Nel Ventunesimo secolo l’indignazione è diventata l’emozione che ci definisce maggiormente, una sorta di “medaglia al valore” da ostentare con orgoglio.
Le orde di Twitter sono sempre pronte a rovesciarsi conio una valanga contro chi sostiene un’ideologia diversa dalla propria. La rabbia viene cercata, corteggiata ed esaltata come mai prima d’ora.
Quale che sia lo schieramento che si sceglie, lo sdegno e la sete di vendetta – spesso accompagnati da scarsa attenzione al contesto e altrettanta scarsa compassione per chi in 280 caratteri o anche meno potrebbe aver commesso un errore – sono diventati ormai un fenomeno inquietante.
Seduto sul seggiolino di un autobus, armato di smartphone e protetto dal completo anonimato, chiunque ha il potere di bullizzare, abusare e umiliare.
Ma perché siamo tutti così furiosi? E’ la nostra cultura che ci spinge ad arrabbiarci sempre di più?
Questa rabbia che esplode in un istante e questa polarizzazione aggressiva rischiano di sconfinare dallo schermo alla vita “reale”, quella di carne e sangue?
O, ipotesi ancor meno tranquillizzante, quel che avviene online è solo uno specchio di quel che è già presente tra di noi?
1. RIBOLLIRE IN SILENZIO
È difficile stabilire da un punto di vista scientifico se oggi ci arrabbiamo di più o semplicemente manifestiamo in maniera più pubblica la nostra rabbia.
L’ultimo Rapporto Globale Gallup sulle Emozioni iniziato nel 2016 e basato su 151mila interviste in 140 paesi diversi, ha riscontrato che il numero di persone che si dichiarano arrabbiate è aumentato, con una media globale che attualmente si aggira attorno al 22 per cento (nei paesi che vivono in guerra la percentuale raddoppia, con un 43 per cento di arrabbiati in Palestina e un 44 per cento in Iraq).
Tuttavia lo psicoterapeuta e scrittore Aaron Balick si sente di affermare con sicurezza che, nell’era di internet, “la contagiosità emotiva della rabbia è cresciuta, e la rapidità con cui si diffonde in una popolazione è palese”.
C’è da dire che fino a tempi recenti mostrare apertamente rabbia era un segno di mancanza di autocontrollo: la maggior parte delle persone si sforzava di tenero nascoste determinate reazioni, e si pensava che la “giusta collera” fosse una cosa riservata a Dio e ai predicatori.
Oggi invece, nelle parole della storica Barbara H. Rosenwein, la rabbia “si è secolarizzata e generalizzata... al punto che la furia di chiunque appare virtuosa".
Qualunque causa uno decida di sostenere, che sia il femminismo, l’attivismo ecologista o la Brexit, esprimere indignazione oggi può essere visto come qualcosa di nobile e coraggioso, una forma di superiorità morale. Ma, a conti fatti, è un atteggiamento produttivo?
Ecco i consigli di una negoziatrice per gestire le persone arrabbiate. Suzanne Williams è un'esperta di negoziati con ostaggi che ha collaborato con l'FBI e Scotland Yard, contribuendo alla risoluzione pacifica di centinaia di rapimenti.
Nelle situazioni con ostaggi, abbiamo un mantra: cercare di capire prima di cercare di essere capiti. La stessa situazione si presenta anche con le persone arrabbiate.
Innanzitutto dobbiamo tenere a freno le nostre emozioni, perché sono l'unico elemento su cui abbiamo controllo: i commenti aggressivi o negativi non devono mai essere presi sul piano personale, e bisogna badare a non alterare il proprio tono di voce in reazione a quello dell'interlocutore.
Si deve lasciare che la persona arrabbiata si sfoghi, badando nel contempo alla nostra sicurezza: dirle di calmarsi non è mai d'aiuto, mentre mostrare empatia spesso lo è.
Conviene guardarla sempre negli occhi senza sorridere, per farle capire che la stiamo prendendo sul serio, e ascoltarla in maniera proattiva, per comprendere il meglio possibile qual è la situazione. A qualunque minaccia si deve reagire con la calma.
Frasi come "So che non lo farai davvero" vanno evitate: molto meglio "Per favore non farlo". Meglio non dire nemmeno che capiamo che cosa l’interlocutore sta provando, perché in realtà noi non sappiamo che cosa ha dovuto passare.
Possiamo piuttosto dire qualcosa come "Se ho capito correttamente quel che intendi...", per sottolineare sia il nostro sforzo di comprendere sia le preoccupazioni di chi ci parla.
Quando ci sembra di avere le idee più chiare, dobbiamo tentare di comunicare con calma. Frasi come "Comprendo il tuo punto di vista" o "Dev'essere una situazione frustrante" sono un buon punto di partenza.
Anche usare il nome dell'interlocutore, se culturalmente appropriato, può aiutare a calmare gli animi, perché è una reazione automatica prestare attenzione quando sentiamo chiamare il nostro nome.
2. VEDERCI ROSSO
"I comportamenti aggressivi hanno un enorme costo economico”, dice Nadja Heym, psicologa della Nottingham Trent University specializzata in differenze individuali, psicopatologia e comportamenti antisociali.
“Il loro impatto sui rapporti interpersonali, la produttività lavorativa, la salute mentale e la salute in senso generale è pesantissimo”.
E, se è vero che non possiamo impedire a noi stessi di arrabbiarci, permettere alla rabbia di diventare qualcosa di costante nella nostra vita, quasi una malattia cronica, rischia di farci varcare la linea dell’abuso.
“Lasciare libera la rabbia in una certa misura può essere funzionale”, spiega la Heym. “A renderla disfunzionale sono l'intensità e la frequenza con cui viene espressa, e la sua durata”.
In quanto istinto basilare di sopravvivenza di fronte a una provocazione, una frustrazione o una minaccia, la rabbia innesca una risposta “attacca o fuggi”.
"È un'emozione per la quale siamo programmati”, dice la Heym, “in grado di mobilitarci ed energizzarci fisicamente”. Quando ci arrabbiamo il battito cardiaco accelera, siamo inondati di adrenalina e “vediamo rosso”.
Per controllare questi istinti animali legati all’amigdala la corteccia orbitofrontale fornisce un contesto, mentre i lobi frontali monitorano e regolano le emozioni, ma può accadere che il sistema sia mal regolato, a volte per fattori genetici, ma anche per comportamenti appresi (per esempio crescere in un ambiente domestico violento) o per una cattiva gestione personale della rabbia stessa.
“La rabbia”, spiega la Heym, “porta con sé una sgradevole risposta cardiovascolare, che a sua volta può provocare sentimenti negativi dei quali sentiamo il bisogno di liberarci”.
Lasciar sfogare tutte queste cose all’esterno può dare un senso di sollievo, ma più spesso lo facciamo “più ci abituiamo ad associare il sollievo agli scoppi di furia”. Questo può finire per allontanarci da qualunque impiego produttivo della rabbia a favore delle esplosioni incontrollate.
Anche rimuginare a lungo può favorire gli scoppi di collera: “Se continuiamo a pensare alla nostra rabbia e ai motivi che l’hanno provocata, seguitiamo a portarci dietro un’emozione negativa che con il tempo può intensificarsi”.
3. UNA COLLERA SENZA FINE
Il problema dell’accesso non-stop ai social media è che i nostri confini personali, la nostra identità e i nostri valori possono venir attaccati ogni volta che guardiamo il cellulare, trasformandoci letteralmente in una scatola piena di fiammiferi.
“Si potrebbe dire che le persone siano ferite in maniera costante”, dice Balick, che assimila la riduzione dei nostri margini di tolleranza a quel che ci succede quando siamo al volante.
"Ci troviamo in uno stato di stress, alto o basso che sia: se qualcuno d’improvviso ci sterza davanti, siamo più portati a reagire urlandogli addosso dal finestrino. Se lo stesso stimolo ci colpisse mentre siamo relativamente calmi, avremmo una soglia di sopportazione a tenerci sotto controllo. Allo stesso modo, le persone esposte spesso alla rabbia sui social media tendono ad avere soglie più basse”.
I social media rivestono un interesse particolare per Aaron Balick, che ha psicoanalizzato il comportamento delle persone on line per il suo libro The Psychodynamics Of Social Networking.
Dalle sue ricerche emerge che una parte considerevole della rabbia on line dipende dall’anonimato. Le persone sembrano più portate a usare account anonimi su Twitter che non su Facebook: “Se nessuno sa chi sei veramente, ti senti più portato a scagliare dove vuoi la tua rabbia”.
Similmente, la sicurezza e l’anonimato relativi che proviamo quando siamo nella nostra auto possono portarci a comportamenti straordinariamente offensivi, che sottolineano a quali reali estremi siamo capaci di spingerci quando pensiamo di farla franca.
Il potere dell’anonimato è dimostrato da un celebre esperimento condotto nel 1970 da Philip Zimbardo, oggi professore emerito di Psicologia all’Università di Stanford, nel quale ad alcune studentesse veniva chiesto di infliggere scariche elettriche ad altri studenti.
Alcune di loro vennero nascoste con cappucci sul viso e luci basse. Non è difficile immaginare quale dei due gruppi inflisse il doppio delle scariche elettriche rispetto all’altro.
Qualche anno dopo, nel 1976, lo psicologo Ed Diener diede a 1.300 bambini la possibilità di rubare denaro e dolciumi durante un’uscita di “dolcetto o scherzetto” ad Halloween: quelli la cui identità rimaneva nascosta ne rubarono quantitativi nettamente superiori agli altri, come pure quelli che potevano agire in gruppo anziché da soli.
Anche la Heym sottolinea come le persone siano più disposte a manifestare rabbia o aggressività quando si trovano in una folla: “Le persone si sentono meno identificabili, mentre noi abbiamo la sensazione di essere assediati e invasi nel nostro spazio personale”.
4. LA RABBIA CONTAGIOSA DELLE MASSE DI TWITTER
La rabbia contagiosa delle masse di Twitter è un esempio anche troppo familiare, ed è una forza terrificante con cui confrontarsi: un tweet con cui non si è d'accordo viene ritwittato in toni polemici da altri, diventa virale e in capo a pochi giorni il suo autore originario è diventato un bersaglio, che è lecito minacciare di morte e che può anche perdere il lavoro, mentre i suoi assalitori si sentono sempre più galvanizzati dal giustificazionismo nato dall'essere una folla.
Allo stesso modo, scrivere un tweet iroso che riceve molti like e viene ritwittato può rafforzare la nostra rabbia, e questa può essere un’esperienza elettrizzante in se stessa. Oppure può darci una tale soddisfazione che la rabbia originaria finisce per scomparire.
“La rabbia è un’emozione piuttosto sensazionalistica”, spiega Balick. “Da una palla di neve può prodursi una valanga in cui il successo delle nostre esternazioni ci rende sempre più dipendenti dai feedback che riceviamo. È proprio così che funziona il contagio emotivo”. Ma è lecito affermare che Twitter sia volutamente configurato per alimentare la rabbia degli utenti?
“Non so se ci sia dietro un reale intento di questo tipo”, dice Balick. “Quel che so è che le emozioni che più fanno battere il cuore, come rabbia, paura o sesso, tendono a essere le più contagiose”. E se questi argomenti per loro stessa natura circolano più degli altri, gli algoritmi dal canto loro non faranno che esacerbare il contagio.
In ogni caso, per quanto alcuni possano sentirsi esaltati nell’esprimere furia su Twitter, Balick pensa che non ci sia proprio nulla di produttivo in tutto questo: “Processare la rabbia è produttivo”, spiega. Per esempio, se ci arrabbiamo con qualcuno che ci pungola in continuazione e quella persona si scusa, abbiamo processato la nostra rabbia.
Anche parlare con il partner o con un amico di quel che ci fa arrabbiare può aiutarci a processare. "Ma se andiamo in giro per la strada urlando 'Odio le persone che mi pungolano!' e altri si mettono a urlare in risposta 'Anch’io odio quelli che pungolano me!', non otteniamo proprio nulla di produttivo. In questo caso la rabbia non serve a niente: si propaga soltanto”.
È comunque difficile appurare quanto impatto abbia la rabbia che viaggia su Twitter sulle nostre vite off line. “I social sono un’estensione di quel che accade nella realtà”, puntualizza Balick. A far arrabbiare la gente sono la povertà, le disuguaglianze, la sfiducia verso i politici, le minacce ai diritti sulla riproduzione, l’esclusione sociale e molte altre questioni concrete.
“In qualche caso i social fungono da accelerante: accrescono rabbia, frustrazioni e polarizzazioni che sono già presenti”. Si può poi sottolineare che ad alimentare la polarizzazione è anche il modo in cui regoliamo a livello personale i nostri flussi di notizie.
“Social come Twitter tendono a potenziare il bias di conferma: se abbiamo un’opinione su qualcosa, saremo portati naturalmente ad accettare notizie e storie in linea con i nostri pregiudizi, e Twitter e Facebook non faranno altro che incapsularci ulteriormente in una bolla di realtà filtrata. È probabilmente corretto affermare che una situazione del genere induce e accresce quell’indignazione ‘sicura i di sé’ che può poi tracimare anche fuori da internet”.
Nel 2013,Justine Sacco, senior PR officer trentenne di New York, si recò in Sudafrica per far visita alla famiglia. Stanca e stufa per il viaggio, postò una serie di tweet sarcastici ai suoi 170 follower appena prima di imbarcarsi per una coincidenza a Heathrow.
A metterla nei guai fu in particolare un tweet che, nelle sue parole, aveva lo scopo di prendere in giro i suoi stessi privilegi di persona di razza caucasica: "Vado in Africa, spero di non beccarmi l'AIDS. Ma sto scherzando: sono bianca!"
Quando atterrò, undici ore dopo, l’hashtag #HasJustineLandedYet aveva già fatto il giro di Twitter: una marea di persone le dava della razzista, chiedeva che venisse licenziata dal suo lavoro e gongolava al pensiero della sua reazione quando avesse acceso il cellulare una volta a terra. Qualcuno si premurò persino di fotografarla subito dopo l'atterraggio e di diffondere la foto on line. Justine perse per davvero il lavoro e divenne un paria.
Questa cultura tossica dello scherno pubblico è diventata in un certo senso la norma on line: sono molte le celebrità che vengono regolarmente "cancellate" (ossia perdono il sostegno di parte dei loro follower) per qualche tweet avventato, e molte di più le persone normali che si ritrovano licenziate o ricevono minacce di stupro o di morte. Ma che cosa porta le persone ad avere così tanta voglia di giudicare e schernire senza esitazione?
"Quando usiamo un social media abbiamo quasi l'impressione che tutto stia avvenendo solo nella nostra testa”, spiega lo psicoterapeuta Aaron Balick, "e questo ci porta a sentirci meno inibiti". A volte, tuttavia, le persone lo fanno in maniera più deliberata, “per cavalcare l'onda di energia", o cedendo alla tentazione di "sentirsi uniti sotto la bandiera di una giustificazione collettiva".
Nell'ottobre del 2019 l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama si è espresso pubblicamente contro questa cultura dell'umiliazione, dicendo che sui social media "...la gente pensa che io voglia cambiare le cose giudicando il più possibile l'operato altrui, e nient’altro... Ma questo non è attivismo. Questo non porta nessun cambiamento. Se tutto quel che sapete fare è scagliare pietre, non credo proprio che arriverete tanto lontano" .
5. INSPIRA ED ESPIRA...
Esistono strategie che aiutano a rimanere ragionevoli anche da arrabbiati: "Sta tutto nel riuscire a regolare un’emozione potente”, dice la Heym, che passa poi a illustrare l’efficacia scientificamente provata di un metodo chiamato “rivalutazione cognitiva”, che consiste nel fare un passo indietro dalla provocazione e cercare di guardarla da un punto di vista diverso.
Per esempio può essere d’aiuto concentrarsi sul respiro, oppure contare.
“Se qualcuno ci ruba il parcheggio davanti al naso”, dice, “in noi sorge una risposta rabbiosa, a cui diamo sfogo imprecando o urlando oppure suonando il clacson. Qualcuno può persino decidere di scendere dall’auto e attaccare fisicamente l’altra persona. Rivalutare la situazione e riprendere il controllo prefrontale di questi desideri aggressivi può essere di grande aiuto”.
In ogni caso tentare di reprimere la rabbia non è la soluzione giusta. “La rabbia tenuta compressa e inespressa per troppo tempo rischia di esplodere”, avverte la Heym. L’energia rabbiosa può per esempio essere utilmente incanalata nello sport.
Oppure, se ci sentiamo ormai sull’orlo della tracimazione, possiamo evitare la catastrofe dirigendo la nostra furia su un bersaglio diverso: “Prendiamo a pugni il sedile dell’auto anziché un’altra persona. È meglio liberarsi di un’ondata di furia che ci travolge in un dato momento, perché perderne il controllo al momento sbagliato potrebbe avere un costo enorme”.
È utile anche la pratica della Minelfullness, che aiuta ad abituare la mente a comprendere che cosa accade nel presente senza avere reazioni. “Più la si pratica, più si migliora nei risultati”, assicura la Heym.
"Si impara che queste emozioni negative sono esperienze transitorie. Quando arrivano il nostro battito cardiaco aumenta, siamo inondati di adrenalina e vorremmo passare all’azione, ma osservare il nostro stato dall’esterno ci aiuta a comprendere la sua transitorietà e ci suggerisce come gestirlo in maniera molto più efficiente”.
E le aggressioni verbali possono far male almeno quanto quelle fisiche. Quando stiamo per reagire a un tweet provocatorio, alle lagne di un bambino stanco o a un automobilista molesto, la cosa giusta da fare è “muovere un passo indietro, respirare e tirarci fuori da quella sensazione di frustrazione, rielaborando cognitivamnte il tutto prima di fare qualunque altra cosa”.