Dopo un iniziale periodo in cui la Germania di Hitler sembrava invincibile, cominciò una inesorabile marcia verso la disfatta.
Molti furono i fattori che vi concorsero, prima di tutto l’entrata in scena degli USA, ma anche i rigori dell’inverno russo, la perdita della supremazia nella ricerca di nuove armi e il fanatismo dello stesso Führer, che gli impedì di fare scelte razionali.
LE VITTIME DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Morti in Europa (tra civili e militari): 39.778.000
Morti nel Pacifico (tra civili e militari) 15.010.000 per un totale di 54.788.000
Perdite militari italiane Esercito: 246.432
Marina: 31.347
Aeronautica: 13.210 Formazioni partigiane: 15.197 Forze armate della Repubblica Sociale Italiana: 13.021
1. Più fronti, una sola guerra
Alla fine del 1941 le forze dell’Asse, cioè l’alleanza militare tra Germania, Italia e Giappone, sembravano ancora invincibili ed erano all’offensiva su tutti i fronti: Pacifico, Unione Sovietica e Africa.
Nel Pacifico, le forze giapponesi, approfittando dello shock inferto agli USA con l’attacco a Pearl Harbor, durante il quale la flotta americana era stata gravemente indebolita, avanzavano nel Sudest asiatico, travolgendo l’Indocina francese e le colonie inglesi, tra cui l’importantissima base di Singapore (sarebbe caduta il 15 febbraio 1942).
Le loro forze si dirigevano da un lato verso l’India e dall’altro verso gli strategici campi petroliferi nell’Indonesia olandese, senza che nessuno riuscisse a rallentarne la marcia.
In Russia, invece, lo stesso Hitler, dopo essere stato costretto a rinunciare a Mosca per l’arrivo dell’inverno del 1941, lanciò nel maggio 1942 le sue armate verso sud-est, in direzione del Mar Caspio, con l’obiettivo di assicurarsi le ampie distese di grano dell’Ucraina orientale e soprattutto i pozzi petroliferi della regione del Caucaso.
Anche se le truppe corazzate germaniche non potevano più contare sui vantaggi tattici e strategici di cui avevano goduto l’anno prima – al tempo dell’Operazione Barbarossa (invasione della Unione Sovietica) – la loro superiorità restava netta (per quasi tutto il conflitto il rapporto dei carri armati distrutti rimase 10:1 a favore dei tedeschi).
A luglio le prime avanguardie arrivarono nei pressi della importantissima città industriale di Stalingrado, sul fiume Don, e si apprestarono a conquistarla. In Africa, infine, si assistette a un drammatico rovesciamento di fronte.
Nella foto sotto, Libia, 1941. Il generale tedesco Erwin Rommel, al comando dell’Afrikakorps, dopo alcuni successi era stato respinto e ricacciato per centinaia di chilometri indietro verso Tripoli.
Qui le forze dell’Afrikakorps del feldmaresciallo Erwin Rommel, arrivate nella primavera di quell’anno per sostenere le armate italiane, dopo alcuni successi iniziali erano state respinte molte centinaia di chilometri indietro, verso Tripoli: ma ora l’offensiva giapponese nel Pacifico, e in particolare nel Sudest asiatico, aveva costretto gli inglesi a redistribuire le loro forze per difendere l’India minacciata da est, indebolendo il fronte in Africa settentrionale.
Le forze italo-tedesche (113.000 soldati con 560 carri armati, di cui 228 italiani e 332 tedeschi) poterono così ancora una volta passare all’offensiva cogliendo un successo dopo l’altro e riconquistando l’importante base di Tobruk il 21 giugno 1942.
Le truppe di Rommel riuscirono a spingersi fino a El Alamein, a circa 100 chilometri da Alessandria d’Egitto, ma poi, prive di rifornimenti, dovettero fermarsi.
In realtà le sorti del conflitto erano già segnate. Il coinvolgimento dell’Unione Sovietica e degli USA aveva trasformato i due conflitti distinti (quello europeo e quello nel Pacifico) in un’unica guerra mondiale, concentrando contro la Germania e i suoi alleati (Italia e Giappone) gran parte del potenziale tecnologico e delle risorse economiche del pianeta.
Già nel 1938 l’impero britannico e gli USA rappresentavano il 60 per cento della produzione industriale mondiale, mentre le potenze dell’Asse raggiungevano solo il 17 per cento.
2. Le armi tedesche erano migliori e l’andamento del conflitto
L’economia statunitense, che non si era ancora del tutto ripresa dalle conseguenze della crisi del 1929, si giovò enormemente delle commesse statali per l’Esercito, la Marina e l’Aviazione: il prodotto interno lordo USA aumentò infatti del 50 per cento durante il conflitto, caso quasi unico nella storia.
In linea di massima le armi tedesche erano migliori di quelle alleate, ma vennero prodotte in un numero di gran lunga inferiore e non riuscirono a ribaltare le sorti del conflitto: il carro armato più famoso, per esempio, il Tiger tedesco (foto sotto), venne prodotto in soli 1.380 esemplari perché assemblato a mano con cura artigianale, mentre i sovietici produssero 53.000 esemplari del loro carro T-34 e gli americani 49.000 Sherman.
L’avanzata tedesca in Russia nel 1940, per quando fulminea, non fu abbastanza veloce da impedire ai sovietici di smontare tutte le fabbriche e di trasportarle a migliaia di chilometri di distanza, oltre la catena degli Urali, dove i bombardieri tedeschi non potevano raggiungerle.
Al contrario, le fabbriche tedesche a partire dal 1943 erano state sottoposte a continui bombardamenti e sebbene il ministro per la produzione bellica Albert Speer fosse riuscito nel miracolo di far crescere la produzione fino alla fine del 1944, il divario industriale tra la Germania nazista e le forze alleate crebbe fino a diventare incolmabile.
Inoltre, la Germania non riuscì mai a ottenere il controllo delle comunicazioni marittime in Atlantico e quindi a interrompere il flusso di rifornimenti provenienti dagli Stati Uniti. La lunga guerra condotta dai sommergibili nazisti per tagliare i rifornimenti all’Inghilterra, che ne dipendeva in tutto e per tutto, fu una minaccia solo fino al 1942.
Dopo, i cantieri americani e canadesi, anche grazie a innovative tecniche di costruzione, vararono circa il doppio delle navi che i tedeschi riuscivano a distruggere e quindi la speranza nazista di riuscire a strangolare l’economia britannica tramontò.
Hitler cominciò allora a coltivare il mito della “fortezza Europa”, difesa dal “fossato” rappresentato dal Mediterraneo a sud e dal canale della Manica a ovest, senza capire che il mare è una via di comunicazione e non un ostacolo.
3. Bloccati su tutti i fronti Hitler spera ancora
Le forze dell’Asse vennero bloccate su tutti i fronti nell’estate 1942.
La flotta giapponese di portaerei, mandata incautamente all’attacco senza la protezione delle corazzate per conquistare le isole Midway, venne annientata il 5 e 6 giugno: da questo momento la Marina del Sol Levante poté solo combattere battaglie difensive, rinunciando a ogni ulteriore avanzata strategica.
La seconda, grande sconfitta dell’Asse si ebbe in Africa: il 23 ottobre 1942 il generale britannico Bernard Montgomery attaccò con una superiorità numerica schiacciante le forze italo-tedesche a El Alamein e dopo violentissimi combattimenti le costrinse a una ritirata che si sarebbe conclusa sei mesi dopo con l’evacuazione della Tunisia da parte delle forze nazi-fasciste (maggio 1943).
In Russia, infine, la Sesta armata tedesca agli ordini del generale Friedrich Paulus venne bloccata dalla disperata resistenza delle forze sovietiche, che si sacrificarono per guadagnare tempo e consentire la preparazione della controffensiva. A ottobre, la pressione tedesca era tale da far credere che la città sarebbe caduta.
Ma il 19 novembre 1942, proprio mentre Paulus era convinto di essere vicinissimo alla vittoria, scattò l’Operazione Urano: una manovra a tenaglia con oltre 500 carri armati, pazientemente raccolti e tenuti nascosti a 200 chilometri dal fronte per mantenere il più completo segreto sulle intenzioni sovietiche.
I tedeschi furono colti di sorpresa: tutta la Sesta armata, oltre alle truppe italiane e a quelle rumene, venne circondata e chiusa in un’immensa sacca.
Più volte il generale Paulus propose a Hitler una ritirata strategica per rompere l’accerchiamento e ristabilire un fronte difensivo più solido: il Führer, iniziando a dare prove evidenti di scollamento dalla realtà, pretese invece che le truppe rimanessero a Stalingrado, promettendo che sarebbero state rifornite con un grande ponte aereo, il primo della storia.
Nella foto sotto, El Alamein, 1942. Sotto una tempesta di sabbia, due soldati del Commonwealth costringono alla resa un carrista tedesco alla fine di una battaglia durata 12 giorni. È il 25 ottobre 1942 e siamo nel deserto, a circa 100 chilometri da Alessandria d’Egitto.
Le condizioni climatiche dell’inverno russo resero invece impossibile mantenere il flusso di rifornimenti necessari: il 2 febbraio 1943 l’ultimo gruppo di resistenza tedesco si arrese.
Hitler promosse Paulus al grado di feldmaresciallo pochi giorni prima della resa, dichiarando nel contempo che nessuno con quel grado si era mai consegnato vivo ai nemici: ma Paulus si guardò bene dal suicidarsi.
La Wehrmacht perse complessivamente tra morti, feriti e prigionieri più di un milione di soldati a Stalingrado e non fu più in grado di riprendersi. Dopo lo sbarco in Italia (10 luglio 1943), la caduta del regime fascista (25 luglio) e la resa del nostro Paese (8 settembre) era evidente a tutti che la Germania avrebbe perso la guerra.
A partire da questo momento Hitler cominciò a perdere il contatto con la realtà, rifugiandosi in sogni mistici di una rinascita del Reich, anche a costo di una catastrofe “catartica”. Più concretamente, le sue speranze erano concentrate sulla tecnologia, ossia sulle famose armi segrete che avrebbero dovuto ribaltare il conflitto.
In effetti, l’industria tedesca era oggettivamente all’avanguardia sul piano qualitativo e riuscì a produrre una serie di armi micidiali: per esempio, il primo aereo a reazione operativo, il Messerschmitt Me 262, un caccia capace di volare quasi a 900 chilometri all’ora, imprendibile per gli aerei alleati; oppure il Komet, un vero e proprio aereo-razzo che decollava da una rampa verticale, armato solo di missili e destinato esclusivamente ad abbattere i bombardieri nemici; o ancora le celebri V2 (Vergeltungswaffe 2, “arma di rappresaglia 2”), autentici missili alti 14 metri e capaci di viaggiare a 5.000 chilometri all’ora per 350 chilometri circa.
Nella foto sotto, una battaglia aerea. Gli aerei a reazione tedeschi Messerschmitt Me 262, capaci di volare a 900 km orari, attaccano i bombardieri americani B-17.
4. La bomba atomica
Soprattutto, i tedeschi avevano i migliori fisici al mondo e stavano cercando di costruire la bomba atomica: se fossero riusciti a produrla e a farla trasportare dai loro missili, avrebbero effettivamente potuto rovesciare anche all’ultimo momento le sorti dell’intera guerra.
In Germania, la prima riunione ufficiale sulla possibilità di costruire una “macchina all’uranio” avvenne addirittura il 30 aprile 1939, quando sei fisici nucleari tedeschi furono convocati al numero 39 di Unter den Linden, il celebre e centralissimo viale di Berlino dove aveva sede il Ministero della scienza e dell’istruzione pubblica.
In realtà, si parlò solo dell’impiego dell’energia atomica per azionare motori (i tedeschi pensavano ai sottomarini), ma l’eco di questa riunione giunse fino in America e convinse erroneamente gli esperti che i tedeschi fossero molto più avanti degli americani nella realizzazione di un’arma basata sull’uranio arricchito.
Fortunatamente il progetto nazista per la costruzione di una bomba atomica non venne mai sviluppato con decisione. I motivi furono tre: prima di tutto la disorganizzazione all’interno della macchina statale tedesca, che portò alla dispersione di risorse ed energie (per esempio, vennero approntati ben due programmi di ricerca distinti, uno civile e uno militare, che si contendevano le già scarse risorse).
La ricerca scientifica infatti era disprezzata o almeno sottovalutata da parte dei nazisti, i quali confidavano invece nella ideologia o al limite nelle armi segrete, sviluppate dalle tecnologie tradizionali, come i missili V2 o i caccia a reazione.
Qua sotto, prigionieri tedeschi avanzano nella neve a Stalingrado. A migliaia finiranno nelle fosse comuni.
In secondo luogo, naturalmente, ebbero un peso le difficoltà tecniche oggettive per la realizzazione di un progetto simile, difficoltà che oltretutto gli scienziati tedeschi sopravvalutavano: per esempio, erano convinti che per innescare la reazione nucleare fossero necessari quintali di uranio arricchito (mentre in effetti ne bastano una quarantina di chilogrammi) e quindi ritenevano che servissero anni di lavoro con i reattori nucleari disponibili per ottenere una quantità di minerale radioattivo sufficiente.
Di conseguenza, consideravano che il progetto non sarebbe mai stato pronto prima della fine della guerra. Il terzo motivo che rallentò il programma nucleare nazista fu, per quanto possa sembrare strano, l’atteggiamento personale dei principali scienziati tedeschi, che non fecero nulla o quasi per convincere veramente le gerarchie politiche e militari del loro Paese dell’importanza del progetto.
Essi si rendevano perfettamente conto che la bomba atomica non era un’arma come le altre, ma l’arma finale che avrebbe potuto portare non solo alla vittoria su qualsiasi nemico ma anche, per la prima volta nella storia, alla distruzione dell’umanità.
La preoccupazione per molti di loro era quella di mettere uno strumento di morte così potente nelle mani di un dittatore che quasi tutti in cuor loro disprezzavano e dal quale, peraltro, venivano ricambiati con altrettanto disprezzo. Il progetto nucleare tedesco, quindi, finì per naufragare nel nulla.
Le recenti scoperte nei terreni del campo di concentramento di Gusen in Austria lasciano ipotizzare che i nazisti erano arrivati a un passo dal realizzare qualcosa di simile a una “bomba sporca”, ossia una bomba convenzionale che esplodendo disperde materiale radioattivo letale per l’uomo. Un gruppo di scienziati indipendenti condusse tre test nel marzo 1945, uno sull’isola di Ruegen (Mar Baltico) e due a Ohrdruf in Turingia (Germania centrale).
Testimoni oculari avrebbero visto un lampo seguito da un’enorme onda d’urto. Tecnicamente è più semplice costruire una bomba sporca di una bomba atomica. Ma se anche l’avessero realizzata, difficilmente i tedeschi avrebbero potuto impiegarla in modo efficace: non avevano bombardieri pesanti a lungo raggio e non avevano nemmeno pensato alla possibilità di montarle sulle V2, i razzi che colpirono nel 1945 l’Inghilterra senza venire intercettati.
5. Devastazione della Germania e la fine di Hitler
Il 6 giugno 1944, l’operazione Overlord diede inizio all’attacco finale contro la Germania, che da mesi era sistematicamente bombardata di giorno dagli americani (che puntavano sul bombardamento di precisione) e di notte dagli inglesi, che invece praticavano l’area bombing, ossia il bombardamento a tappeto.
La procedura prevedeva più ondate di bombardieri (fino a mille apparecchi) che si susseguivano sganciando il loro carico senza cercare di colpire un obiettivo preciso, ma semplicemente con lo scopo di ammassare la massima quantità di esplosivo e di fosforo nell’area più ristretta possibile (a volte venivano scelti come bersagli le piazze o i campi da calcio perché più facilmente identificabili dall’alto).
La prima ondata portava bombe perforanti per far saltare i tetti delle abitazioni, dove potevano finire gli spezzoni incendiari scaricati dalle ondate successive. Se l’operazione veniva condotta come previsto, si generava un Feuersturm (tempesta di fuoco) dalle conseguenze analoghe a quelle di un attacco nucleare ma senza le radiazioni.
La temperatura nel punto di mira raggiungeva valori di migliaia di gradi, vetrificando il terreno; tutto l’ossigeno nei rifugi antiaerei veniva consumato; si creava infine un violentissimo risucchio d’aria con venti fino a 300 chilometri all’ora che abbattevano gli edifici e sollevavano i detriti a migliaia di metri d’altezza.
Ad Amburgo attacchi di questo genere provocarono 40mila morti; a Dresda (foto sotto), il 14 febbraio 1945, circa 30.000mila.
Nonostante questi evidenti disastri, Hitler continuò a incitare i suoi alla resistenza e, per quanto possa sembrare incredibile, venne seguito fin quasi all’ultimo dalla maggior parte della popolazione tedesca.
Ci fu un solo vero tentativo di abbattere il regime, cioè l’attentato organizzato dal colonnello von Stauffenberg del 20 luglio 1944, che fallì miseramente.
Alla fine dell’aprile 1945 i sovietici erano a Berlino: il 30 aprile, con i combattimenti ormai a poche centinaia di metri dal bunker in cui si trovava, Hitler si suicidò ingerendo cianuro e sparandosi un colpo di pistola.