Un modestissimo sei in italiano. Non è quello che ci si aspetterebbe da un principe del giornalismo e della letteratura del Novecento, Dino Buzzati (1906-1972), autore fra l’altro di un romanzo famoso come Il deserto dei Tartari.
Eppure, è il voto che spicca in una sua pagella riemersa di recente dall’oblio, esito dell’esame di maturità al liceo classico Parini di Milano, nel 1924.
D’altra parte, passando a un genio come Albert Einstein, si dice che un insegnante gli avesse detto: “Einstein, lei non capirà mai niente di fisica!”.
Leggenda o realtà? Nel caso di Buzzati abbiamo la prova scritta: non era assolutamente il tipo di studente abbonato al dieci in italiano di cui tutti dicevano “da grande farà il giornalista e lo scrittore”.
1. Voti sulla pagella e il pregio della semplicità
Mancando ormai da cinquant’anni, Buzzati non ha potuto commentare per noi il suo esame di maturità, ma ci viene in aiuto una circostanza fortunata: in mezzo a tanti altri voti scarsi, nelle sue pagelle degli anni precedenti spiccano tanti otto e nove in greco e in latino.
Buzzati ci rivela, indirettamente, qualcosa di importante al riguardo nel libro-intervista redatto dal critico e traduttore francese Yves Panafieu (Dino Buzzati, un autoritratto, 1973), volume fondamentale e suo testamento spirituale: «Se so scrivere decentemente è perché avevo imparato molto bene il greco e il latino, con un professore che ha saputo darmi, e dare anche ai miei colleghi che lo capivano e gli stavano dietro, il senso della lingua.
Ci faceva leggere una ode di Orazio, un passo di Tito Livio, un brano di Tucidide e ci faceva capire perché erano belli. Questa è la gran cosa. E fra l’altro ci ha dato il gusto della semplicità».
Proprio la semplicità, intesa non come povertà espressiva ma chiarezza di esposizione, è la dote che Dino Buzzati rivendicava a se stesso e prescriveva agli altri nel giornalismo e nella letteratura: «Quando qualcuno scrive in maniera tortuosa ed ermetica, come si usa molto in Italia, il motivo è uno solo: non sa scrivere in italiano.
E non sa scrivere in italiano perché non ha le idee chiare. Se le avesse chiare, saprebbe tradurle chiaramente. È tutta gente mediocre di mestiere».
E questa regola, secondo Buzzati, vale persino nella letteratura fantastica, il genere in cui si è più spesso cimentato da narratore (aveva fama di essere “il Kakfa italiano”, benché il paragone non gli piacesse): «Raccontando una cosa di carattere fantastico devo cercare al massimo di renderla plausibile ed evidente. La cosa fantastica deve essere resa più vicina che sia possibile alla cronaca».
La cronaca nera era, secondo Buzzati, il massimo della concretezza da imitare. Per tirare le somme: «Scommetto che molti miei illustri colleghi scrittori se avessero fatto un apprendistato giornalistico – ma non di tre mesi, di anni e anni, come ho fatto io – scriverebbero dei libri molto più leggibili di quelli che scrivono».
Nella foto sotto, Dino Buzzati da piccolo (a sinistra) con la madre Alba e il fratello Augusto.
2. Giornalista
Quella di giornalista è l’attività che ha impegnato Buzzati più a lungo e con più continuità.
Per molti anni condivise con un’altra superstar, Indro Montanelli, la condizione di inviato di punta del Corriere della Sera (condivisione senza rivalità e senza invidia, anzi fra loro ci fu una tenace amicizia, anche e soprattutto nei momenti più difficili della vita).
Tuttavia, è più facile raccontare il Buzzati scrittore che il Buzzati giornalista per il semplice motivo che gli articoli sui quotidiani sono effimeri; c’è chi dice che il giorno dopo siano buoni per avvolgere la spazzatura, e questo è esagerato, perché possono anche essere raccolti in antologie, ma non c’è dubbio che subiscano il logorio del tempo più di qualunque altro prodotto dell’ingegno.
Comunque, l’avventura di Dino Buzzati giornalista cominciò nel 1928 quando entrò da praticante al Corriere, e questo poteva significare tutto o niente, visto che nei quotidiani a quell’epoca l’avvio del mestiere era tale e quale a oggi: si facevano servizi esterni su fatti marginali, si virgolavano in redazione articoli di collaboratori da Rozzano o da Pioltello, e dopo anni di frustrazioni malpagate i più capivano di non essere destinati a nulla e si rassegnavano a uscire dalla stessa porta da cui erano entrati, avendo solo sprecato tempo e vita.
Non fu così per Buzzati, che si mise presto in luce come redattore culturale fino a firmare il suo primo elzeviro (cioè l’articolo portante e più prestigioso della pagina della cultura) nel 1933 quando aveva solo ventotto anni.
3. Inviato di guerra e il suo capolavoro
Nello stesso anno uscì il suo primo romanzo, Bàrnabo delle montagne. Fra il ’35 e il ’36 Buzzati si occupò del supplemento mensile La lettura, e a questo punto avrebbe potuto avviarsi a una carriera solida e un po’ pantofolaia nel giornalismo culturale, ma invece il destino volle che le varie guerre del fascismo lo proiettassero altrove.
Nel 1940 fu inviato del Corriere nell’Etiopia invasa e nel 1942 si imbarcò, sempre da inviato del giornale, su un incrociatore della Marina militare e si trovò coinvolto in varie battaglie navali, fra cui quelle di Capo Teulada e Capo Matapan, rischiando ogni volta la pelle, perché in una guerra su terraferma si può segnalarsi come neutrali ostentando una scritta “Press”, ma su una nave cannoneggiata o silurata è impossibile invocare franchigie.
Al tempo di questi eventi Dino Buzzati era già diventato famoso in Italia e nel mondo grazie al suo capolavoro Il deserto dei Tartari (1940).
Però qui va chiarito un equivoco. A noi che lo leggiamo con la sensibilità del XXI secolo può sembrare ovvio che il romanzo sull’ufficiale Giovanni Drogo, il quale spreca la sua intera esistenza nella futile routine di una fortezza e nel sogno irrealizzato di trovare gloria in battaglia, sia (fra le altre cose) anche una critica corrosiva della vita militare, oltre che una metafora generale della condizione umana.
Ma Buzzati, a sorpresa, ci spiega di no: «La vita militare corrispondeva alla mia natura. Mi era bastato il normale servizio militare (nell’Esercito) di allievo ufficiale e sottotenente di complemento per sentirmi attratto completamente, e per assimilare, credo, fino in fondo, lo spirito di quel mondo che oggi sembra così screditato».
D’altronde per le opere d’arte è spesso così: vivono di vita propria, e possono comunicare al lettore qualcosa di completamente diverso dall’intenzione dell’autore.
4. La metafora dell’uomo medio e i grandi tardivi amori
Se Il deserto dei Tartari può creare equivoci sulla maggiore o minore attrattiva della vita militare, non ne crea invece il suo senso generale: tutte le vite rischiano di essere sprecate e alcune lo sono più facilmente di altre: «L’idea di questo libro mi era venuta in redazione al Corriere della Sera. Accanto a me c’erano dei colleghi più anziani...
Tutti da giovani avevano sperato di fare qualcosa di più brillante, di fare gli inviati speciali, cioè di fare grandi reportage, di viaggiare per il mondo eccetera... E poi a poco a poco si erano fossilizzati lì, nella redazione, rinunciando progressivamente alle loro speranze».
Come fu per Giovanni Drogo nella Fortezza Bastiani, metafora «dell’uomo medio che spera in una grande occasione, e magari questa occasione appare, sembra che stia per realizzarsi, e invece scompare e se ne va via. Oppure quando arriva è troppo tardi».
Buzzati ebbe tutt’altro problema, perché ad arrivare tardi per lui non furono le occasioni professionali ma (curiosamente) l’età dei grandi amori. Uno dei quali gli ispirò il romanzo della maturità intitolato – appunto – Un amore (1963).
Nel libro, un architetto milanese di mezza età, che non ha mai avuto con le donne altro che rapporti a pagamento, si innamora all’improvviso, e non corrisposto, di una giovane prostituta. Ciò richiama, a grandi linee, l’esperienza di Dino Buzzati, che ebbe una vita sessuale e sentimentale eterodossa.
Timidissimo con le donne, fino a un’età avanzata frequentò – a suo dire – esclusivamente prostitute, e solo tardi ebbe dei veri amori. Anche Buzzati si sposò a 60 anni(nel 1966) con una donna molto più giovane di lui.
Il suo disperato innamoramento per una giovane mercenaria alla fine degli anni ’50 fu descritto così dal suo amico Indro Montanelli: «Buzzati non era affatto un omosessuale, ma era un uomo dal sesso complicato e difficile, che egli aveva scoperto molto tardi. E quando lo si scopre molto tardi ne derivano conseguenze sconvolgenti».
Non così sconvolgenti da sopraffarlo, però. Di se stesso Buzzati disse una volta, con distacco e ironia: «Mi sono accorto di essere in una grossa inferiorità rispetto alla media degli altri uomini... a meno che gli altri uomini siano dei grandi ipocriti e mi raccontino balle». Buzzati morì a Milano nel 1972 da un tumore al pancreas (esattamente come il padre).
Nella foto sotto, Dino Buzzati con la moglie Almerina Antoniazzi
5. Per Buzzati il teatro era una “droga”
Oltre che giornalista e scrittore, Dino Buzzati è stato autore teatrale, un’attività che occupò solo una frazione del suo tempo, ma che a tratti lo assorbì completamente: «Quando entri nel mondo del teatro entri nella favola, entri nella fantasia», diceva.
Ma c’è un pericolo: «Il teatro è una droga», e dopo aver osservato che certe persone sciupano e bruciano la loro vita lì dentro, peggio che se fossero in una Fortezza Bastiani, lui si sforzò deliberatamente di starne un po’ alla larga.
Comunque si lasciò dietro quasi venti testi teatrali e cinque libretti d’opera, e ogni volta non si limitò a scrivere ma curò con passione scenografie, costumi, recitazione eccetera.
Buzzati fu anche pittore e fumettista. Buzzati non fu uno scrittore che si dilettava anche di quadri, ma un pittore vero: magari avete presente la sua famosa Piazza del Duomo di Milano (1957) che ha poco da invidiare a De Chirico.
Dulcis in fundo, la letteratura e le arti figurative vennero fuse da Buzzati nel Poema a fumetti del 1969, tutto scritto e disegnato da lui, che raccontò in chiave moderna il mito di Orfeo e Euridice e fu uno dei primissimi graphic novel pubblicati in Italia. Un vulcano di idee. Imprevedibile, con quel sei in italiano.