Oceano Pacifico centrale, 19 giugno 1944. La guerra tra Impero Giapponese e Stati Uniti proseguiva da oltre due anni.
Dopo le disfatte iniziali, gli americani avevano recuperato le forze grazie alla loro poderosa industria militare.
Messa in sicurezza l’Australia, risalite le isole Salomone e superate le Marshall, il bersaglio successivo degli Usa erano le Marianne, al largo delle quali era destinata a svolgersi la più grande battaglia aeronavale della Storia.
Le Marianne erano un possedimento giapponese dal 1914, assieme alle Caroline, a sud, e alle Marshall, a est.
Rappresentavano uno scudo avanzato per Tokyo e un ostacolo tra gli Stati Uniti e la loro colonia delle Filippine: si trattava dunque di una posizione strategica e, nel 1941-1942, erano servite come trampolino di lancio per alcune delle offensive simultanee nipponiche nel Pacifico.
Le Marianne erano poi rimaste nelle retrovie e solo dal settembre 1943 i giapponesi, ormai sulla difensiva, iniziarono a inviarvi rinforzi, ostacolati dai sommergibili statunitensi.
Inoltre gli alti comandi a Tokyo erano preoccupati per le voci che arrivavano dalla Cina, in guerra con il Giappone dal 1937 e divenuta alleata degli Usa subito dopo l’attacco di Pearl Harbor.
Nei primi mesi del 1944 i servizi segreti confermarono che il leader nazionalista cinese Chiang Kai-shek stava approntando aeroporti colossali, molto lontani dal fronte e quindi fuori dalla portata di qualsiasi arma giapponese.
Da lì sarebbero decollati gli enormi Boeing B-29 Superfortress, con un’autonomia di 4.700 km: sufficiente a bombardare le città nipponiche più meridionali e tornare alla base.
Al comando supremo del Mikado bastò dare un’occhiata alle mappe per rendersi conto che se le Marianne fossero cadute e fossero state trasformate in aeroporti americani, oltre metà del Giappone (Tokyo compresa) sarebbe finita nel raggio d’azione di quei giganti.
La battaglia delle Marianne fu un apocalittico scontro aeronavale a suggellare la definitiva sconfitta di Tokyo nella sua lotta contro gli Stati Uniti. Un episodio convulso e ricco di colpi di scena, in cui la superiorità numerica e qualitativa degli Usa vanificò un audace piano militare nipponico.
1. L’INVASIONE DELLE MARIANNE
Il Sol Levante corse ai ripari con una nuova strategia. Poche fra le isole Marianne erano adatte a ospitare grandi infrastrutture, quindi era chiaro che i principali obiettivi americani sarebbero stati Saipan, Tinian, Rota e Guam, da difendere all'ultimo sangue.
Mentre l’esercito si occupava delle fortificazioni, l’ammiraglio Soemu Toyoda (comandante della Flotta da battaglia imperiale, o Flotta combinata) concepì un piano audace per sbarrare la strada alla US Navy.
Le portaerei giapponesi, con 430 velivoli a bordo, dovevano portarsi a ovest delle Marianne e lanciare le prime ondate di apparecchi non appena fossero state individuate quelle statunitensi. Compito degli aerei sarebbe stato attaccarle, procedere fino agli aeroporti di Guam e Rota, rifornirsi e, sulla rotta del ritorno, colpire di nuovo le navi nemiche. Ciò era possibile grazie alla grande autonomia degli apparecchi nipponici, che in media superava i 2.000 km.
Inoltre c’era la 1a Flotta aerea del viceammiraglio Kakuji Kakuta: 510 velivoli basati a terra e pronti ad attaccare insieme a quelli delle portaerei. Toyoda affidò l ’operazione, denominata “A-Go” , al viceammiraglio Jisaburò Ozawa, che ebbe al suo comando quasi tutte le navi da guerra moderne giapponesi: 9 portaerei, 5 corazzate, una dozzina d’incrociatori e 30 cacciatorpediniere, che avrebbero costituito la la Flotta mobile.
Sotto, la Yorktownpoco prima della battaglia del Mar dei Coralli, combattuta nel maggio del 1942. La portaerei americana, largamente impiegata nella lotta contro la Marina Imperiale giapponese nel Pacifico, fu silurata e affondata da un sommergibile nipponico alle Midway (giugno 1942, foto ricolorata).
Gli Stati Uniti avevano pianificato l’invasione delle Marianne con l’Operazione “Forager”. L’ammiraglio Chester Nimitz, capo della Flotta del Pacifico, sapeva che i giapponesi avrebbero fatto l’impossibile per difenderle, anche perché l’intelligence aveva raccolto parecchie informazioni sui loro piani.
Per conquistare Saipan, Tinian e Guam (Rota fu esclusa) furono schierate tre divisioni e molti reparti di appoggio. La Quinta Flotta, radunata per l ’operazione, era enorme: grandi navi da carico, trasporti d’assalto, chiatte specializzate, centinaia di mezzi anfìbi cingolati, flottiglie da bombardamento costiero. Nimitz vi mise a capo l’abile ammiraglio Raymond Spruance, trionfatore a Midway nel giugno 1942.
Oltre al notevole apparato anfibio, la Quinta Flotta includeva la Task Force 58 del viceammiraglio Marc Mitscher, formata da 15 portaerei con oltre 890 aerei a bordo, 7 corazzate, 21 incrociatori, circa 70 cacciatorpediniere e più di 20 sommergibili. Il suo compito era semplice: stroncare qualsiasi attacco della Marina giapponese e proteggere a ogni costo i gruppi da sbarco e le truppe.
Sotto, da sinistra: l'ammiraglio Spruance, il viceammiraglio Mitscher, l'ammiraglio Nimitz e il viceammiraglio Lee, fotografati nel febbraio del 1945.
Il piano nipponico era eccellente, ma celava una pecca: nessuno sapeva dove e quando si sarebbe svolta l’offensiva americana. Nell’incertezza, i giapponesi dispersero le forze di Kakuta in svariate basi, da Chichi Jima, isola a sud di Tokyo, fino alla Nuova Guinea occidentale. Alle Marianne rimasero solo 172 apparecchi.
L’opinione prevalente nell’alto comando giapponese era che gli Usa avrebbero sviluppato lo sforzo maggiore prima in Nuova Guinea e solo dopo contro le Marianne. Lungo le coste settentrionali di quella grande isola, infatti, americani e australiani, al comando del generale Douglas MacArthur, stavano avanzando verso ovest, procedendo di sbarco in sbarco: un’invasione a balzi che minacciava di arrivare alle Filippine o di dilagare nelle ex Indie Orientali Olandesi, ricche di petrolio, vitale per Tokyo.
Ecco perché la grandiosa 1a Flotta mobile si trovava a Tawi-Tawi, un’isoletta a est del Borneo: una base vicina alle fonti di combustibile (il Giappone era in crisi di rifornimenti perché i sommergibili nemici falcidiavano i suoi convogli di cisterne) e a metà strada tra Marianne e Nuova Guinea. La concentrazione di tante navi, però, attirò un numero sempre maggiore di sommergibili americani, che riferivano ogni movimento di Ozawa agli alti comandi statunitensi.
Qua sotto, a sinistra, il viceammiraglio nipponico Jisaburó Ozawa (foto ricolorate). A destra, la bandiera della Marina Imperiale giapponese.
2. LE SORTI DELL’IMPERO IN GIOCO
A fine maggio il generale MacArthur realizzò l’ennesimo sbarco, stavolta sull’isola di Biak.
A inizio giugno, dopo molte indecisioni, Toyoda e Ozawa decisero che la minaccia andava eliminata: da Tawi-Tawi salpò una squadra navale, di cui facevano parte le gigantesche corazzate Yamato e Musashi, che non avrebbe avuto difficoltà a far strage delle modeste forze di MacArthur; anche Kakuta mobilitò parte della 1a Flotta aerea in Nuova Guinea e il 12 giugno tutto era pronto.
Le comunicazioni giapponesi, però, erano decrittate dagli americani: Nimitz e Spruance, saputo dei preparativi del nemico, diedero quindi il via all’Operazione “Forager”. La Quinta Flotta scatenò una serie di pesanti incursioni aeree sulle Marianne, preparatorie agli sbarchi: inflisse molti danni e distrusse 125 dei 172 aerei di Kakuta.
L’indomani Ozawa fu informato delle sconvolgenti novità e il fronte in Nuova Guinea divenne di colpo secondario. Partì subito da Tawi-Tawi per le Filippine (dove programmò l’ultimo rifornimento delle sue unità prima della battaglia) e ordinò alle navi distaccate di raggiungerlo immediatamente per attuare l’Operazione “A-Go”.
Le unità furono però segnalate dagli onnipresenti sommergibili americani e l’intelligence completò il quadro per l’ammiraglio Nimitz, che avvisò la Quinta Flotta. Spruance e Mitscher si portarono 100 miglia a nordovest di Guam e Rota con la Task Force 58, divisa in cinque gruppi: uno, di avanguardia, radunava cacciatorpediniere e corazzate moderne, con un gran numero di armi contraeree; gli altri erano formati ciascuno da 3 o 4 portaerei, con un anello difensivo d’incrociatori e cacciatorpediniere.
Ozawa, intanto, aveva telegrafato al viceammiraglio Kakuta il giorno e l ’ora in cui si sarebbe trovato nella posizione prevista dal piano per coordinarsi al meglio. Il collega (forse solo per salvare la faccia) non accennò al massacro dei suoi aerei, anzi dichiarò che gli americani avevano perso diverse navi. Per rimediare in parte alla sparata, Kakuta richiamò la parte della 1a Flotta aerea che era stata assegnata alle Caroline.
Il 15 giugno truppe statunitensi sbarcarono a Saipan, strenuamente difesa dai nipponici. L’ammiraglio Toyoda, in Giappone, viveva ore cariche di tensione e inviò un messaggio a Ozawa: «Le sorti dell’Impero dipendono da questa battaglia. Ognuno dovrà dare il meglio di sé». Si era ispirato al telegramma che l’ammiraglio Togo aveva dettato nel 1905, poco prima di trionfare contro la flotta zarista a Tsushima.
3. MOLTO LAVORO PER I RADAR
Dal 15 giugno Kakuta aveva ordinato ricognizioni regolari con la manciata di aerei rimasta. Il giorno 18 una parte della Task Force 58 americana fu localizzata: la notizia venne ritrasmessa a Ozawa, sul ponte di comando della portaerei Taiho, nuova di zecca.
Elettrizzato, egli si preparò allo scontro suddividendo le sue forze in tre squadre, ognuna con tre portaerei, e ordinò di pianificare il lancio scaglionato di oltre 300 velivoli per l ’indomani.
Spruance e Mitscher, invece, ignoravano dove fosse la flotta giapponese, a dispetto della mole di dati ricevuti e del passaggio di ricognitori nemici. La scelta degli americani era complicata anche dalla necessità, per le loro portaerei, di navigare verso est (cioè controvento) ogni volta che dovevano far decollare gli aerei; ciò li allontanava dalle navi di Ozawa.
All’alba del 19 giugno apparecchi nipponici decollati dalle Marianne iniziarono ad attaccare, isolati o in squadriglie, le navi americane, ma furono respinti dai caccia Hellcat e dalla contraerea. Mitscher diresse gruppi di caccia nei cieli di Guam, la più meridionale delle Marianne (e, come tale, ottima base aerea intermedia per i giapponesi), dove sorprese una cinquantina di velivoli nemici appena arrivati dalle Caroline.
Dopo i duelli aerei, molti apparecchi giapponesi riuscirono a sfuggire. Nella foto sotto, tracce dei caccia segnano il cielo sopra la Task Force 58, 19 giugno 1944
Erano quasi le 8,30. Proprio allora Ozawa impartiva l’ordine di decollo della prima ondata: aerei, tra cui i caccia Zero, i moderni bombardieri in picchiata Judy e i nuovi aerosiluranti Jill. Dopo circa due ore di volo essi giunsero sui Task Group 58.4 (3 portaerei) e 58.7 (corazzate), che grazie ai radar ebbero il tempo di prepararsi.
Mentre si lanciavano sulle navi, che vomitavano un infernale sbarramento contraereo, gli aerei nipponici furono investiti da decine di caccia Hellcat, guidati dai radar delle portaerei. Nella mischia gli Zero, meno corazzati, ebbero la peggio e ci fu un’ecatombe di aerosiluranti: nessun siluro nipponico andò a segno.
Anche i bombardieri in picchiata fallirono e solo uno di essi riuscì a colpire la corazzata South Dakota, veterana della campagna di Guadalcanal, che incassò la bomba e rimase in formazione. Quasi tutti gli aerei giapponesi vennero abbattuti.
Fedele al piano, Ozawa aveva già inviato una seconda ondata alle 9 circa: ben 128 velivoli, di cui quasi la metà bombardieri Judy, si diressero sugli americani, ma furono perseguitati dalla sfortuna. In nove dovettero rinunciare per noie ai motori, poi lo stormo finì sotto il fuoco amico delle corazzate in avanguardia, scambiato per la formazione nemica. Ridotta a 109 unità, l ’ondata arrivò nel punto dove si era svolto il primo attacco e non trovò nulla: Mitscher si era allontanato verso sudest per far decollare i suoi aerei.
I radar della Task Force 58 localizzarono i velivoli nipponici e un centinaio di Hellcat conversero su di loro. Piombarono dall’alto e li colsero di sorpresa, abbattendone diversi; una parte dello stormo nipponico continuò a volare verso est, a caccia delle portaerei nemiche. Finì invece sulle corazzate, irte di cannoni contraerei: i piloti tentarono di colpirle, ma furono fatti a pezzi; uno cercò invano di schiantarsi sulla corazzata Indiana.
Qualche superstite proseguì con coraggio l’impresa e, alla fine, trovò il Task Group 58.2: i Judy si avventarono sulle portaerei Wasp e Bunker Hill, ma furono distrutti dall’intenso tiro dei marinai. Solo una dozzina scarsa di aerei arrivò a Guam e Rota dopo le ore 12.
Sotto, la portaerei americana Bunker Hill viene sfiorata da bombe giapponesi (foto ricolorate).
4. OZAWA NON DEMORDE
Nel frattempo le cose si complicavano per Ozawa. Il sommergibile americano Albacore era penetrato oltre i cacciatorpediniere giapponesi proprio mentre la seconda ondata prendeva il volo e, con un siluro, aveva sventrato la prua della Taiho, costringendola a interrompere le operazioni.
Non piegandosi alla sfortuna, alle 10 circa il viceammiraglio ordinò un terzo attacco. 147 aeroplani ricevettero però messaggi contraddittori sugli avvistamenti di navi nemiche e 27 di essi, giunti al limite dell’autonomia, tornarono indietro.
I restanti 20 oltrepassarono le corazzate statunitensi, alla ricerca delle portaerei; non trovandole, si gettarono sulle corazzate, che li accolsero con un fitto tiro contraereo. Intervennero anche 40 Hellcat, ma stavolta i giapponesi abbattuti furono solo sette: gli altri tornarono alle proprie portaerei.
Sotto, un Hellcat atterra sul ponte della Lexington, ammiraglia della Task Force 58.
Attorno alle 11 Ozawa sguinzagliò una quarta ondata di 82 velivoli, mentre l ’equipaggio della Taiho cercava di rimettere in funzione il ponte di volo ed eliminare i vapori di benzina che si erano diffusi dai serbatoi danneggiati.
Gli aerei volarono verso nordest suddivisi in piccoli stormi ma, di nuovo, errori di navigazione li portarono fuori rotta: qualcuno ripiegò, altri optarono per atterrare a Guam o a Rota, rifornirsi e decollare di nuovo (come prevedeva il piano di battaglia). Sei Judy s’imbatterono nella portaerei Bunker Hill, ma il loro attacco fu un fiasco e solo uno scampò al fuoco contraereo.
Nel frattempo il viceammiraglio Mitscher aveva concentrato nutrite pattuglie di Hellcat su Guam e Rota: trovarono il grosso della quarta ondata giapponese in fase di atterraggio e lo massacrarono. L’artiglieria contraerea riuscì ad abbattere 5 Hellcat, ma la quarta ondata giapponese aveva perso ben 73 aerei.
Sotto, un aereo giapponese colpito mentre tentava di bombardare la KitkunBay al largo delle Marianne. Sotto, da sinistra: l'ammiraglio Spruance, il viceammiraglio Mitscher, l'ammiraglio Nimitz e il viceammiraglio Lee, fotografati nel febbraio del 1945.
Per Ozawa le tragedie non erano finite. Il sommergibile americano Cavalla, tra quelli che avevano pedinato la 1a Flotta mobile, era riuscito a sgusciare tra i cacciatorpediniere nemici e avvicinarsi alla portaerei Shokaku, veterana di Pearl Harbor: alle 12,20 la squarciò con tre o quattro siluri, provocando incendi e danni; alle 15, proprio mentre l ’equipaggio iniziava ad abbandonarla, la nave s’inabissò, portando con sé centinaia di uomini.
Ozawa assistè alla scena dal ponte di comando, ma non ebbe il tempo di pensarci. Senza preavviso, uno scoppio formidabile sventrò la Taiho: i vapori di benzina si erano incendiati, facendo detonare bombe e siluri a bordo. Miracolosamente sopravvissuto, il viceammiraglio avrebbe voluto affondare con la nave, ma i suoi ufficiali lo convinsero a trasferirsi sull’incrociatore pesante Haguro. La carcassa in fiamme della Taiho sparì tra le onde alle 16,30.
Nel pomeriggio del 19 giugno si era già delineata la disfatta della Flotta combinata: i giapponesi avevano perso 310 aerei, due delle loro migliori portaerei, oltre 1.500 uomini e dozzine di apparecchi della 1a Flotta aerea; gli americani accusavano 29 apparecchi abbattuti, 27 aviatori e 31 marinai morti. Una vittoria schiacciante, che gli Usa battezzarono “Great Marianas Turkey Shot” (il grande tiro al piccione delle Marianne), in riferimento alla mole di abbattimenti di velivoli nemici.
Eppure gli ammiragli Spruance e Mitscher non erano tranquilli. Dove si trovavano le portaerei nemiche? Ora che la loro potenza aerea era stata distrutta si presentava l’occasione di annientarle una volta per tutte.
Ozawa si era allontanato verso nordovest per riempire i serbatoi e prepararsi a continuare la battaglia. Alle 13 del 20 giugno decise di passare sulla portaerei Zuikaku, dove ricevette notizie sull’ecatombe del giorno prima.
Diede nuovi ordini: la flotta doveva finire il rifornimento e riprendere il contatto con il nemico l'indomani. Le sue sette portaerei avevano ancora un centinaio di velivoli e Ozawa contava di coordinarsi con Kakuta: non sapeva che la sua flotta aerea era stata annientata.
Qua sotto, la portaerei Zuikaku (al centro) e due cacciatorpediniere sotto attacco da aerei della Task Force 58, 20 giugno 1944.
5. TIRO AL PICCIONE
I piani di Ozawa andarono in fumo verso le 16 a causa di un aerosilurante Avenger americano, mandato in esplorazione: esso segnalò la flotta nemica oltre 500 km a nordovest della Task Force 58.
C’ era però il problema della distanza, forse eccessiva per i velivoli americani. Dopo una discussione tesa si decise di tentare e, in poco tempo, decollarono 85 caccia Hellcat, 77 bombardieri in picchiata Helldiver e 54 Avenger.
L’attacco iniziò alle 18,30, al crepuscolo. I giapponesi, messi in guardia da messaggi decifrati a Tokyo e ritrasmessi a Ozawa, erano pronti a ricevere il nemico.
Scoppiò una battaglia simile a quella del 19 giugno, ma a parti invertite: le navi nipponiche andavano a tutta forza e viravano brusche per schivare bombe e siluri; gli artiglieri sparavano freneticamente contro gli apparecchi statunitensi, che si accanivano sulle lente petroliere, danneggiandone molte e affondandone due.
Gli Avenger avevano l’ordine di puntare sulle portaerei: al primo passaggio almeno due siluri colpirono la Hiyo, che sbandò e perse velocità affondando infine di prua. La portaerei Ryuho fu presa di mira subito dopo, ma accostando seppe evitare i siluri.
La grande Zuikaku dette prova di eguale maestria, ma gli Helldiver le piantarono diversi ordigni nel ponte di volo e appiccarono un grosso incendio, che l ’equipaggio riuscì a contenere. Le portaerei Chiyoda e Junyo furono raggiunte da una o due bombe a testa, con danni moderati.
L’incrociatore Maya fu preso di mira da parecchi Helldiver, ma manovrò con abilità tale da subire solo pochi graffi. Una bomba si conficcò nella corazzata Haruna, che assorbì il colpo senza problemi. Nel frattempo gli Hellcat erano impegnati in una mischia contro una quarantina di Zero: riuscirono ad abbatterne diversi, pur con alcune perdite.
Dopo le 19 gli stormi americani presero la via del ritorno ma, come temuto, parecchi di essi caddero nell’oceano a molte miglia dalle loro portaerei. Quelli che finalmente raggiunsero la Task Force 58 la trovarono con tutte le luci di pista accese, nonostante il rischio di farsi individuare dai sommergibili nemici.
In un caos indescrivibile, i piloti appontavano contemporaneamente, alcuni con i motori già spenti e quasi nessuno sulla propria portaerei. 80 velivoli dovettero ammarare e 20 erano stati quelli abbattuti nel corso dell’attacco.
Qualche pilota, finito in mare vicino alle navi, fu tratto in salvo il giorno seguente, dato che i comandanti americani navigavano verso nordovest, cioè lungo il tragitto seguito dagli aerei.
Nella foto sotto, l'avanguardia giapponese sotto attacco da aerei della Task Force 58, nel tardo pomeriggio del 1944. L'incrociatore pesante che gira in cerchio a destra vicino all'obbiettivo è il Maya o il Chokai. Più lontano la piccola portaerei giapponese Chiyoda.
Spruance e Mitscher non vollero continuare la caccia: Ozawa era ormai troppo lontano e aveva ricevuto l’ordine di ripiegare. Nell’ultimo atto della grande battaglia gli americani contarono 49 morti.
La sconfìtta delle Marianne ebbe conseguenze gravissime per Tokyo, fra cui la perdita di tre portaerei. Inoltre le isole furono lasciate a se stesse: Saipan capitolò il 9 luglio, Tinian il 1° agosto e Guam il 10.
Solo i sommergibili della 6a Flotta nipponica tentarono di dare un disperato aiuto alle guarnigioni, ma subirono a loro volta perdite enormi a causa della fitta sorveglianza dei cacciatorpediniere americani. Kakuta cercò di lasciare Tinian a bordo di un battello; non riuscendoci, forse riparò in una grotta per togliersi la vita.
La conseguenza peggiore della disfatta fu strategica. I gruppi imbarcati giapponesi erano stati distrutti e, con loro, gli equipaggi faticosamente radunati e addestrati dalla fine del 1943: era sparito quel poco di efficienza residua dell'arma aeronavale.
A Tokyo rimanevano le portaerei, ma per il resto della guerra furono di scarso aiuto, tanto che nella battaglia del Golfo di Leyte (23-26 ottobre 1944) quattro di esse vennero sacrificate come esca.
La Marina Imperiale era stata battuta per una serie di fattori: il gran numero di moderne e micidiali armi contraeree sulle navi nemiche, i superiori radar e l'oramai grande esperienza degli equipaggi americani, che volavano su aerei di nuova concezione, meglio armati e protetti di quelli giapponesi (i quali, al contrario, erano spesso pilotati da giovani al battesimo del fuoco). Ozawa ebbe anche informazioni imprecise o del tutto errate, in base alle quali proseguì negli attacchi.
Un'altra grave mancanza nipponica fu la difesa antisommergibile. Se i cacciatorpediniere giapponesi non avessero avuto sonar obsoleti, forse la sorte della Shokaku e della Taiho sarebbe stata diversa.
Dopo il 20 giugno l'illusione nipponica di poter frenare il nemico, scongiurare attacchi diretti al suolo nazionale e abbozzare trattative per una pace onorevole svanì. Gli Usa, al contrario, con quella schiacciante vittoria sul mare e i successi a terra (pagati con molto più sangue) si aprirono la strada alla vittoria.
Nel novembre 1944 i B-29 iniziarono a decollare dalle Marianne per avviare una campagna di bombardamenti destinata a radere al suolo intere città giapponesi e culminare con il colpo di grazia: i due ordigni nucleari sganciati su Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto 1945.
Sotto, l'asso della US Navy Alexander Vraciu festeggia l'abbattimento di 6 bombardieri giapponesi in una sola missione.