Il pensiero indiano costituisce, insieme a quello greco e cinese, uno dei patrimoni speculativi maggiori della storia dell’uomo.
Per comprendere questo tipo di pensiero occorre una mentalità speciale. Con un certo schematismo, si potrebbe osservare che nella nostra storia della filosofia non si trovano che occasionalmente pensatori disposti a tradurre nella pratica i loro princìpi.
Per usare una metafora, essi progettano edifici sontuosi, per poi vivere in catapecchie fatiscenti. I filosofi indiani, al contrario, esibiscono una perfetta corrispondenza tra teoria e prassi, cioè conoscenza e azione. Il loro scopo primario è, infatti, la realizzazione di sé; che si occupino di logica o di scienze naturali, o enfatizzino direttamente le questioni etiche.
Questo obiettivo viene riproposto in molte varianti, a partire dai documenti antichi, i Veda e le Upanishad, a carattere religioso-speculativo, alle più sofisticate produzioni delle scuole bràhmaniche. Esso è perseguito anche dalle correnti cosiddette «eterodosse»: il buddhismo e il giainismo.
Oggi parleremo sommariamente della filosofia indiana descrivendo alcune questioni basilari, ed esponendo, infine, i 3 nomi più significativi del pensiero filosofico indiano contemporaneo e cioè Arabinda Ghose, Sarvepalli Radhakrishnan e Mohandas Karamchand Gàndhi.
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1. La prajñà
Gli indiani mirano all’acquisizione di una sorta di conoscenza intuitiva, la prajñà, che soltanto per i pregiudizi di alcuni traduttori può essere intesa come «conoscenza discriminante» o «intellettiva».
La prajñà è una prospettiva cognitiva non dualistica, non più correlata agli opposti («bene»/«male», «vita»/«morte», ecc.). Essa si accosta alla realtà direttamente, a prescindere dall’ingombrante fardello della logica; si consideri la sublime posizione del buddhista Nàgàrjuna, il quale spinge la logica sino all’estremo limite, per provarne l’illogicità!
In altri casi, per esempio, nel Vedànta di Çamkara, altra punta di diamante del pensiero indiano, la prajñà è una conoscenza «superlogica», in base alla quale gli ultimi residui del pensiero intellettivo vengono relegati a una posizione subordinata. Si evita così l’errore dell’Occidente, che generalmente attribuì alla logica un ruolo determinante e di primo piano nell’articolazione della filosofia.
Gli indiani hanno tenuto in grande considerazione il dubbio, lo spirito critico e la disposizione individuale alla ricerca. Ma la prajñà non deriva dallo studio arido di teorie e nozioni, cioè dalla disamina di dottrine altrui, mnemonicamente apprese: l’uomo può attingerla soltanto cercando dentro di sé. È questa la sfida che gli indiani lanciano all’umanità: si deve coltivare l’introspezione, in modo da sondare la propria autenticità, vale a dire la perfezione.
La perfezione individuale viene riconosciuta dalle scuole bràhmaniche, e anche dal buddhismo e dal giainismo, in diversa misura ma con la stessa enfasi. Che la si riferisca all’àtman, il principio cosmico dell’interiorità, o alla natura buddhica, la scintilla dell’illuminazione, l’India ammette, ed esalta, la perfezione umana, cioè la possibilità di sviluppare all’infinito le proprie facoltà.
In base a queste aspettative, l’essere umano è in grado di «risvegliarsi», attingendo un altro piano di realtà e una nuova consapevolezza. Secondo gli indiani ciò comporta la sospensione del legame che lo unisce al «ciclo delle nascite e delle morti», cioè alla reincarnazione, consentendogli di recuperare la propria autenticità in una dimensione senza tempo. La realizzazione concerne il sé, cioè una componente «transpersonale», ma individuale, dell’essere.
Rispetto alla comprensione di questo punto, la logica formale può trovarsi in difficoltà. Gli indiani non perseguono la realizzazione della persona, cioè di quel complesso di caratteristiche storicamente condizionate che permettono l’inserimento nella società. Benché essi non propugnino esplicitamente i valori dell’antisocialità, si appellano alle qualità che vengono suscitate in solitudine, magari con la pratica della «contemplazione meditativa» (dhyàna).
Questa prospettiva della liberazione non riguarda l’Io, cioè l’involucro esteriore, i tratti trasmessi dalla civiltà al singolo, bensì il Sé, una sorta di individualità vuota, che intuisce sino in fondo la natura della realtà. Come dire che ci si deve spogliare delle convenzioni, per attingere un’identità «transpersonale» che ci vincola alle profondità dell’Universo. D’altra parte, quest’identità può anche esser detta «personale», in quanto costituisce la nostra vera essenza, al di là delle incrostazioni socio-culturali.
2. I due importanti stereotipi della filosofia indiana
Un’altra componente del pensiero indiano può essere oggetto di gravi incomprensioni. Questo tipo di pensiero ritiene necessaria l’ammissione di vari punti di vista, relativamente a qualsiasi questione o problema. Si adotta così un relativismo cognitivo, che si esprime in un atteggiamento di estrema cautela sul piano metodologico e assertivo.
Nella logica del giainismo, una delle più articolate e solide nella storia della filosofia indiana, ogni proposizione viene accompagnata dalla seguente precisazione: «le cose stanno così, secondo un certo punto di vista»; oppure: "forse è così". L’Occidente, in genere amante degli assunti incontrovertibili e costantemente impegnato nella ricerca delle verità assolute, potrebbe ritenere insufficienti certe posizioni, svalutando ciò che non comprende.
La filosofia indiana è stata esaminata, in Occidente e nelle interpretazioni di molti indiani anglofoni, in base a 2 importanti stereotipi:
- Il primo si limita a considerarla nei termini del misticismo, interdicendosene così il nucleo profondo: negandone, per esempio, l’eccezionale contributo alla logica dell’argomentazione filosofica. Il discorso riguarda un certo tipo di «interessati» alla filosofia indiana, generalmente composto, perlomeno in una parte dell’Europa, dai fuorusciti della religione cristiana. Essi si portano dietro, com’è ovvio, il frutto delle esperienze precedenti, continuando a coltivare la stessa mentalità: cambiano soltanto gli oggetti, o meglio i termini, dei loro discorsi, ma non certo le categorie. Questi «entusiasti» seguitano a riferirsi al bene e al male, alla salvezza e alla perdizione, con lo stesso atteggiamento fideistico e dogmatico riservato in precedenza all’altra religione. Si consideri inoltre che la riduzione del pensiero indiano alla dimensione religiosa comporta numerosi equivoci.
- Il secondo stereotipo, d’altra parte, non è meno pernicioso: esso riguarda gli storici «razionalisti» e «filologi», i quali trascurano di considerare la dimensione autentica, cioè la realizzazione cognitivo-pratica, a cui gli indiani furono costantemente interessati.
La prima posizione è rappresentata da coloro che si abbandonano al primo guru sulla via, e nulla vogliono sapere di uno studio serio della materia dottrinale – che sia, dunque, anche linguistico. La seconda posizione si limita alla mera teoresi, optando per una filosofia che sia solo «una critica delle parole alle parole" per usare un’espressione di Nietzsche.
I suoi rappresentanti pubblicano accurate edizioni critiche dei testi indiani, ma il lettore è sfiorato dal dubbio che non abbiano capito granché delle dottrine che, pure, espongono. Ciò implica che lo studio del sanscrito non dovrebbe essere intrapreso con la stessa pedanteria che, per esempio, risulterebbe adeguata nel caso della matematica – con tutto il rispetto per i cultori della materia.
Lo studio della filosofia indiana viene appesantito dalle traduzioni. I termini sanscriti vengono resi nel linguaggio della filosofia dell’800, nella convinzione che la filosofia, dopo Hegel, non abbia compiuto alcun progresso. Tutto ciò pone seri problemi a coloro che, non potendo accedere ai testi originali, sono costretti a ricorrere a questo tipo di traduzioni.
3. Arabinda Ghose (1872-1950)
Meglio noto come Sri (Çrì) Aurobindo, è probabilmente il più rappresentativo esponente della filosofia indiana contemporanea.
Egli si inserisce, per sua stessa ammissione, nella linea del Vedànta e il principio assoluto deve essere visto come qualcosa che impregna della sua energia qualsiasi ambito dell’universo; pur implicando, questa operazione, una gerarchia di diversi gradi di realtà.
Al vertice di questa visione speculativa si trova uno stato super-mentale, o meglio una sorta di «mente cosmica», l’Assoluto. L’uomo può, e deve, trascendere la propria attuale condizione, tipica della sfera puramente mentale, per attingere questa coscienza universale, e pervenire all’identificazione con l’Assoluto.
Il passaggio dalla mente individuale alla «supermente» (supermind) segna l’accesso alla vita divina: il vero obiettivo dell’umanità. All’alba dei tempi, una creatura che viveva nelle acque abbandonò il proprio ambiente naturale, e approdò alla terraferma, cominciando a sviluppare organi che le consentissero una nuova vita. Un compito che implica uno slancio analogo, nella catena evolutiva, attende l’uomo del presente: egli dovrà superare la propria condizione, per dar luogo a una nuova specie.
Aurobindo crede nell’ulteriore sviluppo delle facoltà umane, e si richiama direttamente a Nietzsche, il quale avrebbe intuito, alludendo al «superuomo» (Übermensch), l’esigenza di una metamorfosi del genere. In un prossimo futuro, si determinerà una nuova specie di esseri e una nuova forma di vita sulla terra. Questa convinzione rappresenta il fulcro del pensiero di Aurobindo, nell’esaltazione delle potenzialità evolutive dell’uomo.
Ma come si arriva a realizzare quest’obiettivo? L’uomo dovrà adottare un particolare tipo di «yoga integrale», finalizzato al rafforzamento delle facoltà intuitive. In questo quadro, alla razionalità viene senz’altro accordata una grande rilevanza; tuttavia, di per sé, essa non garantisce l’acquisizione della conoscenza perfetta. L’uomo di Aurobindo è, al pari dello yoga che professa, «integrale», e deve sviluppare tutte le sue facoltà: in primo luogo, la saggezza intuitiva.
Egli attinge al subconscio, non meno che al superconscio. Questa visione non implica tanto una dottrina filosofica, quanto piuttosto l’adozione di uno stile di vita, che costituisca il corrispettivo di una consapevolezza più ampia.
Se l’uomo riesce a realizzarsi, comprenderà sino in fondo il significato del «grande detto» delle Upanishad: «quello sei tu» (tat tvam asi); e arriverà a cogliere la perfetta identità del proprio sé con il Brahman universale, il principio cosmico o Assoluto.
Questa presa di coscienza non rigetta alcuna acquisizione umana: persino l’ignoranza (avidyà) viene considerata rilevante. Ci si distacca, effettivamente, da Çamkara: Aurobindo afferma che «se cercassimo di sbarazzarci dell’avidyà, come se essa fosse una cosa non-esistente e irreale, la conoscenza stessa diventerebbe una sorta di oscurità e una fonte di imperfezioni».
Il raggiungimento della conoscenza perfetta garantisce la totale conciliazione degli opposti: del finito e dell’infinito, dell’Uno e dei molti, dell’uomo e dell’Assoluto. In definitiva, all’essere umano è assegnato il compito di preparare con le opportune tecniche yogiche questo tipo di conoscenza, ma il suo attingimento effettivo verrà concesso soltanto in virtù della grazia divina.
4. Sarvepalli Radhakrishnan (1888-1975)
Autore di un’importantissima "Storia della filosofia indiana", è stato anche presidente della Repubblica indiana. L’opera più rappresentativa è senz’altro "An Idealist View of Life" (London 1929).
La sua è una filosofia sincretica, con la quale cerca di fondere il pensiero indiano, prendendo spunto soprattutto dal Vedànta, con quello occidentale, ispirandosi non soltanto all’ambito speculativo ma anche religioso. Questa posizione gli fa rifiutare qualsiasi dogmatismo o unilateralità, per aderire a quella che ritiene la caratteristica basilare del Vedànta: la capacità di mediare punti di vista differenti, attraverso una sintesi teorica produttiva e stimolante.
La reincarnazione è una realtà. La via della salvezza è molto lenta, e dev’essere percorsa con attenzione e con grande disciplina. Questo è il senso della visione indù tradizionale, secondo Radhakrishnan: la meta della perfezione spirituale è il coronamento di una lunga serie di sforzi, compiuti in molte vite. Viene attribuita una grande responsabilità all’uomo: qualsiasi pensiero, intento o azione si ripercuote nella presente e nelle esistenze successive, determinando fin nei minimi particolari l’avvenire della creatura.
Ma nessuno sforzo va sprecato: tutto è utile e lascia tracce, ai fini di una vita spirituale più elevata, che si sottragga al ciclo delle reincarnazioni. Radhakrishnan sostiene che tutte le religioni conducono a una stessa mèta esprimendo la medesima esigenza di fondo: esse ci liberano da un’esistenza insignificante, consentendoci di accedere a una dimensione più autentica. Che lo si chiami moksha, come nel bràhmanesimo, nirvàna, come nel buddhismo, o «regno dei cieli», come nel cristianesimo, l’obiettivo è sempre unico, e comporta la divinizzazione dell’uomo.
Radhakrishnan mira a una realizzazione pratica, da fruire nel mondo e accanto ai propri simili. Secondo lui il Paradiso non implica l’acquisizione di una località ultraterrena, ma semplicemente il riconoscimento, da parte dell’uomo, della propria perfezione e immortalità. Una volta raggiunta questa consapevolezza, l’essere umano agirà in maniera totalmente disinteressata e non egoistica.
La salvezza non consiste nel distacco dalla società e nell’eremitaggio, bensì nella scelta di vivere nel mondo soccorrendo gli altri, partecipando sinceramente delle loro sofferenze e aiutandoli a liberarsene. Secondo Radhakrishnan, le grandi figure religiose dell’umanità, da sempre, sono state animate dalla medesima consapevolezza. Esse hanno saputo sviluppare il proprio sé (self), riuscendo a comprendere la perfetta identità di questa componente transpersonale nei confronti del Principio Cosmico.
Sul piano etico-politico, una prospettiva del genere comporta una profonda apertura e disponibilità verso tutti i culti, nonché la conseguente professione della tolleranza religiosa. Radhakrishnan crede nella possibilità della pace universale, ed è fondamentalmente convinto che l’umanità costituisca un corpo unico e omogeneo, indipendentemente dalle differenze ideologiche o razziali.
5. Mohandas Karamchand Gàndhi (1869-1948)
Mohandas Karamchand Gàndhi fu un grande riformatore e uomo politico indiano. «Dio è verità»: questa formula compendia la dottrina di Gàndhì.
Tutte le cose esprimono la realtà divina. Così, l’uomo non dovrà far altro che astenersi dall’interferire con il corso degli eventi. Egli adotterà come massima comportamentale la «non azione», che Gàndhì mutua dalla Bhagavad Gìtà per giustificare il proprio operato politico – per esempio, i frequenti digiuni – nei confronti dei dominatori inglesi.
Non si tratta di un atteggiamento passivo, bensì dell’azione disinteressata, compiuta senza attaccamento per i frutti, nella convinzione che tutto sarà condotto a buon fine. Il termine ahimsà, mutuato dalle Upanishad e da un certo giainismo, indica letteralmente l’esigenza di «non arrecare danno» con il proprio operato ad alcuna creatura.
La legge che regola i rapporti umani è la stessa che vige nel più ampio ambito dell’universo e determina l’attuazione dell’armonia celeste. Ecco perché l’uomo finirà per trionfare sui suoi occasionali oppressori: al pari di Radhakrishnan, Gàndhì è profondamente ottimista, e ritiene realizzabile il regno della pace.
La verità si imporrà definitivamente, a dispetto dei suoi detrattori irresponsabili. Ciò comporta, da parte dell’uomo, la cosiddetta «presa della verità» (satyàgraha), un’importante formula del programma di Gàndhì. La corrispondenza tra il micro e il macrocosmo rivela la sostanziale affinità dell’essere umano nei confronti del Divino, garanzia di una realizzazione integrale.