere dei bot (gli account automatici) perché lo studio ha dato risultati analoghi anche dopo che i ricercatori hanno rimosso tutti i tweet provenienti da bot. Quindi che cosa porta i tweet falsi a diffondersi così tanto?
Analizzando i contenuti delle notizie stesse, i ricercatori si sono resi conto che quelle false tendevano a essere più nuove e interessanti di quelle vere. Inoltre le menzogne erano più mirate a suscitare risposte emotive: le riposte degli utenti ai tweet falsi spesso contenevano un gran numero di parole ed espressioni di sorpresa e disgusto.
“È ben noto che le novità attirano l’attenzione degli esseri umani”, dice il professor Sinan Aral, che ha guidato la ricerca. “Siamo più portati a diffondere le novità non solo perché sono sorprendenti e ci fanno quindi sperare che ai nostri pari farà piacere sentirle, ma anche perché chi le diffonde guadagna in status sociale, dando l’impressione di essere una persona ‘che ne sa’ o che ha accesso a fonti di informazione privilegiate”.
Insomma non solo le menzogne premono più facilmente i nostri tasti emotivi, ma anche l’atto stesso del diffonderle ci fa sentire meglio. La ricerca in questione, peraltro, non riguardava direttamente il perché la maggior parte di noi è così disposta a credere alle notizie false: presumibilmente, non diffonderemmo così tante falsità se le riconoscessimo come tali.
Purtroppo, decenni di ricerche psicologiche ci confermano che, molto semplicemente, gli esseri umani non sono molto bravi a valutare le informazioni che ricevono. Ragionare troppo sulle cose non ci piace: preferiamo saltare in fretta alle conclusioni (siamo degli “spilorci cognitivi”) e veniamo spesso ingannati da fattori come la facilità di comprensione di un’affermazione o la sua popolarità o il suo essere in linea con i pregiudizi che già ci portiamo dietro.
Dunque, chiunque abbia detto per primo che le menzogne viaggiano veloci aveva ragione... Ora dobbiamo solo trovare un modo per fermarle".
Christian Jarrett è psicologo e autore del libro Great Myths Of The Brain (Wiley-Blackwell).
3. MORIRE NON È BRUTTO COME SI PENSA (TESTO: KATHRYN MANNIX)
"Una verità scomoda: ciascuno di noi si sta avvicinando alla fine della sua vita. Ogni giorno che passa è un giorno in meno, solo che non ci piace affatto parlarne, o anche solo pensarci.
quando lo facciamo ci sorgono solo pensieri di panico, dolore eperdita di controllo: ci terrorizza l’idea di dover dire addio e della tristezza che lasceremo dietro di noi, ci spaventa l’immagine delle morti che abbiamo visto in televisione o al cinema.
Lavoro nella medicina palliativa da oltre trent’anni: il mio compito è migliorare le condizioni di chi è vicino al termine della sua vita. Sono stata al capezzale di un gran numero di morenti e questo mi ha insegnato molte cose tanto sulla realtà quanto sulle illusioni che circondano la morte.
Nei Paesi Occidentali la maggior parte delle persone muore per cause che danno un certo preavviso: questa gente sa con un po’ di anticipo di dover morire. Se vi venisse notificato che vi resta solo un tempo limitato sulla Terra, che cosa vorreste fare? Chi vorreste accanto? Preferireste essere in ospedale o a casa vostra? Che posizione avreste verso l’ipotesi di essere tenuti in vita da una macchina, anche se non doveste più riprendere conoscenza?
Quali trattamenti si qualificherebbero come accanimento terapeutico per voi? Donereste i vostri organi? Dunque, vi do una buona notizia: quasi di sicuro la vostra morte sarà meno brutta di come la immaginate. Esattamente come la nascita, la morte segue uno schema prevedibile.
All’inizio la malattia riduce un po’ per volta le energie del morente, in base a meccanismi complessi ma che portano tutti ad aver bisogno di dormire sempre più spesso: i sonnellini aiutano, ma la poca energia rimasta si esaurisce in fretta e in breve ci si riaddormenta.
Con il tempo i periodi di sonno si fanno sempre più lunghi e cambiano qualitativamente: il morente in genere non se ne accorge, ma per lui cominciano momenti di perdita di conoscenza da cui risulta impossibile svegliarlo. È in questa fase che si deve passare dalla normale somministrazione di farmaci a medicazioni costanti, come una flebo, per poter gestire i sintomi anche quando non è possibile svegliare il paziente per fargli prendere le sue medicine.
Se la malattia non inibisce le sue facoltà mentali, il morente apprezzerà la vicinanza di familiari e amici durante i periodi di coscienza, come pure un sorso di liquido o anche un cucchiaio di qualcosa di buono, anche se le persone in questa fase raramente hanno appetito. Probabilmente la persona preferirà stare a letto, con la compagnia della quiete o della sua musica favorita.
Da qui in avanti i periodi di perdita di conoscenza si fanno sempre più lunghi, finché il morente semplicemente non rinviene più. A questo punto ha inizio un altro cambiamento: nell’incoscienza profonda il respiro è regolato dall’unica parte del cervello ancora operativa, che produce un ciclo automatico oscillante tra respirazione profonda – e a volte rumorosa – e respirazione molto leggera.
Tra l’una e l’altra ci sono intervalli a volte brevi a volte prolungati, e possono verificarsi periodi di apnea lunghi anche vari secondi. Può anche accumularsi della saliva in gola, che gorgoglia per il passaggio dell’aria e rende il respiro rasposo. Ma sono tutti segni di profonda incoscienza, non di disagio. Nella fase conclusiva il respiro si fa lento e superficiale, e infine c’è una esalazione a cui semplicemente non segue un’inalazione.
Sì: è facile e delicato come sembra. A volte è così delicato che chi sta attorno al letto nemmeno se ne accorge. Niente dolore o panico o perdita del controllo. È così che la maggior parte delle persone passa attraverso la morte. Conoscendo questo schema, i morenti possono decidere consapevolmente dove e come ci si prenderà cura di loro. Ai familiari vengono spesso affidate le ultime volontà di chi se ne sta andando: la vostra famiglia conosce le vostre?"
Kathryn Mannix è un medico specializzato in cure palliative.
4. POSSIAMO INDIRIZZARE L’EVOLUZIONE (TESTO: JV CHAMARY)
"La selezione naturale rende più comune una caratteristica solo se questa aiuta un organismo a sopravvivere o a riprodursi. Ma oggi possiamo aggirare questa limitazione accelerando l’evoluzione con il metodo chiamato gene drive.
Si tratta di una tecnologia che utilizza frammenti di DNA (i drive) che violano le leggi dell’ereditarietà. Molti organismi ereditano i geni in coppie di cromosomi, uno da ciascun genitore: in tal modo la progenie ha una probabilità del 50 per cento di ereditare la copia paterna o quella materna di ciascun gene.
Ma un gene drive può “copiare e incollare” la sua sequenza di DNA dal cromosoma che la porta sull’altro, garantendone il passaggio al 100 per cento della progenie di un dato organismo. Entro un certo numero di generazioni, il gene drive si diffonde rapidamente nel pool genetico di una popolazione.
La possibilità di modificare un’intera popolazione prima era limitata solo ai fenomeni genetici naturali: i drive possono presentarsi spontaneamente, ma solo in determinate occasioni. Adesso, invece, con il sistema di editing genetico chiamato CRISPR si possono creare drive che prendono di mira specifiche sequenze di DNA, una prospettiva impensabile solo dieci anni fa.
“Nessuno ha mai anche solo immaginato che saremmo diventati capaci di editare il patrimonio genetico di specie intere”, dice l’ingegnere evoluzionistico Kevin Esvelt del MIT, che ha realizzato il primo gene drive nei lieviti e ha anche dimostrato che si possono individuare e sovrascrivere modifiche precedenti, e che quindi il gene drive è reversibile.
Questa tecnologia potrebbe cancellare malattie come la malaria, che solo nel 2016 ha ucciso 445mila persone. La malaria è provocata da un parassita del sangue trasmesso agli esseri umani da zanzare femmine infette, dunque un approccio al suo contenimento sarebbe eliminare gli insetti portatori bloccando la loro riproduzione.
L’idea viene testata nell’ambito del progetto “Target Malaria”, guidato dal genetista Austin Burt e dall’immunologo Andrea Crisanti, dell’Imperial College London, che nel 2018 hanno impiegato dei gene drive che rendevano infertili le femmine di zanzara: entro otto generazioni la popolazione usata nel test è collassata. Nel mondo esterno questo sistema potrebbe far crollare il numero delle zanzare al di sotto del minimo necessario per sostenere la diffusione dei parassiti che provocano la malaria.
La tecnologia si potrebbe usare anche per proteggere i raccolti agricoli: un drive apposito potrebbe alterare gli insetti nocivi perché non apprezzino più il sapore delle nostre piante coltivate, il che eliminerebbe la necessità di pesticidi tossici. I gene drive potrebbero anche attaccare le specie invasive che minacciano gli organismi locali, come i ratti, responsabili di intere estinzioni animali sulle isole.
Ma questa tecnologia può anche fare del male. Un modello matematico elaborato dal team di Esvelt predice che un drive capace di espandersi indefinitamente può fuoriuscire dalla sua popolazione di partenza (a causa delle migrazioni animali o di diffusioni accidentali o deliberate) e diffondersi in altre aree.
A meno che non si voglia sterminare una specie intera, è meglio impiegare drive auto-limitanti con effetti temporanei (e, si spera, geograficamente circoscritti). Tuttavia, nonostante i potenziali rischi, Esvelt ritiene che i gene drive siano un’innovazione straordinaria: “È un modo per usare gli strumenti della natura per risolvere problemi ecologici”.
JV Chamary è un giornalista scientifico con un dottorato in biologia evolutiva.
5. IL VOSTRO VERO “SÉ” NON È VERO (TESTO: GIULIANA MAZZONI)
"Quando la conobbi, LC aveva venticinque anni. Mi dissero che era una ragazza piena di bellissimi ricordi, e i bellissimi ricordi sono il mio campo di ricerca.
LC rammentava la sua vita come una lunga storia ricca di eventi e dettagli: i colori dei suoi abiti, le parole esatte di tante sue conversazioni, decine di particolari della sua routine.
C’era però un piccolo “difetto”: la sua meravigliosa memoria copriva solo il periodo dai nove ai quattordici anni e riguardava soltanto eventi direttamente correlati alla sua fede cattolica.
Di quei momenti ricordava ogni cosa, ma su tutto il resto della sua vita aveva solo ricordi vaghi e sparsi, come ciascuno di noi. Il suo caso può sembrare insolito, ma in realtà è solo un’estremizzazione di quel che facciamo tutti ogni giorno: creare una storia del nostro passato.
Abbiamo bisogno della nostra storia personale, perché ci dà il senso di chi siamo nel presente, ma il passato che vive nella nostra memoria non è sempre una rappresentazione fedele di quel che è realmente accaduto. Nella tarda adolescenza LC ha vissuto gravi problemi psicologici, dunque si è costruita una storia personale – in parte vera, in parte no – che spieghi a lei stessa le sue sofferenze.
Dalle ricerche in merito emerge che ciascuno di noi compie costantemente una selezione dei propri ricordi basandosi sui bisogni e gli obiettivi del momento: è un meccanismo psicologico inconscio chiamato “sistema di monitoraggio”.
Provate a pensare all’ultima volta che una particolare vista, odore o suono vi ha riportato alla memoria una specifica immagine: in psicologia questi sono definiti “ricordi involontari”. Il nostro sistema di monitoraggio ci dice se queste immagini hanno il “sapore” di un vero ricordo (cioè se sono dettagliati ed emotivamente significativi) e se si adattano alla nostra attuale idea di noi stessi (cioè quanto sono “plausibili”).
Se la risposta è affermativa, vengono integrati nella nostra storia personale; se non lo è, vengono accantonati, almeno per il momento.I ricordi di LC riempirebbero cinquecento pagine scritte, forse di più. “Me lo ricordo così bene”, diceva sempre. “Quel giorno in cui andavo in bicicletta con la mia gonna rosa e viola e l’elastico rosa tra i capelli. Poi sono caduta e mi sono graffiata la gamba”.
È impossibile stabilire quanti di questi siano fatti realmente accaduti, ma dalle nostre valutazioni è emerso che una buona parte della memoria di LC è falsa. La ragazza però – è importante capirlo – non stava mentendo: semplicemente, ricordava cose non avvenute.
Per tutta la vita il celebre neurologo Oliver Sacks ha avuto un ricordo vivido del Blitz su Londra... ma non si trovava nemmeno lì in quel momento. In uno studio del 2010 il mio team presso l’Università di Hull ha stabilito che il 20 per cento dei partecipanti aveva almeno un ricordo di qualche fatto che non pensava più fosse avvenuto per davvero.
Questo genere di falsi ricordi è il risultato della capacità del nostro cervello di immaginare scenari possibili (e impossibili), a volte basandosi su qualcosa che ci è successo sul serio, a volte inventando di sana pianta. Si tratta di immaginazioni tanto vivide ed emotivamente intense che riescono a ingannare persino il sistema di monitoraggio, che di conseguenza le cataloga come veri ricordi. Insomma, il passato che ricordiamo non è vero al 100 per cento.
Ma questa non è per forza una cosa negativa: la nostra memoria esiste per fornirci un costante e plausibile “senso del sé” che ci permetta di gestire gli alti e bassi della vita, e anche un passato non interamente affidabile serve a tale scopo.
I problemi sorgono solo quando la narrazione del passato che ci facciamo da soli e la realtà dei fatti divergono troppo, come nel caso di LC: la maggior parte di noi convive assolutamente bene con i suoi ricordi selettivi. In altre parole, la nostra identità può anche essere in parte falsa, ma senza di essa saremmo perduti".
Giuliana Mazzoni è una psicologa esperta di memoria che lavora presso l’Università di Hull.