La depressione è un disagio che coinvolge aspetti privati e profondi delle persone che ne soffrono, può rovinare esistenze e condurre alla disperata decisionedi togliersi la vita.
La diffusione di questo disturbo è impressionante (ne soffrono circa 15 persone su 100) e costringe a considerarne almeno alcune forme come un’esperienza intimamente umana e non sempre classificabile come malattia, nel significato classico della medicina, di guasto localizzabile, ma in alcuni casi come disfunzione esistenziale.
Nonostante le notevoli scoperte recenti riguardo la chimica dei neurotrasmettitori e dei recettori, le tecniche di visualizzazione del cervello, che permettono di osservarne il funzionamento “in diretta”, attualmente la psichiatria non ha sufficienti strumenti per poter fornire una spiegazione esauriente di quella vastità di quadri clinici che definisce disturbi dell’umore. I disturbi dell’umore sono l’esito dell’interazione e del reciproco influenzamento di diversi fattori genetici, biologici, psicologici e sociali.
Ogni paziente è diverso dall’altro. Per ogni depresso la natura del disagio che sta vivendo è complessa, privata, incomparabile con quello di chiunque altro. Se i depressi tendono a diventare simili l’uno all’altro nelle manifestazioni sintomatiche, il mondo interno di ciascuno, le sue relazioni e la sua storia sono uniche e irripetibili e spesso contengono la chiave per uscire dal disagio.
La depressione deriva dal concorrere e il reciproco influenzamento tra fattori di rischio o protettivo per lo sviluppo del disturbo: la genetica, la presenza o assenza di fattori stressanti o tossici in gravidanza o al parto, il tipo di attaccamento e relazioni primarie, gli eventi traumatici o luttuosi avvenuti nella vita, il tipo di famiglia, la rete di amicizie e di supporto sociale, la presenza di malattie, l’assunzione di alcuni farmaci, il consumo di sostanze stupefacenti, i rapporti interpersonali, la situazione lavorativa, l’ambiente dove si è cresciuti, la presenza di precedenti episodi depressivi, il momento della vita che si sta affrontando ecc.
Oggi esporremo 5 domande molto frequenti (con relative risposte), relative a questo disturbo subdolo, difficilmente riconoscibile, che incatena letteralmente le persone, inducendole a vivere una vita buia, e che è stata definita da molti il “male del secolo”.
Le 5 domande e risposte che seguono hanno unicamente scopo informativo e divulgativo. Eventuali diagnosi di disturbo depressivo possono essere formulate unicamente da un clinico in seguito a una o più visite mediche.
Per chi fosse interessato consigliamo la lettura del libro di Angela Barbàra "Come conoscere e combattere la depressione".
1. Quanto è diffusa la depressione?
La depressione è un disturbo della sfera psichica divenuto solo recentemente noto a gran parte della popolazione, ma vecchio come il mondo.
Fino a pochi anni fa con la terribile e indefinita locuzione “esaurimento nervoso” si intendevano diverse e varie alterazioni psichiatriche. Fonte di sofferenza, disagio e vergogna per le famiglie colpite, spesso venivano nascoste o portate all’attenzione di esorcisti o maghi prima di consultare il medico.
D’altra parte, prima che venissero sintetizzate molecole antidepressive efficaci, le cure psichiatriche erano non solo di dubbia efficacia, ma a volte di scarsa civiltà. La diffusione di efficaci farmaci antidepressivi ha consentito lo sviluppo di un modello della depressione come disfunzione organica e la nascita della psichiatria come disciplina medica a sé stante, che riguardava non più solo gli “alienati”, ma anche le persone comuni, che venivano curate nel loro territorio di appartenenza e non più segregate in manicomio.
Parallelamente la nascita di numerose teorie psicologiche sulla natura dei disturbi psichici ha consentito una visione della depressione come disagio esistenziale associato a eventi di vita precoci o attuali. Questa emancipazione ha reso possibile la formazione di una “cultura della depressione” che rende il fenomeno centro di dibattiti e attenzione da parte dei servizi sanitari e l’oggetto di discussione e scambio tra comuni cittadini colpiti dal fenomeno.
L’isolamento e la vergogna delle famiglie con un membro colpito da “esaurimento” sembra ormai appartenere sempre più al passato e finalmente le persone depresse possono essere considerate con dignità e accedere a cure efficaci e gratuite. I dati sulla diffusione della depressione sono impressionanti.
A quanto risulta dal recente studio mondiale effettuato dall’Organizzazione mondiale della sanità la patologia colpisce nel mondo 121 milioni di persone. Questo disagio è notevole causa di disabilità, poiché influisce negativamente sulle capacità lavorative, sullo stato di salute generale e sulle relazioni di chi ne soffre, oltre a essere una delle principali cause delle morti per suicidio.
I dati che riguardano questo drammatico evento sono altrettanto sconcertanti, infatti le morti ogni anno sono 800.000 e riguardano, in oltre la metà dei casi, persone tra i 15 e i 44 anni, rappresentando una delle più frequenti cause di decesso in queste fasce d’età. È previsto che nel 2020 la depressione sarà la più diffusa al mondo tra le malattie mentali e, in generale, la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari.
2. Chi colpisce la depressione e che differenza c’è tra tristezza e depressione??
La depressione è un disagio “trasversale” che colpisce tutte le classi sociali, tutte le etnie, tutte le fasce d’età, in tutte le epoche.
Alcuni fattori di rischio predispongono maggiormente allo sviluppo di disturbi di area depressiva, ad esempio la presenza di disturbi dell’umore nei famigliari, condizioni di svantaggio sociale, storie infantili di abbandono, lutto, traumi non elaborati ecc.
Le donne sono più colpite rispetto agli uomini, anche se alcuni autori ritengono che i criteri diagnostici attualmente utilizzati per la depressione tendano a sottostimare il fenomeno maschile, poiché riguarderebbero manifestazioni del disagio culturalmente associate al femminile. La perdita del partner, sia essa dovuta a morte, divorzio o separazione, è uno dei fattori scatenanti più comuni. La depressione è un male che colpisce con manifestazioni in parte diverse, influenzate dalla cultura sociale di appartenenza.
Nella nostra epoca il disturbo è noto, molte più persone sono informate della sua esistenza e addestrate a riconoscerne i sintomi, tende quindi a essere avvertito e diagnosticato maggiormente. Alcuni aspetti del consumismo certamente possono indurre vissuti di vuoto e di insoddisfazione, ma ancora di più le difficili condizioni di vita dei Paesi in via di sviluppo possono favorire sentimenti di sconfitta e impotenza. Non bisogna dunque confondere le cause scatenanti con il disturbo: a parità di condizioni frustranti, che siano connesse ad aspetti patogeni della società consumista, o alle difficoltà di vita delle società in via di sviluppo, non tutti si ammalano di depressione.
Il disturbo ha una genesi complessa che si innesta su una condizione di vulnerabilità psicologica e biologica. Di certo le condizioni di vita possono avere un effetto sfavorevole sia sull’espressione dei geni coinvolti nella depressione, sia come fattori stressanti in grado di scatenare eventi depressivi.
Gli anglosassoni utilizzano l’espressione to feel blue, “sentirsi blu”, per rappresentare uno stato di malinconia, di sottile tristezza. Da questa espressione deriva il nome del genere musicale blues, nato nella comunità afroamericana dopo la fine della schiavitù, ai tempi della segregazione razziale. I testi blues narravano di storie intime e struggenti, di solitudine e di dolori dell’anima.
La psichiatria ha preso in prestito questa espressione per riferirsi ad alcune lievi e comuni alterazioni dell’umore, come il maternity blues, ovvero il sentimento di vuoto e infelicità provato da molte donne nel periodo immediatamente successivo al parto o il winter blues, la malinconia che coglie molte persone all’arrivo dell’inverno e all’accorciarsi delle giornate e delle ore di luce.
Questi disturbi assomigliano al comune sentire, alla qualità di tristezza che ogni essere umano necessariamente prova nel corso della propria vita. Sono stati definiti utilizzando un modo di dire appartenente al linguaggio colloquiale, proprio per rimarcare la qualità sfumata e non pervasiva di queste condizioni dell’umore. La tristezza è uno stato emotivo, ovvero uno stato fisiologico e psicologico associato a una tonalità affettiva. L’emozione si attiva in seguito a un evento scatenante, solitamente perdite, sconfitte, rimproveri e disapprovazione e orienta le nostre scelte e azioni successive. L’umore triste è transitorio e non interferisce con il nostro benessere psicologico e funzionamento sociale, lavorativo e affettivo.
La depressione è invece una sindrome, ovvero un complesso di sintomi. Tra i sintomi depressivi è spesso (ma non sempre!) incluso uno stato di tristezza, a questa si associano alcuni sintomi psichici altamente disturbanti (sensi di colpa, sentimento di inadeguatezza, perdita di interesse, incapacità a provare piacere) e alcuni sintomi somatici (mancanza di energie, calo del desiderio sessuale) di impatto decisamente negativo per la sopravvivenza della specie e per l’adattamento dell’individuo. Chi soffre di depressione si sente bloccato, incapace di affrontare la vita, perde l’appetito e il sonno e può giungere a stati di prostrazione a volte molto gravi, a volte tali persino da richiedere il ricovero o indurre a tentare il suicidio.
Insomma, la differenza tra tristezza e depressione, tra blu e profondo blu, è sostanziale. Mentre la tristezza è una condizione psicologica normale e utile a migliorare l’adattamento all’ambiente e ad affrontare lo stress, la depressione è una patologia che rientra tra i disturbi dell’umore e come tale deve essere trattata.
3. La depressione è una malattia come tutte le altre che può essere curata con le medicine?
I farmaci antidepressivi sono in grado di produrre significativi miglioramenti nel disturbo depressivo riducendo i sintomi e inducendo un miglioramento del benessere generale.
Una mole di studi conferma questo dato, tanto che le linee guida internazionali indicano l’opportunità di approccio farmacologico ai disturbi depressivi, integrato a quello psicologico. Nonostante questo dato, nella conversazione riportata sono sintetizzate le più comuni opinioni e paure riguardo alla cura dei disturbi psichici tramite il ricorso a molecole ad azione farmacologica.
L’atteggiamento di diffidenza spesso riservato a questo approccio ha le sue radici in parte nel controverso passato della psichiatria, ai tempi dei manicomi (aboliti nel 1978 con la famosa legge 180, nota come “Legge Basaglia” e definitivamente chiusi negli anni ’90), in parte nella disinformazione sulla reale natura delle terapie farmacologiche attualmente disponibili, in parte alla prescrizione e all’uso a volte eccessivamente disinvolto che si fa di questi medicinali.
La diffidenza è però soprattutto legata alla visione meccanicistica del disagio psichico che spesso propongono i fedeli di questo approccio. Chi considera la depressione una malattia del cervello e che va curata come fosse una polmonite con le opportune medicine, trova enormi resistenze da parte dei pazienti, poiché commette una grossolana semplificazione. Se questo modello può essere valido per alcune depressioni endogene o forme psicotiche, spesso in clinica si ha a che fare con tratti disturbati di personalità o distimie, che non sempre rispondono completamente alle terapie, proprio perché il modello organico è inadatto a comprenderne la reale complessità.
In realtà come la polmonite, che si sviluppa più facilmente in anziani, bambini e soggetti malati, la depressione trova una specifica vulnerabilità in alcuni soggetti “meno resistenti” psicologicamente e come la polmonite può essere innescata da eventi esterni, come il freddo o il contagio, la depressione può essere scatenata da lutti, perdite, stress e traumi oltre che da malattie internistiche e neurologiche o assunzione di farmaci e droghe. Certamente in alcuni casi l’intervento farmacologico risolve in poche settimane lo stato depressivo, tuttavia, ciò che viene “corretto” dal farmaco è solo la manifestazione biochimica del problema e i suoi sintomi.
Un paziente diffiderà del medico che gli proporrà una soluzione del genere, poiché chi ha un disturbo depressivo non potrà credere che un semplice farmaco riparerà la sua vita. Ciò premesso è necessario ricordare dall’altra parte come la nascita degli antidepressivi abbia consentito a moltissime persone depresse di avere una vita migliore e di superare il proprio disturbo. Questi farmaci infatti inducono un miglioramento evidente delle condizioni cliniche del soggetto depresso e la loro somministrazione è indicata nelle linee guida internazionali nel trattamento della depressione.
La depressione è un disturbo che si “autoalimenta”: lo stato di mancanza di energia, spossatezza e disperazione spesso impedisce al depresso di trovare le forze per potersi “rimettere in moto” e persino curare o gli fa disperare di poter stare meglio. Inoltre la depressione lascia una “memoria”, un’abitudine: più episodi si affrontano, più il cervello e la mente “imparano” a deprimersi. è stato inoltre osservato che una situazione di stress, come la depressione, produce una drammatica riduzione di una molecola con funzioni protettive sul sistema nervoso centrale con conseguente atrofia o addirittura morte di neuroni in particolari aree cerebrali.
Ciò significa che l’uso dei farmaci antidepressivi ha una funzione neuroprotettrice e li rende un presidio molto importante per prevenire la cronicizzazione del problema. L’atteggiamento di comprensione di un problema che coinvolge vita, affetti, relazioni e sentimenti è fondamentale, ma l’omissione della cura dello stato di disperazione e della prevenzione della cronicizzazione per motivi ideologici o per farmacofobia, sarebbero una scelta irresponsabile e un cattivo consiglio da parte del clinico.
Inoltre il farmaco è in grado di spezzare un circolo vizioso altrimenti di difficile risoluzione, quello dei sentimenti negativi che condizionano i pensieri e la visione di sé e del futuro e viceversa. Il farmaco deve essere considerato l’inizio del processo di cura e deve essere responsabilmente preso dal depresso, come chi soffre di polmonite prende un antipiretico per far scendere la febbre e poter andare dal medico per curarsi.
Infine alcune persone depresse meno disposte all’introspezione e più pragmatiche non ammetteranno altro problema nella loro vita che uno squilibrio neurochimico e non sarà possibile discutere con loro di aspetti psicologici e relazionali che inducono e mantengono il disturbo. In quei casi la terapia farmacologica può risolvere la situazione. Esistono poi i casi di malattia organica, come le depressioni nei pazienti con deficit neurologici e demenza o alcune forme a forte componente genetica e temperamentale.
Insomma, la terapia farmacologica è un essenziale strumento di cura che apre a sua volta la possibilità di riattivarsi e curarsi al livello di profondità che ciascuno riesce a raggiungere.
4. Esistono le depressioni da stress?
Si definisce evento stressante un evento “oggettivamente identificabile, delimitato e circoscritto nel tempo, che modifica in modo variabile ma sostanziale l’assetto di vita della persona richiedendole uno sforzo di adattamento alla nuova situazione di entità significativa”.
Gli eventi stressanti più spesso coinvolti nello sviluppo di disturbi depressivi rappresentano perdite o sconfitte reali (malattia, separazioni, divorzi, morte di persone care, perdita del lavoro, perdite economiche, mobbing ecc.), “simboliche”, (tradimento, pensionamento, invecchiamento, uscita di casa dei figli, ecc.) oppure “minacce di perdita” che si possono profilare in alcune epoche di transizione della vita.
I disturbi dell’area ansioso-depressiva sono uno dei più frequenti quadri di reazione a condizioni persistenti di natura stressante. I disturbi dell’adattamento con umore depresso, sono delle condizioni transitorie di alterazione dell’umore la cui natura è chiaramente identificabile in una reazione a situazioni di vita che causano pressioni psicologiche o fisiche.
Si distinguono dalla depressione maggiore, che può essere analogamente scatenata da eventi stressanti, per la maggiore gravità di quest’ultima e la sua relativa indipendenza nell’evoluzione del quadro clinico, da eventi esterni. Si distinguono dalla distimia, poiché quest’ultima è invece una condizione di cronica deflessione o reattività dell’umore che può essere acuita, più che causata, da situazioni ed eventi della vita.
Per quale motivo alcune persone sotto stress sviluppano depressione e altre no? Lo stress non implica necessariamente una reazione depressiva, la reazione a un evento dipende da molti fattori quali la vulnerabilità specifica biologica, la personalità di base, lo stile di pensiero individuale, le caratteristiche e il significato culturale e personale dell’evento per il soggetto, le modalità e le capacità di affrontare l’evento di chi lo subisce, la storia personale e l’eventuale presenza di eventi precedenti, la rete sociale e famigliare di supporto.
Ad esempio per un soggetto che tende alla dipendenza relazionale, una separazione sentimentale può essere un evento particolarmente drammatico e in grado di scatenare una reazione depressiva, che potrà assumere l’entità di una depressione maggiore in caso di specifica vulnerabilità o in assenza di fattori protettivi, o una reazione depressiva di adattamento in caso di minore vulnerabilità.
Soggetti dotati di sufficiente resilienza ovvero con buone capacità di resistenza allo stress, magari per un buon supporto sociale e una storia di attaccamento sicuro alle figure genitoriali, potranno non sviluppare alcun sintomo psicopatologico anche in presenza di eventi di particolare salienza.
5. La depressione è una malattia mentale o un disturbo psicologico?
Il tema della malattia mentale è da sempre terreno di contesa e di scontro tra diverse filosofie e correnti di pensiero.
Da quando la psichiatria si è differenziata come branca della medicina e non solo come sistema di segregazione dei malati di mente e la psicoanalisi ha scoperto l’inconscio, le due si sono implicitamente divise il campo d’azione: la psichiatria si doveva occupare della psicosi, ovvero della malattia mentale grave, cronica e nella quale il paziente-malato perde il contatto con la realtà, mentre la psicoanalisi era il regno della nevrosi ovvero dei disturbi che permettevano una vita più o meno normale e la cui genesi aveva sede in conflitti risalenti all’infanzia e nascosti nell’inconscio dei pazienti.
Ma dove collocare la depressione? Tra il blues e il blu più cupo esistono moltissimi gradi di malessere. La depressione grave può essere accompagnata da sintomi psicotici (deliri e allucinazioni) e in quel caso è catalogata tra le psicosi affettive, ma in generale la depressione propriamente detta è stata trattata per molti anni dai medici come “esaurimento nervoso” o dagli psicoanalisti, come un disturbo nevrotico, non connesso dunque a un quadro organico e medico di riferimento.
Questo avveniva nelle famiglie più colte e facoltose, mentre in ambienti più umili la depressione veniva ancora interpretata come possessione demoniaca e indirizzata a maghi o esorcisti oppure considerata un capriccio o una malattia immaginaria. Solo da pochi anni si sono chiariti alcuni aspetti neurobiologici della depressione, sono proliferati farmaci sempre più specifici e tollerabili e la psichiatria è tornata a rivendicare con forza il primato sulla cura dei disturbi dell’umore.
Nel frattempo alla psicoanalisi si sono affiancate decine di correnti psicologiche, soprattutto la psicologia cognitiva, che studia i processi di formazione e la struttura del pensiero e la psicologia relazionale, che considera i disturbi psichici come sintomi di disfunzione delle relazioni e dunque del contesto famigliare di riferimento della persona che esprime il disagio.
La distanza tra approccio biologico e approccio psicologico è sembrata abissale negli anni ’60-70, quando l’antipsichiatria è giunta a negare l’esistenza stessa della malattia mentale, eppure attualmente la distanza è quasi scomparsa e sono rimasti solo alcuni pregiudizi radicati nell’immaginario comune e difficili da superare.
La psicologia cognitiva ha infatti incontrato le neuroscienze e la biologia molecolare. Recenti le numerose evidenze che associano la depressione a precise alterazioni funzionali e anatomiche di alcuni sistemi neurotrasmettitoriali e ormonali. Se è noto che i farmaci così detti antidepressivi agiscono sui sistemi della serotonina, noradrenalina e dopamina, ancor più recente è la scoperta della proprietà della psicoterapia di modificare, attraverso processi di neuroplasticità, più lenti, ma più duraturi, quegli stessi sistemi biologici.
La depressione, in alcune sue forme, è stata riconosciuta a tutti gli effetti come malattia con preciso substrato neurochimico e pertanto divenuta territorio della medicina psichiatrica, tuttavia il moderno modello riguardo alle cause della malattia mentale è un modello complesso di interazione e reciproca influenza tra fattori biologici, psicologici e sociali.
Un bravo psicoterapeuta, adeguatamente formato e aggiornato lavorerà spesso in tandem con lo psichiatra, garantendo al paziente depresso il miglioramento rapido della qualità di vita e della prognosi fornita da una corretta terapia farmacologica e procederà con il più lento e impegnativo lavoro psicoterapico per modificare la percezione di sé, lo stile di pensiero e di relazione del paziente.
Viceversa farà uno psichiatra privo di pregiudizi. Lavorerà lui stesso su entrambi i piani con il paziente se ha una formazione psicoterapeutica o lo indirizzerà a un percorso psicologico, quando indicato. Infatti ogni semplificazione sulla depressione è impropria. La depressione è una malattia che coinvolge la persona nella sua totalità. Nella sua capacità di sentire, di relazionarsi, di pensare, di stare al mondo. Il fatto che alla depressione corrispondano specifiche alterazioni neurofisiologiche e biochimiche, significa che esse sono per così dire l’espressione molecolare dei sintomi depressivi, non necessariamente che ne rappresentino la causa.
Come dire che la mancata ossigenazione del tessuto cardiaco è la causa delle disfunzioni dell’infarto: questo è certamente vero, ma le cause dell’infarto stesso andranno ricercate nel profilo genetico, nello stile di vita, nella quantità di stress che hanno reso quel cuore, magari predisposto alla malattia, un cuore infartuato.