Il dolore è un segnale di allarme con cui il nostro organismo ci segnala che qualcosa non va.
Ciascuno di noi vive il dolore in modo diverso.
Il significato che le persone attribuiscono al dolore e alle situazioni che lo provocano dipende dalla cultura e dalle conoscenze possedute, ma anche dalle credenze personali.
Il dolore non controllato peggiora nettamente la qualità della vita, espone al rischio dell’automedicazione e può provocare atteggiamenti antalgici non corretti per alleviarlo.
Sentirlo è un’esperienza che ci accomuna tutti. Ma perché accade? Andiamo a esplorare la scienza della sofferenza.
1. Che cos’è il dolore? Quali processi innesca il dolore?
Che cos’è il dolore? Sembra facile a dirsi.
Tocchiamo per sbaglio una pentola bollente, e vediamo le stelle: ritiriamo subito la mano, corriamo ad aprire il rubinetto e la mettiamo sotto l’acqua fredda.
Fatto: non c’è bisogno di andare al pronto soccorso. Per diversi giorni, però, la parte ustionata continua a pulsare, ricordandoci della nostra disattenzione, finché finalmente il dolore comincia a scemare.
Dovremmo avere imparato la lezione: la prossima volta saremo più prudenti, quando cuciniamo.
Questo semplice esempio ci racconta tante cose sul dolore. Innanzitutto, che è un ottimo sistema di allarme: senza di esso, non avremmo allontanato immediatamente la mano, e le conseguenze sarebbero state ben più gravi.
Sensazioni di questo tipo (i cosiddetti “dolori acuti”) hanno una grande importanza: sono fondamentali per la nostra stessa sopravvivenza.
Per questo, la capacità di percepire la sofferenza fisica accomuna tante specie diverse: alcuni inseriscono nel gruppo anche le piante, ma queste non sono dotate di sistema nervoso, né di cervello, e dunque è difficile capire come possano “sentire male” quando vengono tagliate o danneggiate.
Il dolore appartiene alla nostra storia evolutiva: è un messaggio critico che ci informa che qualcosa, nell’ambiente che ci circonda, ci sta causando sofferenza, lesioni, o ci mette addirittura in pericolo di vita. Senza questa “spia”, saremmo nei guai.
Ne siamo purtroppo certi, perché esiste una rara malattia genetica, detta “insensibilità congenita al dolore” o CIP: a chi ne è affetto non giunge il provvidenziale avvertimento rappresentato dalla sensazione di sofferenza, anche in caso di gravi ferite.
Soprattutto in passato, questi pazienti non raggiungevano l’età adulta, proprio a causa delle conseguenze di lesioni non percepite.
Quali processi innesca il dolore? Il dolore ci motiva ad agire.
Ritorniamo all’esempio della pentola sul fuoco e immaginiamo, ora, di averla sollevata prima di accorgerci che era troppo calda. Quali opzioni abbiamo? Lasciarla cadere e combinare un gran pasticcio, oppure sopportare il male, fino a trovare una soluzione.
In pochi istanti, scopriamo che la pentola è caldissima (percezione termica), che ce l’abbiamo in mano (percezione spaziale), che proviamo dolore (intensità percettiva), che quella sensazione non ci piace (percezione di sgradevolezza), che tutta la nostra attenzione si è concentrata su questo incidente (cognizione) e che non ne siamo contenti (percezione emozionale): il dolore, dunque, è un’esperienza talmente complessa da essere spesso definita “multidimensionale”.
Come ci comportiamo, dunque? Sulla base di passate esperienze, di risposte apprese e degli esiti potenziali (come venire rimproverati se decidessimo di lasciar cadere la pentola), prendiamo una decisione e agiamo di conseguenza.
Facciamo appello a reti neurali straordinarie, che ci permettono di “bloccare” la sensazione dolorosa finché non abbiamo messo al sicuro la pentola bollente: dopodiché, ci precipitiamo verso il rubinetto dell’acqua fredda.
Il dolore ci spinge all’azione, esortandoci a scappare ed evitarlo, oppure a segnalare ad altri che abbiamo bisogno di aiuto e sollievo.
2. Come sentiamo dolore? Perché anche il cibo può causare sensazioni dolorose?
Come sentiamo dolore? Appena al di sotto del nostro strato cutaneo più superficiale, disponiamo di una rete intricata di fibre nervose “del dolore”, o nocicettive, che terminano con particolari recettori detti nocicettori.
Quando vengono attivati, inviano segnali lungo le fibre nervose, diretti al midollo spinale e dunque, al cervello, dove il dolore emerge come percezione.
I nocicettori possono essere attivati da una grande varietà di stimoli (o “trigger”): termici (calore), meccanici (per esempio, un taglio fatto con una lama o un colpo inferto con un martello), e chimici/irritanti (come il contatto con un acido o con del peperoncino).
Le fibre nervose sono di diversi tipi: lungo le Aδ, dette anche A-delta, viaggiano i cosiddetti segnali di “primo dolore”, ovvero le sensazioni immediate e acute che ci fanno esclamare “ahi!” quando tocchiamo la famosa pentola calda; queste sono seguite dalle fibre C, che invece trasportano i segnali di “secondo dolore”, l’indolenzimento sordo e continuo che ci fa dire che sentiamo ancora male.
Le normali sensazioni tattili, invece (percepire i vestiti sulla pelle, sentire una penna stretta nel pugno) vengono convogliate da altri nervi periferici, detti Aß (A-beta).
La trasmissione dei segnali dolorosi in direzione del midollo spinale viene assistita da altri componenti delle fibre nervose, chiamati canali ionici, che non sono presenti in molti pazienti affetti da CIP (l’insensibilità congenita al dolore) i quali, per questo motivo, non lo sentono.
Perciò, scegliere come bersaglio e bloccare i nocicettori e/o il processo di trasmissione è un abile espediente per impedire il propagarsi della sensazione dolorosa: è proprio ciò che stanno tentando di fare molte case farmaceutiche.
È interessante osservare che numerosi nocicettori sono “polimodali”: ciò significa che uno stesso recettore può essere attivato da cause diverse. Per fare un esempio parliamo di temperatura e di cibo.
Perché anche il cibo può causare sensazioni dolorose? Diversi nocicettori termici presenti nel nostro organismo sono attivati da temperature specifiche, trasmettendoci sensazioni di calore o freddo intenso.
Sorprendentemente, però, questi stessi recettori sono sensibili anche a varie sostanze chimiche naturali, che causano esperienze analoghe. Per esempio, quando addentiamo un peperoncino, un composto detto capsaicina si lega allo stesso nocicettore attivato da temperature molto elevate (di almeno 42°C).
Per questo, quando assaggiamo un piatto piccante, diciamo che “brucia”: il nostro cervello non riesce a distinguere il trigger del recettore, e si limita a rilevare che abbiamo la bocca in fiamme!
Bere birra, tra l’altro, non aiuta a “estinguere” il fuoco, perché l’alcaloide in questione è liposolubile e non idrosolubile e dunque sarebbe più efficace accompagnare la pietanza con una salsa a base di yogurt.
Alcuni scienziati ritengono che gli organismi vegetali producano capsaicina per dissuadere i mammiferi che altrimenti ne mangerebbero i frutti.
Gli uccelli, invece, non sembrano sensibili alla sostanza e anche in questo caso, la ragione è intuitiva: mangiando i peperoncini, aiutano a disperderne i semi, a tutto vantaggio della pianta.
3. Come fa il cervello a generare dolore?
Una volta che i segnali dolorosi hanno raggiunto il cervello, attraverso il midollo spinale, attivano una vasta rete di aree cerebrali, che comprendono il tronco encefalico, il talamo e diverse regioni corticali.
A questo punto, dall’attività cerebrale così innescata emerge l’esperienza algica soggettiva.
Prima dell’elaborazione dei segnali in arrivo a opera del nostro cervello cosciente, non possiamo parlare di dolore vero e proprio ma di nocicezione: si tratta, infatti, della risposta del sistema nervoso al danno tessutale originario. Il rapporto tra la gravità della lesione e l’intensità o qualità della sensazione dolorosa di ogni singola persona non è mappabile in maniera univoca.
I segnali trasmessi possono essere infatti potenziati, attenuati o rivalutati dal cervello, determinando variazioni straordinariamente significative dell’esperienza individuale.
Se, per esempio, quando andiamo dal dentista siamo nervosi o preoccupati, l’esperienza dolorosa sarà più intensa: le emozioni, a livello cerebrale, fungono da amplificatori, e “alzano il volume” della sensazione.
Fortunatamente, però, siamo dotati anche di un sistema concepito per ridurre la percezione del dolore. La parte del cervello responsabile della sensazione algica è in grado, infatti, di dialogare con il midollo spinale e sopprimere i segnali nocicettivi, esercitando un’azione frenante.
Il risultato è una riduzione dell’attività cerebrale e del dolore, perlomeno fino alla rimozione del freno. È ciò che accade ad atleti o soldati in situazioni di grande eccitazione o di pericolo in battaglia, oppure ogni volta che qualcosa ci distrae dalla sensazione dolorifica (per esempio, quando un genitore cerca di divertire un bambino per non farlo pensare a un’imminente, temuta iniezione).
Non si tratta di trucchetti, ma di reale fisiologia: esiste dunque un sistema, detto “di modulazione del dolore per via discendente”, che viene dirottato dall’attivazione dell’effetto placebo sul sintomo doloroso. È così che si attua la cosiddetta “placebo-analgesia”.
Curiosamente, fino a non molto tempo fa si riteneva che, poiché gli animali e i neonati hanno cervelli meno sviluppati rispetto agli umani adulti, non potessero sentire dolore.
Questa credenza non ha alcun fondamento: l’esperienza dolorosa è individualizzata e personale e dipende dallo stato d’animo del soggetto, da quanta attenzione viene riservata allo stimolo, dal contesto e dalla situazione in cui si subisce una lesione e così via, ma in ogni caso, per verificarsi, non richiede un cervello pienamente sviluppato.
4. Qual è la differenza tra dolore fisico e psichico? Che cos’è il dolore cronico?
Qual è la differenza tra dolore fisico e psichico?
Storicamente, se qualcuno diceva di star male in assenza di una patologia organica o di una ferita, il suo dolore veniva definito “psicogeno”, termine utilizzato in maniera dispregiativa a causa di una scarsa comprensione dei reali meccanismi in atto.
Anche il dolore emotivo ha una base neurale, e sono documentabili sovrapposizioni con le regioni cerebrali deputate alle gestione del dolore fisico.
Comprendere qual è il fondamento dell’esperienza dolorosa di una persona è importante, se desideriamo aiutarla. La sofferenza deriva da segnali inviati dall’organismo, oppure l’origine è eminentemente cerebrale?
In ogni caso, non dobbiamo pensare che il dolore fisico sia più “reale” né più importante di quello di natura psichica.
Che cos’è il dolore cronico? Si verifica quando il meccanismo si altera, e si definisce come persistenza del dolore oltre i normali tempi di guarigione dei tessuti.
Un numero elevatissimo di adulti, uno su cinque, ne fa esperienza. In media, dura sette anni, ma per il 20 per cento delle persone coinvolte si protrae per oltre un ventennio.
Colpisce soprattutto le donne e gli anziani, ed è causa di grande sofferenza e disagio sia per i pazienti sia per le loro famiglie. Inoltre, comporta costi significativi per la società, stimati in 200 miliardi di dollari (circa 170 miliardi di euro) all’anno in Europa e 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti.
È accompagnato da una serie di disturbi tra i quali depressione, ansia e insonnia, che peggiorano lo stato di sofferenza.
Il dolore cronico è uno dei problemi sanitari più diffusi al mondo, e le attuali opzioni terapeutiche non garantiscono rimedi adeguati per la maggioranza dei pazienti, che soffrono di patologie di base molto diversificate: si va dai danni nervosi a causa del diabete, alla chemioterapia, passando per sclerosi multipla, ferite, arti fantasma, artrite e così via.
Nonostante questa varietà, i segni e i sintomi descritti sono spesso simili, tanto che si sta iniziando a considerare il dolore cronico come una patologia a sé stante, sostenuta da problematiche di base attualmente indagate per l’identificazione di possibili trattamenti.
Una di queste problematiche è che le fibre Aδ e C, se danneggiate, possono attivarsi in maniera permanente, inviando segnali algici continui al cervello del paziente. Inoltre, è stato dimostrato che il circuito che va dal nocicettore interessato fino al cervello può sensibilizzarsi, con una conseguente amplificazione dei segnali.
Il quadro, così, peggiora ulteriormente, perché anche il semplice contatto con gli abiti o con il lenzuolo diventa doloroso. Immaginate una situazione simile, che per giunta perdura per anni e si somma alla preesistente, costante sofferenza.
5. Come riusciamo a quantificare il dolore provato da una persona? Come si può trattare il dolore?
Come riusciamo a quantificare il dolore provato da una persona?
Quando sentiamo male è importante segnalarlo, perché questo suscita negli altri empatia, solidarietà e disponibilità all’aiuto.
In genere, per determinare se qualcuno sta soffrendo ci affidiamo a osservazioni comportamentali e al linguaggio: chi sente dolore fa smorfie, si contorce o grida.
È però difficile quantificare le sensazioni provate, in quanto si tratta, come abbiamo visto, di un’esperienza fortemente soggettiva. Se la persona è in grado di parlare, esistono scale di gravità che possono aiutarci a classificare il dolore in base all’intensità e al disagio causato (0 = nessun dolore, 10 = dolore atroce).
È vero, però, che molto probabilmente il 10 di una persona non corrisponderà al 10 di un’altra. Invece delle scale numeriche, possono essere utilizzati questionari, e a volte anche “faccine” sorridenti o tristi, per esempio per pazienti pediatrici.
Più difficile, invece, misurare la sofferenza in neonati, pazienti in coma, anestetizzati, o affetti da demenza: un aiuto può arrivare dal rilevamento dei parametri vitali, come la frequenza cardiaca o respiratoria. Alcuni studi suggeriscono che le donne sono più sensibili al dolore, ma riescono probabilmente a sopportarlo meglio.
Le tecniche di diagnostica per immagini consentono una rappresentazione più accurata dei quadri dolorosi, anche se non dovrebbero mai sostituire completamente la descrizione fornita dal paziente.
L’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore definisce la sofferenza “un’esperienza sensoriale ed emotiva sgradevole, associata a danni tessutali reali o potenziali, o descritta in termini riferibili a tali danni”. In pratica, se una persona dice di sentire male, allora sente male, indipendentemente dalle cause.
Come si può trattare il dolore? I farmaci analgesici danno sollievo. I principi attivi storici sono l’aspirina, ricavata dalla corteccia del salice, e la morfina, ottenuta invece dai papaveri da oppio.
Oggi, l’aspirina viene quasi sempre sostituita con l’ibuprofene, in caso di infiammazione, o con il paracetamolo, se invece non è presente flogosi. La morfina e altri oppiacei sono ancora largamente in uso, ma possono associarsi a effetti indesiderati come intolleranze o dipendenze.
Altri analgesici comprendono varie tipologie di antinfiammatori, antidepressivi e anticonvulsivanti. Esistono diverse altre terapie antalgiche, tra cui la psicoterapia cognitivo-comportamentale, la fisioterapia e la chirurgia; in genere, gli esiti migliori si ottengono grazie a una combinazione di tutti questi trattamenti.
Oggi sono in arrivo nuove armi farmacologiche, e grazie ai continui progressi fatti nel campo della comprensione dei meccanismi del dolore, possiamo augurarci che in futuro, nessuno sarà più costretto a sopportare sofferenze inutili.
Note
GLOSSARIO
- CAPSAICINA
Questa sostanza chimica, che si trova nei peperoncini, si lega a un nocicettore sensibile alle altissime temperature. È il motivo per cui addentare i peperoncini può causare sensazioni dolorose.
- NOCICETTORI
Sono recettori posti sulle fibre nervose del dolore, che si comportano come lucchetti. Alcune “chiavi” (sostanze irritanti, forze meccaniche, temperatura) riescono ad aprirli e a inviare messaggi al cervello, per segnalare sofferenza e danni tessutali. Gli analgesici da banco oggi in commercio hanno come bersaglio proprio il dolore nocicettivo.
- FIBRE NERVOSE DEL DOLORE
Le fibre Aδ (A-delta) e C sono nervi che trasportano i segnali dai nocicettori posti nel tessuto cutaneo, muscolare e articolare fino al midollo spinale.
- DOLORE FANTASMA
È la percezione dolorosa proveniente da un arto o un organo mancante. Nella maggior parte dei casi, si verifica in seguito ad amputazione di un braccio o di una gamba. Alcune teorie suggeriscono che sia dovuta all’alterazione di segnali nervosi a livello cerebrale: in pratica, il nostro cervello tenterebbe di “colmare il vuoto” lasciato dalla menomazione. È causa di grande sofferenza per i pazienti.
- PLACEBO-ANALGESIA
Le sostanze placebo non hanno alcun effetto terapeutico attivo. I pazienti che le assumono spesso riferiscono miglioramenti dei sintomi. L’analgesia da placebo è l’eliminazione del dolore ottenuta con la somministrazione, per esempio, di una pastiglia di zucchero: tecniche di imaging cerebrale hanno dimostrato che potrebbe funzionare grazie al dirottamento di un sistema ancestrale e congenito di “analgesia naturale”, presente nel nostro sistema nervoso.