I negozi di alimentari e i ferramenta sono presi d’assalto: le persone fanno scorte d’acqua, viveri, torce, alimentatori.
Porte e finestre delle case sono sbarrate con assi di legno. Le barche sono portate a secco.
Per chi vive in Florida, scene come queste sono frequenti da giugno a novembre, la stagione degli uragani, i cicloni tropicali che si formano sull’Atlantico; quelli del Pacifico si chiamano “tifoni” o “cicloni”.
Ogni anno in media si formano 85 tempeste sulle acque calde dei Tropici: 45 di loro degenerano in cicloni.
Negli ultimi 50 anni, 1.942 cicloni tropicali hanno ucciso 779mila persone e causato danni per 1.407,6 miliardi di dollari: 43 morti e 78 milioni di danni ogni giorno.
Perché sono fra gli eventi più distruttivi sul nostro pianeta: secondo Edward Rappaport, ex direttore del Centro Uragani del Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), i cicloni più forti rilasciano, ogni 20 minuti, la stessa quantità d’energia d’una bomba nucleare da 10 megatoni, mille volte la potenza di quella caduta su Hiroshima.
E non è un problema solo per chi vive sulle coste oceaniche: lo scorso ottobre il ciclone Apollo ha causato inondazioni e allagamenti per 200 milioni di euro di danni in 32 comuni della Sicilia Orientale.
Ma da cosa sono causati i cicloni? Il cambiamento climatico sta peggiorando la situazione, anche nel Mediterraneo?
A guardare i dati degli ultimi 2 anni sembra di sì: quest’anno, come l’anno scorso, la stagione degli uragani è stata così attiva da aver esaurito l’elenco dei 21 nomi che il Noaa sceglie a ogni stagione per identificare le tempeste più forti.
E anche in Europa ci stiamo attrezzando: da ottobre, il Servizio meteorologico dell’Aeronautica Militare assegna un nome alle tempeste più violente che colpiscono l’Italia.
Abbiamo superato la lettera B con il ciclone Blas, nato a novembre sulle Baleari e abbattutosi poi in Sardegna e sull’isola d’Elba con venti fino a 100 km orari. I prossimi – facendo gli scongiuri – si chiameranno Ciril, Diana, Enea, Fedra, Goran, Hera, Ivan, Lina, Marco, Nada, Ole, Pandora, Remo, Sandra, Teodor, Ursula, Vito e Zora.
1. L’UNICA DIFESA: LE PREVISIONI METEO
Sul nostro pianeta i cicloni ci sono sempre stati. Michael Mann, docente di scienze atmosferiche alla Penn State University (Usa), studiando i sedimenti geologici, ne ha trovato tracce negli ultimi 1.500 anni.
Del resto, dal punto di vista climatico, i cicloni hanno anche una funzione positiva: portano aria calda e piogge alle latitudini più alte, mitigando la siccità.
Ma in maniera violenta: gli uragani si formano quando i venti che li alimentano superano i 120 km orari di velocità, ma possono raggiungere i 280 km orari, con raffiche fino a 405 km orari. I più grandi raggiungono i 2.000 km di diametro, con onde alte 14 metri. Un ciclone può durare giorni e far cadere oltre un metro di pioggia in poche ore.
I cicloni traggono l’energia dalla loro stessa struttura: la parte centrale, l’occhio, è caratterizzato da un nucleo di bassa pressione, che risucchia l’aria in un vortice simile allo scarico di un lavello: fa ruotare intorno a sé i venti, trascinati dalla rotazione terrestre, acquisendo energia dall’evaporazione dell’acqua oceanica che sale verso le alte quote dove incontra aria fredda.
Di fronte a queste forze estreme, l’unica difesa è ripararsi al sicuro e aspettare che il ciclone esaurisca la sua forza. Il combustibile dei cicloni è l’acqua calda dei mari: per formarsi hanno bisogno che il mare raggiunga i 27 °C fino a 50 m di profondità. Ma quando i cicloni arrivano sopra la terraferma, la loro energia non è più alimentata e si esaurisce in poche ore.
Fra il 1962 e il 1983, il governo degli Stati Uniti aveva finanziato Stormfury, una ricerca per mitigare l’impatto dei cicloni in formazione: si propose di deviarli usando esplosioni nucleari o mega ventilatori e di raffreddare il mare spostando grossi iceberg.
E si provò a inseminare le nuvole con ioduro d’argento o ghiaccio secco, per formare altre nuvole capaci di assorbire parte dell’energia e dei venti del ciclone: ma per ogni km2 di ampiezza degli uragani si sarebbero dovute gettare 10 tonnellate di queste sostanze. Impossibile.
L’unica difesa dai cicloni tropicali resta quindi la tempestività con cui allertare i territori dove sfogheranno la loro furia. Oggi, grazie ai satelliti, riusciamo a individuare le tempeste che possono evolvere in cicloni con un anticipo di 7 giorni.
Ma a volte ci sono sviluppi imprevisti: nel 2017 l’uragano Harvey è rimasto una comune tempesta per giorni; poi, nel giro di 48 ore, ha acquisito potenza, generando venti fino a 240 km orari. Quando è arrivato sulle coste del Texas e della Louisiana ha causato danni per 125 miliardi di dollari, diventando l’uragano più costoso della storia degli Usa.
Qua sotto, mareggiata dell’uragano Irma (2017). I suoi venti hanno spirato a 295 km/h per 37 ore consecutive, un record ancora ineguagliato.
2. PIÙ CALORE, PIÙ VAPORE, PIÙ ENERGIA
È l’effetto del cambiamento climatico innescato dall’uomo.
Secondo l’ultimo report dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, «è probabile che la quantità di cicloni tropicali più forti sia aumentata negli ultimi 40 anni, e che, nel Pacifico, la latitudine dove raggiungono il loro picco si sia spostata più a nord.
Il cambiamento climatico indotto dall’uomo aumenta le precipitazioni abbondanti associate ai cicloni tropicali». Secondo gli scienziati, per ogni grado in più di riscaldamento della temperatura globale, il rischio di precipitazioni estreme sale del 7%.
Effetto della maggior quantità di vapore acqueo nell’atmosfera, che porta con sé più calore e umidità: il vapore acqueo, infatti, ha un potente effetto riscaldante perché assorbe più energia dalla superficie terrestre rispetto agli altri gas serra.
Qua sotto, l’uragano Laura fotografato nel 2020 dai piloti della Air Force Usa: raccolgono dati meteo preziosi.
Tanto che la quantità di energia termica rilasciata da un ciclone in un giorno è più di 200 volte l’energia elettrica prodotta in un giorno in tutto il mondo. E l’innalzamento del mare causato dal riscaldamento globale fa aumentare il rischio di inondazioni da mareggiate.
«I cicloni che raggiungeranno le intensità massime (categoria 4 e 5) aumenteranno su scala globale: la quantità complessiva di eventi resterà la stessa, ma quelli violenti saranno di più», avverte l’Ipcc.
E, aggiunge una ricerca dell’Unione geofisica americana, Louisiana e Florida avranno il doppio di probabilità, rispetto al passato, di subire due tempeste tropicali consecutive a meno di 9 giorni l’una dall’altra. «Avranno meno tempo per riparare i danni dovuti ad allagamenti, crolli e blackout elettrici», conclude lo studio.
Nella foto sotto, quanto resta di un edificio dopo il passaggio dell’uragano Sandy a Union Beach (Usa) nel 2002.
3. AREE CRITICHE SUL “MARE NOSTRUM” E I CICLONI IN MINIATURA
E alle nostre latitudini che accadrà? Ai Tropici, la formazione di cicloni è rinforzata dall’effetto Coriolis, la deviazione a ovest (nell’emisfero boreale) determinata dalla rotazione terrestre: man mano che si sale, questa forza aumenta, ostacolando la formazione di cicloni.
Eppure, sul Mediterraneo si registrano tempeste chiamate “Medicanes”, cioè Mediterranean hurricanes, uragani mediterranei. Un prodotto del riscaldamento globale? No. Da secoli il Mare nostrum è un ambiente favorevole per lo sviluppo di tempeste.
Sul Mediterraneo, infatti, si formano aree di bassa pressione sottovento alle catene montuose in 3 zone: il Golfo di Genova, il Golfo del Leone tra Francia e Spagna, e, a sud, le coste di Marocco e Algeria con la catena montuosa dell’Atlante.
Ecco perché, dice Laura Bakkensen dell’Università dell’Arizona in uno studio pubblicato sul Journal of extreme events, l’Italia è il Paese più a rischio per questi eventi, che causano una media di danni per 33 milioni di euro all’anno, soprattutto in Sardegna, Sicilia, Calabria e Puglia.
Sul Mediterraneo si formano i “cicloni di tipo tropicale”: assomigliano a quelli oceanici, ma si formano con una dinamica diversa. Di solito, i cicloni tropicali nascono intorno a un nucleo centrale caldo vicino alla superficie del mare.
Quelli del Mediterraneo, invece, si formano intorno a un nucleo freddo ad alta quota, che interagisce con gli strati più bassi dove c’è un alto gradiente termico, cioè una variazione repentina di temperatura che innesca la circolazione dell’aria a vortice.
Il calore del mare non è fondamentale per il loro sviluppo: sul Mediterraneo i cicloni possono formarsi anche con acqua a 15 °C. Pensiamo alla tempesta Vaia del 2018: i venti a 150 chilometri orari hanno abbattuto milioni di alberi sulle Dolomiti, le mareggiate alte 10 metri hanno causato molti danni in Liguria, ma si è sviluppata in ottobre quando il mare non aveva temperature elevate.
Il calore che alimenta i cicloni mediterranei può arrivare dal mare o dai venti caldi provenienti da sud. E quando un ciclone ingloba aria calda nel suo nucleo, aumenta la sua energia, come avviene negli uragani: ecco perché sono chiamati “Medicanes”.
Una versione in miniatura rispetto a quelli che si for- mano sull’Atlantico, perché da noi la terraferma ne ostacola la crescita: «I Medicanes possono avere un diametro al massimo di 300 km, e non durano più di 5 giorni perché incontrano subito la terraferma.
E i venti raggiungono al massimo quelli di categoria 1 (153 km orari) della scala di Saffir-Simpson», spiega il tenente colonnello Guido Guidi, del Centro Operativo per la Meteorologia dell’Aeronautica militare.
«In media si forma poco più di un Medicane all’anno, ma finora non sono stati studiati in modo sistematico». Per questo nel 2020 l’European Cooperation in Science and Technology ha stanziato 200mila euro per finanziare studi che indagheranno più a fondo le dinamiche di formazione dei Medicanes.
Nella cartina sotto, le aree del Mediterraneo dove si sono formati più spesso i cicloni. La zona più “calda” è il Golfo del Leone, l’area che comprende le isole Baleari.
4. MAREGGIATE, BOE E ALIANTI E ANATOMIA DI UN CICLONE
Il termine fu coniato nel 2005 da Kerry Emanuel, docente di scienza dell’atmosfera al Mit di Boston, un’autorità mondiale nello studio degli uragani.
Ma da allora non sono stati ancora identificati quali parametri (velocità del vento, pressione, quantità di piogge) debbano avere i Medicanes per definirsi tali.
E con un numero così basso di eventi ogni anno diventa difficile stabilire se siano diventati più frequenti o più distruttivi per effetto del cambio climatico. Un dato è certo però. Le inondazioni dei Medicanes si spingono molto più all’interno nella costa.
Durante il Medicane Zorbas (2018) il mare sulla costa di Siracusa si è sollevato fino a 1,2 metri contro i 25 cm delle normali mareggiate. Le coste più esposte vanno dotate presto di canali per favorire il deflusso delle acque.
Altrettanto vitale migliorare la capacità di prevedere i Medicanes. Negli Usa il 53° squadrone dell’Air Force ha 20 equipaggi di “cacciatori di uragani”, che volano nei cicloni per raccogliere dati meteo. Sul Mediterraneo, invece, si usano le boe a mare. Fino al 2014 l’Italia ne aveva 15, oggi ne ha solo 7.
Grazie alla collaborazione Interreg con Malta metteremo una nuova boa al largo di Ragusa. E coi fondi Pnrr speriamo di finanziarne altre 7 al largo di Cagliari, Palermo, Catania, Civitavecchia, Ortona, Cetraro Marina e Venezia.
Ma non basta: per fare previsioni più accurate sui cicloni, i meteorologi devono conoscere le temperature delle profondità del mare. Ecco perché gli Usa hanno sviluppato alianti sottomarini autonomi che raccolgono dati sulla temperatura e la salinità del mare a diverse profondità.
Per non essere più sorpresi da un ciclone improvviso. Nella foto sotto, Catania inondata dopo il passaggio del ciclone Apollo, lo scorso ottobre. Ha causato danni per 200 milioni.
Il “ciclone tropicale” è un sistema temporalesco a rotazione rapida, caratterizzato da un centro a bassa pressione, circolazione atmosferica chiusa a bassa quota, forti venti e disposizione a spirale dei temporali, che producono forti piogge.
Viene chiamato “uragano” se avviene nell’Atlantico, “ciclone” o “tifone” se avviene nel Sud o nel Nord Pacifico. I cicloni hanno un diametro fra 100 e 2.000 km.
Il loro senso di rotazione dipende dagli emisferi: antiorario a nord dell’Equatore, orario a sud. I cicloni non possono formarsi all’Equatore, dove non c’è l’effetto Coriolis (deviazione causata dalla rotazione terrestre).
I cicloni tropicali sono come motori: il loro combustibile è l’aria calda e umida. I venti che spirano verso ovest (alisei e monsoni), quando passano sulla superficie del mare caldo fanno evaporare l’acqua, formando grandi cumulonembi (nubi a sviluppo verticale).
Il vento inizia a circolare intorno a un centro, come l’acqua nello scarico d’un lavello: l’aria ad alta pressione viene aspirata nel centro a bassa pressione. Quando i venti raggiungono i 60 km/h si è formata una depressione tropicale; quando il vento supera i 60 km/h, la depressione diventa una tempesta tropicale, a 120 km/h diventa un uragano.
5. CICLONI DA RECORD E CATEGORIE DI URAGANI SECONDO LA SCALA DI SAFFIR–SIMPSON
• CICLONI DA RECORD
- IL PIÙ MORTALE: 500mila vittime (Bhola, 1970, Pakistan)
- IL PIÙ COSTOSO: 125 miliardi di dollari (Katrina, 2005, Usa, e Harvey, 2017, Usa)
- QUELLO CON MAGGIORI PIOGGE COMPLESSIVE: 6,083 metri (Hyacinthe, 1980, Réunion)
- CON LA PIÙ ALTA MAREGGIATA: 14,5 metri (Mahina, 1899, Australia)
- CON ONDE PIÙ ALTE: 30 metri (Luis, 1995, Atlantico)
- CON VENTI PIÙ FORTI: 405 km/h la raffica (Olivia, 1996, Australia), 345 km/h per un minuto (Patricia, 2015, Pacifico), 295 km/h per 37 ore (Irma, 2017, Atlantico)
- IL PIÙ DURATURO: 31 giorni (John, 1994, Pacifico)
- LA DISTANZA PIÙ LUNGA PERCORSA: 13.180 km (John, 1994, Pacifico)
- IL PIÙ AMPIO: 1.086 km dal centro (Tip, 1979, Pacifico)
- CON L’OCCHIO PIÙ GRANDE: 370 km (Carmen, 1960, Winnie, 1997, Pacifico)
- IL PIÙ VELOCE: 110 km/h (Ciclone 6, 1961, Atlantico)
- L’OGGETTO PIÙ PESANTE SPOSTATO: un masso di 161 tonnellate per 46 metri (Haiyan, 2013, Filippine)
Nella foto sotto, 13 novembre 1970, il ciclone Bhola uccide mezzo milione di persone!
• CATEGORIE DI URAGANI SECONDO LA SCALA DI SAFFIR–SIMPSON
- CATEGORIA 1
VENTI: 119-153 km/h
MAREGGIATE: 1,2-1,5 m
DANNI: MODERATI
- CATEGORIA 2
VENTI: 154-177 km/h
MAREGGIATE: 1,8-2,4 m
DANNI: PESANTI
- CATEGORIA 3
VENTI: 178-208 km/h
MAREGGIATE: 2,7-3,7 m
DANNI: ESTESI
- CATEGORIA 4
VENTI: 209-251 km/h
MAREGGIATE: 3,9-5,5 m
DANNI: ESTREMI
- CATEGORIA 5
VENTI: oltre i 252 km/h
MAREGGIATE: oltre 5,5 m
DANNI: CATASTROFICI