Sempre più prezioso e sempre più caro, dal 2006 il metano è diventato la seconda risorsa energetica mondiale dopo il petrolio, superando il carbone.
Oggi non ne possiamo più fare a meno, eppure è l’ultima fonte fossile a essere stata sfruttata dall’uomo nel corso del tempo.
Essendo gassoso, era infatti molto più semplice in passato utilizzare i combustibili fossili liquidi come il petrolio o quelli solidi come il carbone in tutte le sue forme.
Solo a partire dalla fine del XIX secolo questo gas naturale è passato dall’essere un indesiderato prodotto di scarto dei pozzi petroliferi a una fonte di energia primaria.
Si trova nel sottosuolo in rocce serbatoio che lo intrappolano. Ma solo 10 Paesi nel mondo hanno giacimenti produttivi.
Ce ne sono anche in Italia, ma non sono sufficienti, col risultato di renderci dipendenti da quelli esteri, destinati prima o poi a esaurirsi.
1. Scaturito dal passato
Secondo la teoria scientifica più accreditata, il metano si è formato per decomposizione di piante, animali e microorganismi vissuti milioni di anni fa, i cui resti finivano nelle acque di laghi e mari riversati dai fiumi.
Sepolti sotto strati di sedimenti, quei resti sono affondati sempre più in profondità nella crosta terrestre, incontrando temperature sempre più elevate.
Il grande calore, la presenza di batteri anaerobi e la pressione esercitata dai vari strati di terreno sulla poltiglia di alghe e scheletri di animali completarono il processo di degradazione del materiale organico.
Si formarono così, in precise ere geologiche e in alcune aree geografiche, tutti quei composti di carbonio e idrogeno che chiamiamo idrocarburi, il più chimicamente semplice dei quali è proprio il metano.
Quando le compagnie petrolifere danno il via a una nuova fase di esplorazione, non fanno altro che andare a ricercare le rocce che si sono consolidate in quelle condizioni. Responsabile della formazione del gas naturale non sarebbe però solo quella “zuppa” di antichi organismi.
Una recente ricerca ha infatti rivelato che, in particolari condizioni geologiche del mantello terrestre, può formarsi un tipo di metano di origine puramente abiotica, cioè indipendente dalla presenza di materia organica.
È la conclusione alla quale sono giunti alcuni ricercatori statunitensi del Lawrence Livermore National Laboratory e dell’Università della California a Berkeley.
Simulando al computer il comportamento di atomi di carbonio e idrogeno a condizioni di pressione e temperatura elevatissime e a profondità tra i 64 e i 150 km, hanno dedotto non solo che il metano può formarsi direttamente per semplici reazioni chimiche tra idrogeno e anidride carbonica, ma che le stesse molecole del gas possono combinarsi per costituire molecole di idrocarburi più complessi.
La ricerca non spiega se tali sostanze generate in luoghi così profondi possano migrare più vicino alla superficie e contribuire a giacimenti sfruttabili di metano o petrolio, ma rappresenta un primo passo per l’individuazione di nuove fonti di approvvigionamento.
2. Si trova solo in 10 nazioni
Spesso abbinato ad altri idrocarburi, il metano si trova abitualmente inglobato nelle porosità delle rocce della crosta terrestre chiamate “rocce serbatoio”, coperte da uno strato impermeabile, solitamente argilla, che ne blocca la risalita.
Le “trappole” nelle quali è racchiuso, i cosiddetti bacini sedimentari, si trovano spesso vicino ai giacimenti di petrolio.
La loro distribuzione nel mondo non è uniforme, tanto che l’80 per cento dei giacimenti è concentrato in sole 10 nazioni: Russia, Iran, Qatar, Turkmenistan, Stati Uniti, Venezuela, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Nigeria, Algeria.
Come nel caso del petrolio, anche lo sfruttamento dei giacimenti avviene in maniera disuguale sia per ragioni politiche e strategiche sia per problemi logistici legati alle difficoltà di ricerca in aree isolate o con condizioni ambientali particolarmente severe.
Il Medio Oriente, per esempio, estrae poco metano in rapporto a quanto ne giace nel suo sottosuolo. Pur detenendo il 40 per cento delle riserve mondiali, produce solo il 16 per cento del gas consumato in un anno nel mondo. USA ed Europa occidentale estraggono invece gas a ritmi elevati in rapporto alle loro risorse.
I primi, nonostante posseggano solo il 4,5 per cento delle riserve mondiali, producono il 19,7 per cento del gas utilizzato nel mondo. Fra i produttori, a fare la parte del leone è comunque la Russia, che possiede i due giacimenti più grandi del pianeta, Urengoy e Yamburg, le cui riserve rappresentano da sole quasi un quarto del totale mondiale.
Le sue esportazioni ammontano ogni anno a 256 miliardi di metri cubi contro i 149 miliardi degli Stati Uniti.
Nella foto sotto, controlli agli impianti di estrazione di gas metano di Novy Urengoy, nella Siberia orientale, dove si trova uno dei due giacimenti più grandi del pianeta.
3. Il caso dell’Italia
Il nostro Paese è un grande utilizzatore di metano, che viene impiegato per produrre il 40 per cento di tutta l’energia che consumiamo.
Purtroppo ne importiamo molto di più di quanto ne estraiamo.
Secondo gli ultimi dati del MISE, il Ministero dello Sviluppo economico, nel 2021 abbiamo estratto 3,34 miliardi di metri cubi di metano a fronte di un consumo di ben 76,1: davvero poco se si pensa che trent’anni fa ne estraevamo 30 miliardi da giacimenti situati soprattutto in Basilicata, Sicilia, Emilia Romagna, Molise e in mar Adriatico.
Oggi si calcola che quei 3,34 miliardi di metri cubi provengano da 1.298 pozzi estrattivi delle medesime zone: di questi, solo 514 sono abitualmente utilizzati per l’estrazione, mentre 752 sono attivi solo sulla carta.
I restanti 32 sono pozzi di controllo e manutenzione. Per far fronte al possibile drastico taglio delle forniture russe da cui dipendiamo, il Ministero per la Transizione ecologica ha avviato alcune iniziative per reperire nuove risorse interne.
Si punta sul Canale di Sicilia, dove si trovano Cassiopea e Argo, due giacimenti che dovrebbero raggiungere la piena operatività nel 2024 e arrivare a produrre, assieme a quelli al largo delle Marche e di Crotone, oltre 5 miliardi di metri cubi di gas: un incremento significativo, ma assolutamente insufficiente per le nostre necessità, che continueranno a renderci dipendenti dalle importazioni.
Le alternative non sono molte: oltre ad agire su varie forme di riduzione capillare dei consumi, dovremo accelerare il più possibile la transizione verso le energie rinnovabili.
Nella foto sotto, il rigassificatore di Porto Viro (Rovigo), il primo al mondo offshore e il primo di cui l’Italia è riuscita a dotarsi.
4. I limiti dello sviluppo
Nel 1972, su commissione del Club di Roma, il Massachusetts Institute of Technology aveva realizzato lo studio scientifico Limits to Growth (I limiti dello sviluppo) che dimostrava scientificamente l’esistenza di un limite invalicabile dello sviluppo economico a causa di risorse, come petrolio e gas naturale, presenti in natura in quantità finite e non incrementabili.
Una volta raggiunto questo limite, la produzione si sarebbe ridotta fino a esaurirsi e la popolazione mondiale si sarebbe trovata in uno stato di povertà ai margini della sussistenza.
A cinquant’anni esatti di distanza, di fronte all’attuale crisi energetica c’è da chiedersi quanto vicini siamo a quel limite.
I dati riguardanti le fonti non rinnovabili non sono infatti rassicuranti. Secondo un recente studio pubblicato dal sito di finanza Bloomberg, a fronte dei consumi attuali di petrolio le analisi geologiche prevedono per gli attuali giacimenti una durata tecnica di 50 anni, anche se previsioni più ottimistiche sostengono che le riserve di greggio potrebbero durare per altri 70 anni.
Quanto al metano, si calcola che le riserve del pianeta ammontino a 190mila miliardi di metri cubi. Si tratta di quelle accertate, alle quali potrebbero aggiungersi in futuro gli eventuali giacimenti ancora da scoprire.
Tuttavia, in mancanza di nuove fonti anche il gas naturale sarà prima o poi soggetto a una crescente scarsità e, infine, all’esaurimento.
Considerando un consumo annuale di circa 3-4 mila miliardi di metri cubi, le attuali riserve dovrebbero esaurirsi entro la seconda metà di questo secolo.
5. La carta d’identità del metano
Il metano è l’idrocarburo gassoso più semplice. La sua molecola ha la forma di un tetraedro regolare con 1 atomo di carbonio al centro e 4 atomi di idrogeno ai vertici.
Più leggero dell’aria, a temperatura e pressione ambientali si presenta come gas incolore, inodore, non tossico.
Miscelato con l’aria, è infiammabile se la sua concentrazione è compresa tra il 5 e il 15 per cento: sotto il 5 per cento, la quantità del gas non basta ad alimentare la combustione, mentre sopra il 15 è il tenore di ossigeno presente nell’aria a non essere sufficiente.
Alla temperatura di 15 °C e alla pressione atmosferica, 1 metro cubo di metano sviluppa oltre 8.000 chilocalorie, ha cioè un contenuto energetico pari a quello di 1,2 kg di carbone e di 0,83 kg di petrolio.
Il metano diventa liquido a una temperatura critica di -83 °C quando è sottoposto a una pressione di 45 atmosfere. Il passaggio allo stato liquido può avvenire anche diminuendo la temperatura o aumentando la pressione.
In Italia, fu lo scienziato comasco Alessandro Volta (foto sotto) a notare per primo nel 1776 la presenza in natura del metano. Mentre in barca costeggiava i canneti del lago Maggiore presso Angera, frugando con un bastone il fondo melmoso dell’acqua, vide salire a galla e poi svanire nell’aria delle bollicine gassose.
Raccolti dei campioni e analizzati in laboratorio, si accorse ben presto che, allo stesso modo dell’idrogeno, anche il gas emanato dalle paludi era infiammabile e poteva essere incendiato sia per mezzo di una candela accesa sia mediante una scarica elettrica.
Volta definì il gas “aria infiammabile nativa delle paludi”, suggerendo di sostituirlo come combustibile all’olio per le lampade.