Nella maggior parte delle professioni o dei lavori si ha a che fare con un capo o un direttore, un supervisore o un preside, un primario, un dirigente, un “barone”, un titolare… ed è subito stress.
Le relazioni gerarchiche sono sempre complicate.
Se tra capo e dipendente c’è troppa distanza, il boss viene vissuto come freddo, rigido, scostante e i rapporti quotidiani non “scorrono” come dovrebbero.
Troppa familiarità o troppa vicinanza, per contro, fanno male: per un capo diventa più difficile imporre decisioni sgradevoli ma necessarie, per un dipendente diventa più facile oltrepassare i limiti della gerarchia e del rispetto.
Bisogna trovare un equilibrio e rimetterlo sempre in gioco, ed è una fatica costante. Molti problemi nascono dal fatto che nella realtà quasi mai incontriamo il capo o il dipendente ideale. La perfezione non è umana, ciò non toglie che non si possa o non si debba migliorare.
Un buon dipendente, a mio giudizio, è una persona responsabile, appassionata del proprio lavoro, equilibrata di carattere, volonterosa e capace di evitare quelle classiche “frasi fatte” che danno sui nervi e irritano ogni capo di questo pianeta.
Ecco le 10 frasi da evitare per non minare uno dei rapporti più delicati della nostra vita: quello con il boss.
1. “Proprio ieri lei mi ha detto di fare il contrario” e “Non è compito mio”
- “Proprio ieri lei mi ha detto di fare il contrario”
Se non è vero, questa è una frase di cui vergognarsi. Se è vero, questa è una frase da evitare.
Il capo è il capo e ha tutto il diritto di cambiare idea da un giorno all’altro: il fatto che un sottoposto non capisca perché lo faccia non significa che il capo non abbia una buona ragione per farlo.
In effetti, potrebbero essere intervenute circostanze nuove di cui non si è a conoscenza, oppure un dirigente potrebbe aver avuto accesso a nuovi dati inimmaginabili.
In un’azienda, a volte, le carte in tavola cambiano da un giorno all’altro e ogni capo deve adeguarsi rapidamente alle mutate condizioni.
Quindi, bisogna essere comprensivi. Soprattutto se capiamo che il capo ha cambiato idea solo perché gli è “girato storto”.
- “Non è compito mio”
Le mansioni e le responsabilità professionali non sono solo quelle espressamente elencate nell’annuncio di lavoro, nel contratto firmato o in un pezzo di carta qualsiasi, ma sono tutte quelle connesse al proprio ruolo o al proprio team di lavoro.
Occorre mettere in conto anche le mansioni o le attività necessarie a fronteggiare circostanze del tutto impreviste.
Insomma, occorre essere elastici e flessibili mentalmente, soprattutto se si lavora in un’impresa in fase di lancio, se si viene coinvolti in un nuovo progetto aziendale o se la propria organizzazione è in via di ristrutturazione: tutte situazioni molto dinamiche e mutevoli, in cui ruoli e mansioni non sono rigidi o codificati.
2. “Senta, c’è un problema, che faccio?” e “Ma lei non mi ha mica detto di farlo”
- “Senta, c’è un problema, che faccio?”
Qualsiasi dirigente, quando sente queste parole, s’innervosisce, anche se nella maggior parte dei casi non lo dà a vedere.
La vita di un’azienda è irta di problemi e non è il fatto che se ne presenti uno nuovo, per quanto inaspettato, a irritarlo: è il resto della frase a fargli passare tre sgradevoli minuti.
Perché è facile dire che c’è un problema o notare che qualcosa va storto, difficile è proporre soluzioni possibili o cercare di raddrizzare le cose.
Una persona sola può non essere in grado di risolvere un problema complesso, ma può capire come affrontarlo assieme ai colleghi e può proporre soluzioni intelligenti e creative.
Di fronte a un nodo, la cosa migliore è avvisare il proprio superiore e nel contempo suggerire una possibile via per scioglierlo.
Non a caso, il mantra dei manager americani è “Don’t give me problems, give me solutions, Non darmi problemi, dammi soluzioni”.
- “Ma lei non mi ha mica detto di farlo”
Ecco una frase sconfortante, più che irritante. Chi la pronuncia dimostra una terrificante mancanza di iniziativa e un bassissimo tasso di autonomia.
In qualsiasi azienda, anche la più rigida e tradizionale, lo spirito d’iniziativa, la capacità di rimboccarsi le maniche e l’intraprendenza sono qualità sempre stimate e premiate.
E ciò vale per tutte le mansioni, anche quelle più esecutive.
3. “Non è colpa mia! Non sono responsabile di quello che fa il mio collega” e “Mia zia ha avuto un incidente, mi si è allagata la casa, l’auto non partiva...”
- “Non è colpa mia! Non sono responsabile di quello che fa il mio collega”
A un professore, al liceo, si può dire di non essere responsabili di quello che fa il compagno di banco.
Al proprio capo, no. Un professionista lungimirante e responsabile non può permettersi di esprimere un mix letale di infantilismo e miopia, soprattutto se si lavora in squadra.
È vero che nessuno di noi è responsabile di quello che combina un collega, ma se si lavora in un team o in una divisione compatta, il lavoro di uno solo ha ripercussioni sul lavoro, sulla produttività e sulle mansioni di tutti.
Molte volte in un’azienda occorre superare la logica del “mio” e del “tuo”, per arrivare alla logica del “noi” e al gioco di squadra.
Ecco perché una frase come questa irrita tutti i capi, indistintamente. A loro non importa sapere chi ha creato un problema o chi ha combinato un pasticcio, importa che la squadra si attivi, si compatti e lo risolva.
Per di più, va detto che discolparsi di fronte a un superiore è sempre un atto debole, ambiguo, sgradevole: meglio evitare.
- “Mia zia ha avuto un incidente, mi si è allagata la casa, l’auto non partiva...”
Parliamo di scuse. Può succedere a tutti che una mattina l’auto non parta, che ci si debba scapicollare sui mezzi pubblici e si arrivi in ufficio con un clamoroso ritardo: se si tratta di un caso isolato, in genere non si avranno problemi; un buon capo capisce e non commenta.
Se però si arriva in ritardo un giorno sì e uno no, è meglio evitare l’invenzione di scuse pietose, degne di uno scolaretto, e stare alla larga da giustificazioni troppo creative, anche se pronunciate con la faccia tosta e l’abilità di un attore consumato.
Qualsiasi capo si irriterà non per il ritardo, ma per essere preso per scemo.
4. “Capo, non mi faccia lavorare con Tizio: non lo sopporto, non ci vado d’accordo” e “Ma finora abbiamo sempre fatto così”
- “Capo, non mi faccia lavorare con Tizio: non lo sopporto, non ci vado d’accordo”
Tutti i capi mal sopportano di dover sottrarre tempo alle questioni importanti per occuparsi delle beghe tra sottoposti o sedare pericolosi conflitti all’interno del proprio team di lavoro.
Mettiamoci nei panni del nostro supervisore: che cosa penseremmo se il nostro gruppo di lavoro fosse incapace di fare squadra e passasse il tempo a farsi i dispetti?
Un supervisore si aspetta che i propri dipendenti e i propri collaboratori si rispettino e si comportino come persone adulte, educate e razionali.
Una frase come questa è quanto meno indisponente; perciò, a meno di non essere oggetto di mobbing o di minacce da parte di un collega, a meno che qualcuno del proprio team non abbia commesso un illecito, un grave errore o una scorrettezza, è meglio restare zitti e cercare di superare le tensioni nell’ambito dei propri pari.
- “Ma finora abbiamo sempre fatto così”
Non c’è protesta più perdente di questa.
Si può infatti protestare perché si è sottopagati, sottoutilizzati, supersfruttati, superspremuti, mai gratificati o mai considerati, ma a protestare per l’introduzione di novità, nuove procedure o nuovi sistemi si fa veramente un’orrenda figura.
Perché significa che o si è troppo stupidi o si è troppo pigri per imparare cose nuove.
5. “Guardi che così si faceva nel secolo scorso” e “Non è un mio problema”
- “Guardi che così si faceva nel secolo scorso”
Molti capi sono ultrasessantenni e vecchio stile e il più delle volte mostrano diffidenza o scarsa dimestichezza con le ultime tecnologie, i social network, i nuovi media o le procedure più innovative del settore.
Però, una frase del genere è inutile e brutale: non serve a niente, fa solo sentire il proprio capo decotto, sullo scivolo per la pensione.
Un boss della vecchia guardia in genere tiene moltissimo al rispetto delle gerarchie e alle tradizionali formule di ossequio, detesta essere contraddetto o criticato in pubblico e non può che legarsela al dito: mentre aspetta la pensione, ha tutto il tempo e il modo di far pagare cara un’offesa del genere.
Quindi, ricordiamo che le soluzioni del futuro nascono spesso da quelle passate e che non tutto il “vecchio” va necessariamente rottamato, siamo propositivi e non inutilmente critici.
«Capo, che ne dice se risolviamo questo problema facendo ricorso anche a nuovi strumenti?»: è una frase che suona meglio!
- “Non è un mio problema”
Ecco cinque parole da semaforo rosso: irritanti, indisponenti, poco intelligenti.
Perché chi le pronuncia dimostra un notevole disinteresse verso il lavoro ed esprime, diciamolo pure, una buona dose di menefreghismo.
“Non è un mio problema” suona alle orecchie di un capo come: Io voglio lavorare il minimo indispensabile per ottenere la busta paga a fine mese e stop! Onestamente, non è una cosa da dire neppure a un collega.
Se poi i rapporti col proprio superiore sono già un po’ tesi, la frase risuona come una vera provocazione e un’ulteriore chiusura nei suoi confronti: “Del lavoro che non mi compete non mi importa un bel fico secco e vediamo se hai il coraggio di fare qualcosa contro di me”.
Meglio non lanciare sfide di questa portata, a meno che non si sia pronti a cambiare lavoro.