Nei lager nazisti si aggirava una “iena” affamata di sesso e di morte, di sevizie e macabri trofei.
Sadica, arrivista, malvagia al punto che perfino le SS, la polizia della Germania nazista, a un certo punto decisero di porre fine alle sue scorrerie.
Quella iena era una donna e si chiamava Ilse Koch. Ripercorrerne la vita e le efferatezze significa scendere nei gironi più profondi dell’inferno che l’uomo ricreò sulla terra sotto forma dei campi di sterminio nel III Reich, ma anche esplorare i meandri più oscuri e primordiali della natura umana.
Con un dato di partenza sorprendente: colei che passò alla storia come la “strega”, “la bestia”, “la cagna” e, appunto, “la iena” di Buchenwald non era una selvaggia né una pazza.
Tra i criminali nazisti ben pochi reggono il confronto con questa donna che superò ogni limite di crudeltà e perversione in uno dei campi di concentramento più tristemente noti della Germania di Hitler.
Ma chi era veramente Ilse Koch: la “iena” di Buchenwald? Scopriamolo insieme.
1. Era affamata di successo e di orge
Margarete Ilse Köhler era una donna come milioni di altre.
Da bambina era serena, educata e piena di amiche; non si ha notizia di fatti sconvolgenti che le siano accaduti, alterando il suo equilibrio mentale.
Nata nel 1906 a Dresda, nella famiglia di un agricoltore che era poi diventato caporeparto in una fabbrica, si ritrovò adolescente nella Germania umiliata dai vincitori della Grande Guerra e in piena crisi economica.
La necessità di contribuire al bilancio familiare la costrinse a lasciare gli studi a 15 anni per lavorare in fabbrica come impiegata contabile e poi in una libreria della sua città, dove faceva la commessa.
Fu qui che entrò in contatto con esponenti del nascente partito nazista: appariscente con i suoi occhi verdi e i lunghi capelli rossi, fece leva sulle sue doti di seduttrice per avere relazioni con alcuni militi delle SS e delle SA, le “camicie brune”.
Poi, spinta dal crescente desiderio di conquistare un’elevata posizione sociale, si iscrisse al partito nazista e sposò un tenente delle SS, Karl Otto Koch. Era il 1936: Ilse aveva trent’anni, Karl nove di più e un divorzio alle spalle.
Il matrimonio fu celebrato con un rito paganeggiante nei pressi del campo di concentramento di Sachsenhausen, vicino a Berlino, dove Karl prestava servizio.
Da quel momento Ilse Koch subì il fascino sinistro del marito, il quale le spiegò per filo e per segno quello che era il suo lavoro, comprese le torture cui sottoponeva i prigionieri.
Con i suoi metodi brutali, era destinato a una brillante carriera: nel 1937 divenne comandante del campo di Buchenwald, nella Germania orientale, e quattro anni più tardi di quello di Majdanek, in Polonia. Ilse lo seguì a Buchenwald, dove poté dare sfogo a tutte le perversioni che covava in seno.
La donna mostrava un’attenzione morbosa per i reclusi – oppositori politici, omosessuali, ebrei, rom ai quali in seguito si aggiunsero prigionieri di guerra – che venivano lasciati nudi e in piedi per ore all’aperto con qualunque tempo.
Se qualcuno osava guardarla, lei lo frustava a sangue. Istigava i cani delle guardie contro le prigioniere incinte, terrorizzandole. E si sarebbe incaricata personalmente di alcune esecuzioni, impugnando una pistola.
Nella residenza presso il campo, una grande casa immersa in un parco su una collina in cui viveva col marito, Ilse si godeva agi e lusso, organizzando feste che degeneravano in orge sessuali.
Non frequentava le mogli degli altri ufficiali, ma si concedeva sia a uomini sia a donne con il beneplacito del marito. Alcuni referti medici successivi le diagnosticarono la ninfomania.
Teatro di questi festini era una sorta di maneggio coperto, dove di giorno lei cavalcava al suono di un’orchestra che suonava su un palco e di notte incontrava i suoi amanti in una stanza con pareti rivestite di specchi.
La costruzione, che era costata una trentina di vite umane, vittime di incidenti mortali, oltre a ben 250.000 marchi dell’epoca, era a poca distanza dal campo di concentramento e i prigionieri delle baracche più vicine sentivano tutto quello che vi avveniva, comprese le esecuzioni di alcuni di loro.
2. Eccessiva persino per le SS
Nel 1941 assunse la carica di supervisore capo del reparto femminile di sorveglianza del campo. Era divenuta padrona assoluta di Buchenwald e della sorte di quanti vi erano rinchiusi.
Sul suo conto presero a girare voci terribili: si diceva che facesse uccidere i prigionieri che avevano dei tatuaggi per scuoiarli e recuperare le parti tatuate dei loro corpi; con quei feticci (che forse uno dei medici nazisti del campo studiava per trarne relazioni con le personalità criminali) avrebbe fatto confezionare oggetti come copertine di libri e paralumi (foto sotto).
Non basta: pare che collezionasse tsantsa, teste umane rimpicciolite, com’era in uso presso alcune popolazioni selvagge. Tuttavia, di tutti questi orrori non furono addotte prove concrete nei processi del dopoguerra.
Ilse rimase a Buchenwald a compiere le sue pratiche raccapriccianti anche dopo che il marito fu trasferito per sovrintendere al nuovo lager di Majdanek. Ma con i suoi comportamenti, la coppia finì con l’attirare l’attenzione della polizia e delle stesse SS: non certo per le violenze sugli internati, ma per l’avidità.
Così, il 24 agosto 1943, l’SS Josias von Waldeck-Pyrmont, capo della polizia di Weimar che aveva giurisdizione su Buchenwald, fece arrestare Karl Koch e la moglie con le accuse di arricchimento privato e appropriazione indebita di denaro pubblico, oltre che per l’omicidio di alcuni prigionieri che avrebbero potuto testimoniare contro di loro per questi reati.
Scorrendo la lista delle vittime, von Waldeck-Pyrmont aveva notato infatti, fra i tanti, anche i nomi di un suo amico, Walter Krämer, che a Buchenwald era stato infermiere capo, e di un assistente medico, Karl Peixof. Sia Krämer sia Peixof erano classificati “prigionieri politici”: un evidente falso.
Perché Karl Koch aveva ordinato la loro esecuzione? Indagando minuziosamente, il capo della polizia aveva scoperto che il comandante del lager, a causa della promiscuità sessuale della moglie, aveva contratto la sifilide.
Per non far trapelare la notizia, aveva eliminato i due membri del personale medico di Buchenwald che ne erano a conoscenza. Processato da un tribunale delle SS a Monaco, Karl Koch fu condannato a morte. L’esecuzione avvenne il 5 aprile 1945 nello stesso campo di cui era stato comandante.
Assai più lunga e laboriosa fu la nemesi per Ilse Koch, che fu assolta per mancanza di prove. Finita la guerra, andò a vivere con la famiglia a Ludwigsburg fino a quando, alla fine di giugno del ‘45, fu arrestata dalle autorità statunitensi che amministravano quella parte della Germania.
Nella foto sotto, paralumi in pelle umana. Ufficiali giudiziari mostrano i materiali usati per creare un paralume che apparteneva alla Koch: lembi di pelle umana tatuata prelevata ai prigionieri. La foto è stata scattata nel tribunale di Augsburg (Germania) dove nel dicembre 1950 Ilse Koch è stata processata.
3. La strega alla sbarra
L’ex “strega di Buchenwald” fu fra i primi criminali nazisti giudicati da un tribunale militare americano. Il suo processo, celebrato a Dachau nel 1947 sotto i riflettori dei media di tutto il mondo, sconvolse l’opinione pubblica.
Alcuni testimoni sopravvissuti raccontarono le violenze compiute dalla donna, compresa la pratica di conservare brani di pelle tatuata dei detenuti assassinati.
Due prigionieri politici, il dottor Gustav Wegerer, che era stato kapò dell’infermeria, e Josef Ackermann, già segretario di uno dei medici del campo, dichiararono di aver visto con i loro occhi nel 1941 un paralume fatto “di pelle umana abbronzata e tatuata” destinato alla Koch per il suo compleanno; la base della lampada erano un piede e uno stinco umani.
Di quella suppellettile, però, non fu trovata alcuna traccia. La Koch respinse ogni accusa e annunciò di essere incinta di 8 mesi.
Ciò non le evitò la condanna all’ergastolo per violazione delle leggi di guerra sui prigionieri, ma l’anno seguente, il governatore ad interim della zona di occupazione USA, generale Lucius D. Clay, ridusse la sentenza a quattro anni di reclusione, lasciando che tornasse in libertà: «Non c’era alcuna prova convincente che avesse selezionato i detenuti per le loro pelli tatuate o che possedesse articoli fatti di pelle umana», spiegò Clay.
A suo dire, i paralumi che avevano riempito le cronache del processo in realtà erano fatti di pelle di capra. Sul piano formale, poi, i crimini di cui era accusata la Koch erano stati compiuti a danno di prigionieri tedeschi: toccava dunque a un tribunale della Germania giudicarla.
Sotto la pressione dell’opinione pubblica, nel 1949 Ilse Koch fu nuovamente arrestata e processata, davanti alla corte di Augusta. Anche stavolta fu accusata di aver fatto confezionare paralumi in pelle umana, ma senza il supporto di prove oggettive.
Restarono in piedi altre gravi accuse, quali incitamento all’omicidio e alla commissione di gravi lesioni: di qui la sentenza che la condannava al carcere a vita.
4. Alla fine si tolse la vita
L’ex “iena” non si arrese, ma si vide respingere sia il ricorso in appello, sia le richieste di grazia; si rivolse invano perfino alla Commissione internazionale per i diritti umani.
Nel frattempo, uno dei tre figli nati dal suo matrimonio con Karl Koch si era tolto la vita, schiacciato dalla vergogna (un’altra figlia, Gudrun, era morta da piccola dopo una breve malattia mentre Ilse e Karl erano in montagna). Ilse aveva poi avuto un altro figlio, Uwe, da un prigioniero tedesco a Dachau.
Convinto della sua innocenza, Uwe cercò, senza riuscirci, di ottenere per lei la riabilitazione. La morte che nessun tribunale era riuscito a darle se la diede lei stessa, a quasi 61 anni, nel carcere di Aichach.
Suo marito fu il suo “maestro”! Il marito e mentore di Margarete Ilse Köhler, Karl Otto Koch, era nato a Darmstadt nel 1897; suo padre era morto quando lui aveva 8 anni. Ne patì molto, maturando un comportamento chiuso e insofferente che lo portò a lasciare la scuola per lavorare in un’azienda di spedizioni.
Quando scoppiò la Grande Guerra, Karl tentò di arruolarsi nell’esercito a 17 anni, ma vi riuscì solo due anni dopo; caduto prigioniero, tornò in patria e riprese a lavorare come impiegato di banca.
Nel 1926 la banca fallì e lui, che nel frattempo si era sposato, trovò un rimedio alle sue frustrazioni nell’ideologia nazista. Iscrittosi all’NSDAP, divorziò e si dedicò alla carriera nelle SS, iniziata nel campo di concentramento di Sachsenburg e culminata quando divenne collaboratore di fiducia di Himmler, capo dell’organizzazione.
La sua fedeltà era assoluta: se qualcuno violava le regole del campo, lo faceva marchiare con un ferro rovente. A farlo precipitare nella polvere fu la sua avidità, che lo portò a sperperare le risorse degli internati.
5. A Buchenwald finirono 240mila persone
Il Campo di concentramento di Buchenwald, istituito nel luglio 1937, fu uno fra più grandi campi della Germania nazista.
Prende il nome dall'omonima località, sulla collina dell'Ettersberg, a circa otto chilometri da Weimar, nella regione della Turingia, nella Germania orientale.
Nel 1944 arrivò a contare più di 60.000 prigionieri. Vi furono internate 240.000 persone di 30 nazionalità. Da campo di detenzione si trasformò di fatto in campo di sterminio a causa dei turni di lavoro insostenibili per la produzione di beni destinati all’industria bellica.
Si calcola che vi abbiano perso la vita tra 43.000 e 57.000 persone, comprese donne e bambini; delle vittime, solo 11.000 erano ebrei. Dominava le baracche un’enorme ciminiera, quella dei forni dove venivano bruciati i cadaveri.
Oltre che a ogni genere di violenza, gli internati erano sottoposti a operazioni senza anestesia e prove di resistenza estreme al caldo e al freddo; inoltre erano usati come cavie per testare nuovi farmaci dopo essere stati infettati con virus letali.
In questo campo di sterminio furono effettuate anche delle “ricerche” sulla cura ormonale dell'omosessualità.
Questi sperimenti vennero condotti a partire dal luglio 1944 dal medico SS danese Carl Peter Vaernet e consistevano nell'impianto di massicce dosi di testosterone su deportati omosessuali alla ricerca di una “cura” che avrebbe dovuto rendere eterosessuali i soggetti trattati.
Il risultato fu che decine di gay persero la vita per un esperimento fallimentare. Buchenwald fu anche il primo campo coinvolto nella soppressione dei disabili.
L'11 aprile 1945 quando il campo venne liberato, le forze di liberazione contarono nel campo di Buchenwald: 16.000 internati, 4.000 ebrei e circa 1000 bambini.
Nel dopoguerra fu riaperto per alcuni anni dalle autorità sovietiche per deportarvi nazisti e oppositori dello stalinismo, prima di essere in gran parte demolito nel 1950.