C’è un tempo che non si smarrisce nella corsa. È in viaggio perenne, eppure non brucia via come una meteora in urto con l’atmosfera. Non è lineare né storico, ma circolare, quasi mitico.
È il tempo di certi racconti che non vorremmo smettere di ascoltare, che ci lasciano immaginare mondi che non abbiamo mai visto né attraversato.
Danno aria e fanno sentire vivi, come se da una storia potesse dipendere anche l’ossigeno che abbiamo nel sangue; è quando vanno via che restiamo in difetto e ci sembra manchi un pezzo per chiudere il cerchio.
Sono come magneti che ci attraggono e poi faticano a lasciarci partire, così a essi facciamo ritorno ogni volta che un vuoto sotto di noi si apre e fa vacillare il nostro equilibrio apparente.
Ed è proprio a questi racconti e al tempo ciclico che dà loro sostanza che appartiene il nostro essere stati bambini, avere condiviso frammenti di storie che ci sono rimaste dentro, quelle dei nostri nonni e genitori, degli amici con cui abbiamo scambiato gratitudini, delle persone che abbiamo amato, degli attimi che stanno a noi come somma di tutti i nostri ieri.
Se le foto fermano il tempo e non danno un’altra possibilità, così anche a distanza tocca farci i conti, non riescono a fare altrettanto con la memoria che ci sta in mezzo.
1. IL TEMPO DEL NATALE. UNA TRADIZIONE CHE SI RINNOVA
Ed eccoci, nei giorni che avrebbero preceduto le ore di festa, ancora nel ritmo quotidiano della scuola, ma ormai con la mente alle smanie della vacanza, attendere il tempo del Natale, quando ci saremmo ritrovati nelle case e avremmo aiutato ad apparecchiare la tavola per la cena, a preparare la pasta fatta a mano e i dolci impastati con la cannella o i canditi, ad addobbare di palline colorate ogni ramo d’abete rimasto vuoto, a compiere riti semplici eppure così preziosi e irrinunciabili, a sbirciare tra i pacchi dei regali per indovinare cosa, stavolta, ci sarebbe toccato.
Un mosaico di scene che avrebbero fatto famiglia, come avremmo compreso da grandi, quando anche noi, avremmo avuto qualcuno di cui prenderci cura e sentito il bisogno di tornare, dopo un lungo essere stati altrove, tra i muri di casa. Sotto, dettaglio del Sarcofago di Marcus Claudianus (330-339 d.C.) con la rappresentazione della Natività. Museo Nazionale Romano, Roma.
Ed è lì, in quell’insieme di tasselli, che avremmo ritrovato anche il rito annuale del presepio, immancabile segno del nostro lessico familiare, una storia ciclica con i suoi scatoloni pieni di polvere deposti nelle soffitte o nelle cantine, le statuine del Bambino, di Giuseppe e di Maria, dei Magi, del bue e dell’asino, quelle dei pastori in terracotta, legno o cartapesta, il muschio per il prato, il sughero per la capanna, la carta stagnola per i fiumi.
Scintille a cui bastava un dettaglio di poco conto, un ricordo sfumato, l’accenno di una parola detta altrove per intrecciare i fili di una narrazione che ci avrebbe condotto lontano, ancora una volta, in quella notte in cui tutto sarebbe potuto accadere, e in un’umile mangiatoia (dal latino praesepium, appunto) sarebbe avvenuto il miracolo di una prodigiosa epifania. Sotto, Natività affrescata nella Cappella degli Scrovegni a Padova (primi anni del XIV secolo).
C’è, in quel tornare ai Natali dell’infanzia, il desiderio di rivivere uno stupore vitale, una sorta di incantamento. Ma qual è stata l’origine di questa sacra rappresentazione che, ogni anno a dicembre, affida alla nostra memoria tanta suggestione?
Per dare inizio al racconto, allora, tocca andare indietro di numerosi secoli e, come in ogni trama che si rispetti, mettere insieme più elementi, senza i quali non sarebbe possibile ricostruire lo scenario complessivo. qua sotto, "La Natività" di Botticelli, 1475.
2. ALLE ORIGINI DEL RACCONTO - I MAGI E I LORO DONI
Ma iniziamo dal principio. Dal racconto di Matteo apprendiamo che a Betlemme nacque Gesù, ospitato in una casa con la Madre, e che ad adorarlo erano venuti da Oriente dei Magi, non specificati nel numero né identificati nel nome, seguendo una stella, un elemento che avrebbe poi illuminato tutte le notti dei presepi della nostra tradizione (Matteo 2, 1 sgg.).
Tuttavia, per recuperare altri elementi a noi familiari dobbiamo rivolgerci a un’altra testimonianza, quella di Luca. Da questa lettura scopriamo che il Bambino è deposto in una mangiatoia, troviamo Giuseppe e Maria, gli angeli, un gregge con i suoi pastori, lo stupore di coloro che, in una notte stellata, assistono a un evento che avrebbe mutato le sorti del mondo (Luca 2, 6 sgg.). A mancare da questo racconto sono, però, due protagonisti fondamentali di quella che, al di là delle intenzioni dell’evangelista, sarebbe diventata una coppia immancabile del nostro presepe: il bue e l’asino.Sotto, la Fuga in Egitto di Vittore Carpaccio (1500-1510).
Fra i Vangeli apocrifi del Nuovo Testamento, ve n’è uno composto nella seconda metà del II secolo e noto con il nome di Protovangelo di Giacomo, dal quale ricaviamo un altro dettaglio che tanta fortuna avrebbe avuto in seguito, sebbene in una narrazione dai contorni piuttosto indefiniti: Maria, per via del censimento voluto dall’imperatore Augusto, è in viaggio con Giuseppe verso Betlemme, in groppa a un asino; appena arrivata, troverà in una grotta e non in una capanna – come poi avrebbe scritto anche Origene (Contro Celso I, 51), uno dei principali teologi della prima cristianità vissuto tra il II e il III secolo –, il luogo preposto a ospitare la prodigiosa nascita e il successivo arrivo dei Magi, indicato dal brillio della stella, con i doni dell’oro, dell’incenso e della mirra (Ptv. Gc. 17, 2 sgg.; 19, 2 sgg.; 21, 3 sgg.).
Doni simbolici, quelli dei Magi, densi di significato che richiamano la sostanza divina dell’infante appena partorito nella notte di Betlemme: l’oro a indicare la regalità che spetta a un sovrano; l’incenso quale materia privilegiata per le offerte divine; e la mirra, resina aromatica utilizzata per la preparazione dei defunti, elemento che evoca la natura umana e mortale del Cristo. Qua sotto, dettaglio della Natività, mosaico dalla splendida Chiesa di Santa Maria dell’Ammiragio (detta della Martorana), Palermo.
Ma il fascino dei Magi, quali personaggi irrinunciabili nei nostri presepi, non risiede solo nei doni che essi recano con sé, ma anche nei nomi che li contraddistinguono e negli abiti variopinti e pregiati che indossano.
Da un testo conservato nella Patrologia Latina (ponderoso corpus di scritti composti dai Padri della Chiesa e da altri autori ecclesiastici e realizzato a metà del XIX secolo) e attribuito all’erudito monaco inglese vissuto tra il VII e l’VIII secolo noto con il nome di Beda il Venerabile, apprendiamo che i Magi erano tre: Melchior, un anziano con barba e capelli lunghi e bianchi, che porta l’oro e indossa una tunica viola scuro, come il fiore del giacinto, al di sotto di un mantello verde; Caspar, un ragazzo ancora giovane, avvolto in una veste color mela cotogna, al quale spetta offrire l’incenso; e Balthazar, infine, descritto con una folta barba a ricoprire l’incarnato nero della pelle, la mirra tra le mani, e una tunica rossa.
3. GROTTE DIVINE - ANIMALI CHE ALLEVANO DEI
Quello delle nascite prodigiose in una grotta, del resto, è un episodio che apparteneva già alla cultura classica: è in un antro dell’Arcadia sul monte Cillene, infatti, che sarebbe stato dato alla luce da Maia il divino Ermes; lo stesso Zeus, padre dei numi, sarebbe stato partorito da Rea in una grotta del monte Egeo sull’isola di Creta, in fuga dalla furia funesta di Crono, bramoso di inghiottire tutti i figli da lei partoriti per non perdere la propria discendenza.
E, infine, Dioniso, dio dell’ebbrezza e del vino, nume tutelare del teatro tragico attico, figlio di Zeus e di Semele, morta incenerita per essersi unita al signore dei celesti, sarebbe stato deposto, subito dopo la nascita, in una spelonca sul monte Meros.
Nascite divine accomunate, dunque, da talune caratteristiche, come le difficoltà che precedono l’accadimento prodigioso, l’asperità dei luoghi che lo ospitano, la molteplicità dei pericoli che i protagonisti della vicenda si trovano ad affrontare, e poi il conclusivo trionfo del personaggio divino che rischiara le tenebre con la luce della sua epifania. Sotto, "L'Adorazione dei Magi", dipinto di Antonio Vassilacchi, detto l’Aliense (1556-1629), conservato nella chiesa di San Zaccaria a Venezia.
Ma la grotta non è l’unico elemento che rimanda al mondo classico, a dimostrazione del fatto che le tradizioni culturali dialogano tra loro e i fenomeni che le riguardano vanno letti in una prospettiva diacronica oltre che sincronica.
Anche gli animali, infatti, come accadrà al bue e all’asinello, assenti dai primi racconti di Matteo e di Luca, condividono questa condizione eccezionale con la divinità. Gilgamesh, eroe della civiltà mesopotamica, ancora piccolo, fu salvato in volo da un’aquila che gli impedì di precipitare, come i suoi nemici avevano predisposto che accadesse.
E il celebre Ciro il Grande, prima di diventare il temibile signore del vasto e opulento regno di Persia, grazie a una cagna che lo raccolse, fu salvato dalle belve feroci che altrimenti avrebbero fatto scempio del suo corpo sulle aspre montagne della Media, come ci rivela Erodoto nelle sue Storie; né possiamo dimenticare come lo stesso Zeus fosse stato allevato dalla capra Amaltea e dall’ape Panacride nel buio di una caverna del monte Ditte, o come i due infanti fratelli che avrebbero dato origine alla leggenda della città eterna, Romolo e Remo, fossero stati nutriti da una lupa nella grotta del Lupercale, alle pendici del Palatino, dove cresceva la pianta del fico del latte (ficus ruminalis), secondo le testimonianze dello storico Dionigi di Alicarnasso che riporta l’episodio nelle Antichità romane e del poeta Ovidio che lo cita nei Fasti.
Dunque, come ci ricorda il filologo e antropologo del mondo antico Maurizio Bettini, «il tipo mitico del neonato rifiutato dalla cultura, ma salvato dalla natura, esprime qualcosa di più astratto: le "peripezie" vissute dal bambino meraviglioso mettono contemporaneamente a fuoco una vera e propria "peripezia" di civiltà.
Come in un gioco di ombre cinesi, nella crisi e nella salvezza del bambino si riflette la crisi di una cultura vecchia - afflitta da miseria, ingiustizia e sofferenza - seguita dallo stabilirsi di un ordine nuovo, caratterizzato invece da prosperità e fiducia, di cui il bambino è destinato a essere l'eroe » (Il presepio, Einaudi, Torino 2018).
4. IL BUE E L'ASINO NELLA MANGIATOIA
Così, anche per la nascita di Gesù, l'inserimento dei due animali soccorrevoli, che tanta gioia avrebbero procurato ai bambini nella costruzione dei loro presepi, creava quel legame con una tradizione mitica già consolidata e latrice di significati precisi, orientati nella direzione di un'affermazione dell'eccezionalità del bimbo divino.
A offrici una testimonianza narrativa della loro presenza nella rappresentazione della natalità, è il celebre poeta cristiano Prudenzio, vissuto nel IV secolo, il quale, in un componimento dedicato al Natale e contenuto nelle Odi quotidiane, descrive una scena idillica in cui alla mangiatoia si avvicina una schiera di animali, definiti dall'autore "bruti" e " quadrupedi"; non proprio il mansueto bue e il docile asino della successiva tradizione, ma un primo passo verso una definizione della presenza di figure animali nel contesto della vicenda sacra. Sotto, "L Adorazione dei Pastori" di Giorgione, 1500.
Se, poi, ci accostiamo alle rappresentazioni figurative della nascita di Gesù, scopriamo che la presenza dell’asino e del bue è attestata già molto presto, come dimostrano, solo per citare alcuni esempi tra i numerosi che si potrebbero riportare, un sarcofago paleocristiano in marmo, databile al IV secolo, conservato nel Museo Pio Cristiano di Città del Vaticano;
o il cosiddetto Sarcofago di Stilicone in pietra della fine del IV secolo, conservato in Sant’Ambrogio a Milano;
o, ancora, il dettaglio di una Natività in un affresco di IV-V secolo, raffigurato nell’Ipogeo di Santa Maria in Stelle a Verona, a testimonianza di come le iniziali tradizioni narrative della nascita, cui si è fatto cenno nei passi evangelici di Matteo e Luca, si fossero poi fuse in un’unica narrazione visiva che avrebbe dato vita, nel corso dei secoli, ad affreschi, sculture e opere d’arte di varia tipologia.
Tra gli esempi più illustri di coloro che iniziarono a inserire il bue e l’asino nella scena della natività, giova ricordare in questo nostro racconto almeno Girolamo.
In una lettera scritta a Betlemme nel 404 e inviata a Giulia Eustochio, per commemorare la morte della madre Paola, con la quale era stata discepola del santo, il grande teologo e padre della Chiesa, nel rievocarne la devozione, ricordava come la donna, entrando nella grotta e vedendo il luogo dove la Vergine aveva partorito, avesse giurato “con gli occhi della fede” di aver assistito all’evento, con il piccolo avvolto in fasce, i re Magi venuti ad adorarlo, la stella che riluceva nella sommità del cielo, i pastori che erano giunti a condividere la lieta novella e il bue e l’asino che se ne stavano nei pressi della mangiatoia (Epistole 108, 10). Il presepio era ormai nato. Sotto, dettaglio della Natività da un dipinto ottocentesco conservato nella Chiesa di San Francesco a Ferrara.
5. DALLA NOTTE DI GRECCIO AD OGGI
Correva l’anno 1223, era la notte del 24 dicembre e, nell’eremo di Greccio in Umbria, Francesco d’Assisi, appena tre anni prima della sua morte, avrebbe allestito un praesepium per ricordare la nascita di Gesù, secondo quanto ci racconta Tommaso da Celano (Vita Prima XXX), contemporaneo del santo.
In quella rievocazione, che avrebbe rappresentato per la tradizione cristiana l’origine vera e propria del presepio, pur mancando il Bambino, Giuseppe, Maria, i pastori, gli angeli, al centro della vicenda è collocata una mangiatoia piena di fieno con un bue e un asino veri, mentre un sacerdote celebra messa. Sotto, "Il Presepe di Greccio", scena appartenente al ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto.
Quello che conta, nella visione del poverello di Assisi, infatti, è raccontare la sofferenza di una nascita prodigiosa, le difficoltà che fin dai primi vagiti avrebbero caratterizzato la vita terrena di Gesù.
Da quella memorabile notte di Natale, illuminata dalle fiaccole e dalle candele dei fedeli del luogo accorsi a quel rito collettivo di condivisione, molti secoli sono trascorsi; celebri presepi in legno e in ceramica, in metallo e in cartapesta, sono stati costruiti e sono tutt’ora conservati in chiese e musei, opere d’arte sontuose e raffinate, ma anche umili o contaminate con i segni della contemporaneità, che spesso raccontano la cultura materiale di una comunità.
E oggi, quasi ovunque nel nostro Paese, si allestiscono presepi fissi, mobili, viventi, a testimoniare la permanenza di una tradizione che non smette mai di farci tornare, ogni anno a dicembre, al mondo bambino che siamo stati e, almeno per una notte, non vorremmo smettere di essere. Sotto, una delle scene del Presepe Monumentale del Convento di San Francesco di Cava de’ Tirreni. Si tratta di oltre mille metri quadrati di superficie allestiti al primo piano di un’ala del
convento, con tante ambientazioni tipiche della grande tradizione del Presepe Napoletano. Le offerte per la visita che vengono raccolte, contribuiscono a mantenere la Mensa dei Poveri organizzata dai frati minori.