Migliaia di anni di convivenza non bastano, evidentemente, a proteggere il cane dai nostri errori. E sì, perché nella maggior parte dei casi la paura degli esseri umani viene indotta nel cane proprio dagli umani stessi, come vedremo.
I più comuni comportamenti che indicano la paura verso noi bipedi includono nascondersi dietro le gambe del proprietario, distogliere lo sguardo, accucciarsi con la coda tra le zampe e guardare ciò che viene considerato una minaccia con occhi disperati, oppure ringhiare per tenerci a distanza, fuggire, se il cane è libero, ma ci sono anche soggetti che, al contrario, attaccano per paura.
A volte il timore è generato dai bambini, altre volte dagli anziani, poi ci sono i cani che hanno paura soltanto dei bipedi maschi e non delle femmine, e viceversa.
E ci sono anche soggetti che hanno paura degli esseri umani in generale, senza distinzioni. Sono tutti timori che hanno sempre una radice. Ma quale?
Purtroppo non é raro incontrare cani che hanno paura degli esseri umani. Alcuni li temono tutti, altri solo alcune tipologie, ma in ogni la loro vita diventa difficile, così come quella di chi li ha accanto. Perché accade? E come possiamo evitarlo? Scopriamolo insieme.
1. Una fase cruciale
La principale causa delle risposte di paura dei cani nei confronti della specie umana si ritrova nel ridotto tasso di esperienza nei primi mesi di vita.
A partire dalla terza settimana dalla nascita infatti, grazie all'attivazione completa di vista, udito, tatto, odorato e gusto, il cucciolo inizia a scoprire il mondo che, fino a quel momento, aveva solo percepito leggermente poiché cieco, sordo e limitato anche nei rimanenti tre sensi.
Ma ora che tutto è in funzione, nel piccolo si attiva un particolare processo di apprendimento, definito "per esposizione", attraverso il quale acquisisce e memorizza le informazioni provenienti dall'ambiente esterno, inserendole in specifiche zone del cervello dedicate al ragionamento e alla memoria.
Stiamo parlando di un periodo, denominato non a caso "sensibile", in cui le esperienze vissute vengono archiviate dal cane e mai più dimenticate.
Tale fase, coincidente con lo sviluppo cerebrale, si esaurisce entro le 9-16 settimane di vita circa, a seconda delle circostanze, della genetica e di tanti altri fattori in gradi di condizionarne la durata.
In ogni caso, più frequenti e positivi saranno gli incontri con gli esseri umani, di ogni genere, in tale periodo e minore sarà la probabilità che il cane consideri la nostra specie come qualcosa di "minaccioso".
In gergo tecnico, ha inizio il "modello delle rappresentazioni", per effetto del quale il nostro amico incomincia a suddividere il mondo per "categorie".
Tra queste vi deve essere l'uomo, come specie socializzata e, di conseguenza, vissuta come "amica".
Se, viceversa, questa esposizione non si verifica o si verifica solo in minima parte, è molto facile che il cane, crescendo, sviluppi timore verso di noi perché, semplicemente, non ci conosce abbastanza. O, per meglio dire, non è stato sufficientemente socializzato verso gli esseri umani.
2. Quanti umani? Bisogna differenziare le tipologie
Posto che, secondo la scienza l'optimum della socializzazione verso di noi sarebbe costituito dall'incontro di sette bipedi diversi ogni giorno, suddivisi tra incontri in allevamento, in casa e all'esterno, per i primi mesi di vita del cucciolo, è chiaro come non sia poi tanto facile raggiungere tale risultato.
Tuttavia, oltre a sforzarsi di arrivarci il più vicino possibile, è importante ricordare che ci sono diverse "categorie" di esseri umani che il cucciolo deve conoscere e ricordare: individui di entrambi i sessi e, per ognuno dei sessi, bambini, giovani, adulti e anziani, con corporatura, peso, altezza, colore della pelle e odori differenti.
All'interno del "modello di rappresentazione" vi sarà poi un ulteriore livello di comparazione tra tutte le "caselle" riguardanti la specie umana, perché il cane, come noi, si avvale di "operatori logici" che gli consentono di discriminare tra un essere umano e un altro.
Le capacità di costituire le categorie e i concetti, pur estendendosi per tutta la vita, hanno un picco di efficacia proprio nel "periodo sensibile" di cui abbiamo parlato poc'anzi.
In quella fase, infatti, l'attività cerebrale dei cuccioli è estremamente intensa e dà luogo a vere e proprie "mappe neuronali" composte da un numero elevato di neuroni e di sinapsi, quei sottili filamenti che consentono il collegamento tra una cellula cerebrale e l'altra. Le fonti del pensiero.
Ma perché è tanto importante la socializzazione? Alla domanda risponde perfettamente lo studioso e comportamentista Inglese David Appleby; nel suo utilissimo libro Ain't misbehavin, purtroppo mai pubblicato in Italia, scrive: " Attraverso la socializzazione, un animale apprende come riconoscere le specie con cui coabita e come interagire con esse.
In natura, si tratterà probabilmente della medesima specie di appartenenza, ma per il cane domestico, la socializzazione include altri animali, tra cui l'uomo o il gatto.
Nell'apprendere come interagire con altri animali, il cane socializzato sviluppa capacità di comunicazione che gli consentono di riconoscere le intenzioni degli altri e quindi di rispondere adeguatamente". Capito? Se il cane non riesce a riconoscere le nostre intenzioni perché poco socializzato, è logico che ci tema.
3. Timori mirati. Dettagli che possono indurre diffidenza
Se nel corso del periodo sensibile il cucciolo ha modo di conoscere solo alcuni tipi di esseri umani, per esempio adulti ma non bambini, oppure adulti ma non anziani, questi ultimi potranno essere facilmente fonte di timore in futuro, perché si tratta di "immagini mancanti" alla sua "banca dati", tanto come numero quanto per ripetitività.
Non dobbiamo dimenticare che una delle principali caratteristiche del cane è proprio la sua grande capacità discriminatoria che gli consente di cogliere anche i più piccoli dettagli.
Così, la stessa persona incontrata la prima volta in una calda giornata di sole potrà causare diffidenza se, all'incontro successivo, si presenterà con un ombrello oppure con un cappello.
In termini tecnici, questo tipo di problema si deve a un'insufficiente abituazione agli incontri con persone che indossano il cappello o portano un ombrello, e così potrà accadere per altre caratteristiche non memorizzate sufficientemente nel tempo.
Ecco perché si consiglia sempre di abituare i piccoli anche ai diversi tipi di abbigliamento, in particolare quando sono coinvolti accessori che modificano la silhouette delle persone (come il cappello) e, dettaglio che molti trascurano, anche alla presenza di lunghe e folte barbe, perché possono rendere più difficile, per un cane che non le ha mai viste, capire chi ha di fronte.
4. Il ruolo dell'allevatore
Come abbiamo visto, il breve arco di tempo definito "periodo sensibile" è il più importante dell'intera esistenza del cane e non solo per quanto riguarda la socializzazione verso gli esseri umani.
Infatti, anche il grado di "apertura mentale", di accettazione verso tutto ciò che il cane potrà incontrare nel corso della sua vita viene fissato in modo pressoché definitivo durante questo breve lasso di tempo che il cane trascorre, in genere, nel luogo di nascita.
Se non si tratta di un randagio, dunque, parliamo di allevamento, professionale o "casalingo", cioè amatoriale. La responsabilità di chi alleva, quindi, è immensa anche da questo punto di vista.
È facile intuire che se l'allevatore si limiterà a tenere i cuccioli in luoghi chiusi, isolati dal contesto ambientale, fino al termine del periodo sensibile e anche oltre, le uniche possibilità di socializzazione rimaste riguarderanno quasi esclusivamente i fratelli di cucciolata e la madre, e l'allevatore stesso o chi per lui si occupi di nutrire i cuccioli una volta svezzati e di tenere pulito il box.
Dal punto di vista dell'abituazione agli stimoli ambientali, invece, i cuccioli che hanno vissuto questo tipo di isolamento, aggravato magari dalla monotonia e dall'assenza di sollecitazioni differenziate, cresceranno facilmente ipersensibili, timorosi o comunque a disagio quando sentiranno rumori sconosciuti o incontreranno persone, animali e oggetti diversi per aspetto, voce, età e odore da quei pochi con cui hanno interagito o che hanno incontrato durante il periodo sensibile.
Se l'allevatore lavora in questo modo tanto carente, non prendiamo il nostro cucciolo da lui.
5. Brutti ricordi. A volte la paura ha motivazioni solide
Oltre alle carenze di socializzazione del cucciolo, la paura dell'uomo può anche essere acquisita a causa di eventi traumatici. Purtroppo, i maltrattamenti sono ancora all'ordine del giorno in tante situazioni.
Ne sono vittima i randagi ma anche i cani che una famiglia ce l'hanno, perché la violenza fisica e psicologica verso gli animali è tutt'altro che un ricordo del passato.
Ogni anno sono migliaia le denunce presentate contro persone che picchiano, affamano, incatenano e abbandonano cani e altri animali.
Ovviamente, le esperienze di maltrattamento lasciano il segno nella psiche di tutti gli esseri viventi ed è facile capire perché un cane che abbia subito violenza, fisica o psicologica, possa temere tutti coloro che assomigliano al suo persecutore o, peggio ancora, arrivare ad aver paura di qualsiasi estraneo.
In questi casi, anche se alle spalle c'è stato un corretto percorso di socializzazione, il problema va affrontato con l'aiuto di un esperto di comportamento, che studierà il caso e applicherà le sue competenze per creare un programma di lavoro in grado di restituire ala vittima una discreta fiducia nel genere umano.
A volte le cose si risolvono abbastanza in fretta, a volte invece serve più tempo: dipende dalla durata dei maltrattamenti subiti, dal carattere del soggetto e dalla precisione con cui la famiglia di adozione applicherà il percorso proposto dall'esperto. In ogni caso, è un dovere di ogni cinofilo aiutare i cani che hanno vissuto simili esperienze a recuperare serenità e gioia di vivere.
E se il nemico, invece, è "dentro" il cane? Le paure, compresa quella verso la nostra specie, possono avere anche un'origine genetica.
Secondo le ricerche scientifiche, tuttavia, non si tratterebbe semplicemente di una mera trasmissione del "gene della paura", non essendo ipotizzabile l'esistenza di un solo carattere dedicato a questo stato emozionale; al contrario, nel passaggio da una generazione all'altra si verificherebbe un coinvolgimento dell'intero sistema endocrino, incidendo perciò su una "mappatura genetica" alquanto allargata.
Ma se il problema ha queste origini, affrontarlo diventa molto difficile e le chance di successo sono scarse.