Qualcuno ha definito lo smart working il più grande cambiamento avvenuto nel mondo del lavoro negli ultimi due secoli. Qualcun altro lo definisce una vera e propria rivoluzione.
È davvero tale se pensiamo che, in base alle più recenti stime dell’ISTAT, saranno 8,2 milioni gli italiani che continueranno a svolgere il loro lavoro in questa modalità non solo fino alla fine del 2020, ma addirittura dopo, per tutto il 2021.
Una quota pari al 35,7 per cento degli occupati — sia nel settore pubblico sia in quello privato — all’interno della quale ci saranno più donne che uomini (37,9 contro 33, 4 per cento), più ultracinquantenni che giovani (37,6 contro il 29,5 per cento), più residenti al Centro e al Nord che al Sud (37 contro 28,8 per cento).
Le grandi aziende del Paese confermano: ENI, che conta 32mila dipendenti, dei quali 21mila in Italia, stima che il 35 per cento del totale lavorerà da remoto (contro i 4.500 dei tempi pre-COVID).
TIM, invece, ha siglato l’accordo con i sindacati per avviare nel 2021 la sperimentazione di un nuovo modello organizzativo che alternerà il lavoro da casa e quello in ufficio su base settimanale: 3 giorni in smart working e 2 in azienda.
E la pubblica amministrazione? Anche qui l’obbligo al “lavoro agile” è stato prolungato per tutti fino al 31 dicembre 2020, mentre il piano del 2021 prevede che il 60 per cento dei lavoratori possa proseguire in questa modalità.
Lo smart working, praticato nei mesi della pandemia come misura obbligatoria per assicurare continuità alle attività economiche e tutelare la salute dei lavoratori, è oggi al centro di vivaci confronti tra chi vorrebbe adottarlo stabilmente e chi invece ne denuncia limiti e rischi.
1. Tanti vantaggi e quali svantaggi
In effetti, sembra proprio che i vantaggi dello smart working siano così tanti da renderlo elettivo: non solo per i lavoratori, ma anche per le aziende e addirittura per l’ambiente.
Secondo un’analisi condotta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano e da Osservatori.net digital innovation, basata su un campione di 8.617 persone che hanno sperimentato il lavoro smart durante il lockdown, la maggioranza valuta molto positivamente l’esperienza fatta, assegnandole in media un punteggio di 8,35 su 10.
Inoltre, 7 persone su 10 vorrebbero continuare a lavorare indefinitamente in questa modalità, di cui 1 su 4 a tempo pieno, le altre 3 alternando casa e ufficio. Principali motivazioni: un miglior bilanciamento della vita privata e quella lavorativa, il risparmio di tempo e denaro, il guadagno in salute e benessere.
Sul fronte aziendale, invece, il management taglia costi importanti, ossigenando i bilanci resi asfittici dalla crisi.
Considerando che, per esempio, una singola scrivania in un ufficio nel centro di Milano costa al datore di lavoro da 300 a 500 euro al mese, le aziende non possono che essere interessate alle significative riduzioni degli spazi cui l’adozione in pianta stabile dello smart working può preludere, ai drastici contenimenti delle spese di pulizia, dei costi di climatizzazione, di energia, di wifi, di carta e di cancelleria per non parlare di mascherine, guanti, disinfettanti, termoscanner.
A ciò va aggiunta anche l’eliminazione dei buoni pasto, la non retribuzione degli straordinari e le ferie e i congedi obbligati, tutte misure che alleggeriscono non poco le spalle aziendali.
Infine vanno segnalati i vantaggi ambientali: lo smart working ha ridotto la mobilità quotidiana di circa un’ora e mezza in media a persona, per un totale di 46 milioni di chilometri evitati, secondo uno studio di ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), il che si traduce in 8.000 tonnellate di anidride carbonica (CO2), 1,75 tonnellate di particolato (PM10) e 17,9 tonnellate di ossidi di azoto (NOx) in meno immesse nell’atmosfera.
Detto questo, qualcuno che non suona la grancassa c’è. Come il sindaco di Milano, Beppe Sala, che lo scorso giugno 2020, dopo aver invitato tutti i milanesi a tornare in ufficio generando accese polemiche, ha precisato al Corriere della Sera: «Lo smart working non può essere preso in considerazione senza valutare anche tutti gli effetti collaterali e le ripercussioni che una adozione massiccia di questa modalità può generare sulle città».
Alludeva ai posti di lavoro che potrebbero andar perduti nel settore della ristorazione (ma anche in quello dei trasporti, dei negozi, musei, teatri, cinema, palestre, discoteche) a causa dello spopolamento di interi quartieri, tradizionalmente occupati dagli uffici.
250 milioni di euro sono il valore corrispondente del calo dei consumi in bar e ristoranti registrato nel capoluogo lombardo durante il lockdown e nei mesi immediatamente successivi, quando le mancate presenze dei consumatori all’ora di pranzo hanno causato una diminuzione del 70 per cento del fatturato del comparto, cui hanno contribuito anche la cancellazione di grandi eventi come fiere e congressi e l’assenza dei turisti.
2. Modalità mista e modi nuovi di essere al lavoro
Al di là dell’evoluzione della pandemia, che si auspica sia il più possibile rapida e positiva (ma con la quale siamo destinati a convivere ancora, tenuto conto che la ricerca scientifica non potrà fornire vaccini affidabili in tempi brevi), sembra assodato che lo smart working sia ormai un’opzione acquisita, di cui l’emergenza COVID ha favorito la transizione da una fase sperimentale a una di stabilizzazione e di diffusione.
«L’auspicio è che venga messa a regime una modalità mista che integri ufficio e casa», dice Arianna Visentini, fondatrice di Variazioni, una società di consulenza sullo smart working basata a Mantova e a Milano, «evitando la segregazione tra le mura domestiche – indicata come una criticità da diversi smart worker – e tutelando tutte le parti in causa per ottimizzare performance professionali e condizioni di lavoro.
È inoltre importante che team di esperti presidino questa fase di attuazione per orientare in primo luogo le aziende.
È cruciale che venga compreso da queste ultime che non sarebbe saggio optare per l’adozione generalizzata del lavoro da remoto alla semplice luce dei vantaggi economici che ne derivano. Il rischio di improduttività è in questo caso altissimo: perché se è vero che nei mesi dell’emergenza, lo smart working è stato associato ovunque a un incremento della produttività (+ 10 per cento in media) ed è addirittura cresciuta nei dipendenti la disponibilità, l’impegno e la fedeltà alle aziende (in inglese, engagement), nel lungo termine l’approccio psicologi- co dei lavoratori potrebbe cambiare a fronte di un atteggiamento impositivo di mero sfruttamento».
«Lo smart working innova profondamente il significato del modo di essere al lavoro», dice Mariano Corso, fondatore e responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, «e contrappone due diversi approcci: quello da professionista autonomo (che tiene all’autonomia, all’assunzione delle proprie responsabilità e vuole essere valutato in base ai risultati che produce) e quello da lavoratore subordinato classico (che punta alla sicrezza del posto di lavoro in cambio dell’obbedienza e dell’investimento di una quota prestabilita di tempo).
Si tratta di due visioni lecite, come mette in chiaro la legge 81/2017 che disciplina i rapporti di lavoro ponen- do l’accento sul fatto che il lavoratore possa e debba scegliere la propria».
A regime, dunque, lo smart working deve essere una scelta e non un obbligo, come è stato nella fase 1 della pandemia in cui si è reso necessario per contenere la diffusione del contagio, proteggere la salute di tutti e dare continuità al business.
«Lavorare smart vuol dire poter scegliere quando farlo in ufficio e quando da remoto», sottolinea Corso. «Parola d’ordine, quindi, è flessibilità, che, diversamente dalle generazioni che li hanno preceduti, i Millennials (cioè i nati tra il 1985 e il 1996) e la generazione Z (cioè i nati tra 1996 e 2010) danno per scontata anche nel mondo del lavoro.
Considerano fondamentale frequentare l’ufficio perché promuove la coesione sociale, ma privilegiano il lavoro per obiettivi e tendono a proteggere la loro autonomia di scelta di spazi e orari».
3. Fiducia, libertà, normativa e criticità
Tutto ciò non può non riflettersi sulla natura dei rapporti tra lavoratori e aziende e anche sull’organizzazione degli spazi dedicati al lavoro.
Mentre in un’ottica tradizionale, ancora diffusa in una parte consistente del management, il lavoratore va tenuto costantemente sotto controllo per evitare che il suo rendimento cali, lo smart working lancia la sfida della fiducia reciproca e della libertà.
Il lavoratore presta la sua opera in piena autonomia e responsabilità impegnandosi a produrre pari se non superiori risultati, l’azienda li misura e sulla base del merito offre ai dipendenti benefit e comfort.
Si va da una riorganizzazione del layout degli spazi all’introduzione di aree deputate al defaticamento o allo svago: dalla nap room di Microsoft, una stanza dedicata alla pennichella per dipendenti affaticati, alle sale con biliardini, dagli orti alle palestre e alle stanze della musica.
Normativa sì o no? Ne sentiamo parlare sempre più spesso e da più parti: lo smart working va normato. Lo dicono le aziende, che potrebbero spingersi a pensare di trasformare i dipendenti smart worker in liberi professionisti, sgravandosi da pesanti oneri previdenziali; lo dicono i sindacati, che ne vogliono fare un diritto del lavoratore, alla pari di altre misure di welfare come il part time; lo dicono i politici, il governo, i legislatori.
E lo dicono i lavoratori, molti dei quali vogliono essere risarciti degli oneri produttivi precedentemente in carico al datore di lavoro (uso dei propri dispositivi tecnologici, abbonamenti a Internet e carta, tanto per citare alcuni esempi) che si sono addossati e hanno visto allungarsi a oltranza l’orario di lavoro perché non è stato in alcun modo posto un limite al dovere di connessione con il resto dello staff.
Ma su questo terreno c’è chi frena. «Temo la regolazione legislativa perché la legge sul lavoro agile è una cornice che prevede un mix di lavoro dentro e fuori le aziende basato sulla stipula di un accordo tra due parti», dice Arianna Visentini.
«C’è una contraddizione in termini: se si regola lo smart working dandogli lo status di diritto del lavoratore, l’intero castello virtuoso dell’autonomia e della responsabilità da un lato e della fiducia e meritocrazia dall’altro rischia di sgretolarsi. Non è più un gioco a somma positiva. Lo smart working è davvero tale se porta vantaggi a tutte le parti coinvolte: imprese, lavoratori e la società nel suo insieme».
Ma quali sono state le criticità più avvertite? In un campione di 261 lavoratori fino a 30 anni, 487 da 30a35, 1.866 da 36 a 45, 3.455 da 46 a 55, 2.548 oltre i 55 anni, sono state evidenziate le seguenti criticità: senso di isolamento dall’organizzazione (dal 12% – fascia più giovane – al 18% – fascia più adulta –), strumentazione tecnologica inadeguata (dal 7 al 15%), difficoltà a trovare un luogo adatto a svolgere le attività lavorative (dall’8 al 12%), difficoltà nel separare tempi privati e tempi lavorativi (dal 16 al 15%), difficoltà nel sentirsi sempre connessi e reperibili (dal 7 al 15%), difficoltà nel conciliare esigenze professionali e personali (dal 4 al 13%). Dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.
4. Che cosa succede nel cervello
Sono 4 gli impatti che lo smart working produce sulla psiche: «Il primo riguarda il carico lavorativo che cambia perché si modifica la percezione del lavoro; il secondo interessa la qualità delle relazioni, che da reali diventano virtuali perché affidate alla tecnologia; il terzo è legato alla qualità del lavoro. Essa è condizionata dall’ambiente in cui il lavoro viene svolto, che influisce sullo stato mentale: quindi se varia l’ambiente di lavoro, varia anche il setting della mente. Il quarto si riferisce al cambiamento di equilibrio tra lavoro e vita».
Su questi punti si può valutare la positività dello smart working sui singoli individui. Affinché una nuova abitudine si consolidi occorrono almeno quattro mesi.
Nell’adozione di routine dello smart working faranno la differenza le caratteristiche personali dei lavoratori: alcuni possono risentire della riduzione di empatia nelle relazioni personali: c’è chi ha propensione all’autonomia e chi no, chi non ha problemi con la tecnologia e chi la soffre, chi non viene toccato della mancanza di confine tra la vita privata e quella lavorativa (che si svolgono nello stesso luogo) e chi rimpiange il viaggio casa – ufficio, che separa due mondi e a volte anche due vite parallele in una stessa esistenza.
Ma lo smart working aiuta le donne? Uno strumento che riduce le differenze di genere o un’arma a doppio taglio che confina le donne in casa anche in orario di lavoro, con il sottinteso presupposto che un occhio ai figli, alle faccende domestiche o ai genitori anziani possano sempre darlo?
Lo smart working aiuta a bilanciare lavoro e famiglia e, se gestito in modo corretto, rappresenta un’opportunità per la parità di genere. D’altra parte, però, basta intervistare qualsiasi mamma sulla sua esperienza di smart worker in tempi di pandemia, con scuole chiuse, attività extrascolastiche azzerate e nonni incontattabili, per sentirsi confermare che l’impegno domestico, già gravoso (per il 74 per cento delle donne italiane non c’è alcuna condivisione del carico familiare con il partner), è diventato più pesante.
Occorre un profondo cambiamento culturale e un tempo di forte crisi come quello appena attraversato può contribuire ad accelerarlo. I più virtuosi tra gli uomini in smart working hanno dedicato più tempo alla famiglia e alle attività domestiche: speriamo che siano d’esempio a tanti altri e da eccezione diventino la regola permettendo all’Italia di avvicinarsi agli standard dei Paesi più avanzati.
5. Gli uffici del futuro saranno “smart place”
Se l’adozione dello smart working dovesse andare a regime diffusamente, potrebbe produrre conseguenze rilevanti sul mercato immobiliare: come una diminuzione della richiesta di spazi da destinare a uffici, con implicite variazioni delle quotazioni al metro quadro di zone urbane ora di alto pregio.
Nel settore residenziale potrebbe invece crescere l’interesse dei compratori per i quartieri semicentrali, periferici e hinterland, dove a parità di investimento, si acquistano case più grandi, con terrazzo e giardino privato.
Una prospettiva interessante se si presume di non essere più costretti a recarsi ogni giorno in ufficio. «Da mesi ci poniamo questa domanda e tutti i giorni cambia la risposta», dice Giuseppe Amitrano, CEO di GVA Redilco & Sigest, una delle più importanti realtà italiane attiva nel settore della consulenza, intermediazione e servizi immobiliari integrati, e Vice Presidente del consiglio di presidenza di Confindustria Assoimmobiliare.
«Ora è prematuro trarre conclusioni, ma appare chiaro che l’impatto del COVID ha rimesso in discussione la società e le sue regole, imponendoci di ripensarle e riscriverle. Siamo all’inizio di un lungo e radicale processo di rinnovamento che riguarderà tutte le industry, al termine del quale saranno stati operati profondi cambiamenti.
In futuro tutti i settori del real estate saranno meno distinti l’uno dall’altro e in un certo senso si contamineranno tra loro. Gli spazi di lavoro non saranno più come quelli attuali, ma un mix di ufficio, casa e club, con aree destinate alla convivialità (bar, ristorante, cucina) e all’intrattenimento».
Ciò rappresenterà un’alternativa attraente allo smart working come lo si intende oggi e cioè una semplice alternanza di lavoro da casa e in ufficio? «Per me il lavoro smart è qualcosa di diverso ed è già una realtà nella mia società», prosegue Amitrano.
«Ha nella flessibilità la sua cifra distintiva: gli orari possono essere modulati in base alle esigenze individuali, cessando di essere rigidamente limitati alle classiche otto ore dalle 9 alle 17. Le persone sono valutate in base agli obiettivi che raggiungono e l’azienda offre loro condizioni migliori creando un ambiente piacevole dove le attività lavorative sono intervallate da momenti di aggregazione».
Certo, non mancano aziende che si concentreranno piuttosto sulla riduzione degli spazi, il taglio dei costi e l’allontanamento dei dipendenti dagli uffici per alleggerirne il peso economico.
Ne conviene Amitrano che conclude: «Ci sono queste aziende, ma ci sono anche quelle smart, visionarie, che manterranno gli stessi spazi, riqualificandoli e utilizzandoli diversamente da adesso. Che li trasformeranno in smart place. Queste due tipologie costituiranno i due poli del mondo del lavoro. O meglio due mondi separati, sempre più lontani tra loro, uno rivolto al passato e l’altro al futuro».