Lucio Anneo Seneca nacque a Cordoba, nella Spagna meridionale, l’odierna Andalusia, da una ricca famiglia equestre.
La data precisa non si conosce, ma si ipotizzata intorno all’anno 5 a.C. e presto si trasferisce a Roma. Il primo momento della sua vita menzionato dalle fonti fu nel 38 d.C., quando Seneca ebbe un attrito con il giovane imperatore Caligola che si arrabbiò molto nei riguardi del filosofo e si dice che lo risparmiò unicamente per la sua debole salute, che faceva presupporre una sua imminente morte.
Nell’anno 49 d.C., diventa l’educatore del giovane principe Nerone, l’erede al trono e gli rimase accanto come insegnante e educatore sino al 54 d.C. Quando nel 65 d.C. fallisce la grande cospirazione di Pisone contro l’imperatore, la repressione sanguinaria di Nerone colpì anche il vecchio filosofo (sebbene non fosse coinvolto nella congiura), che gli ordina di togliersi la vita.
Seneca obbedì e, con straordinaria dignità e controllo di sé, si suicidò. Egli può essere considerato uno dei grandi pensatori europei e un filosofo latino degno dei migliori rappresentanti della cultura greca di quei tempi.
I suoi scritti e la sua visione filosofica furono molto considerati anche quando era in vita e godeva presso i suoi contemporanei della fama di filosofo di spicco.
Oggi riporteremo 5 straordinarie riflessioni sulla vita, contenute nel "De brevitate vitae" − dedicato a Paolino (forse il padre della sua seconda moglie) e composto secondo alcuni fra il 49 e il 50, dopo il ritorno dall’esilio, secondo altri verso il 62, dopo il ritiro dalla vita politica.
Seneca nega che la vita sia breve, sostenendo che essa appare tale a chi non ne fa buon uso, ma che in effetti è satis longa, abbastanza lunga, anzi, large data, anche troppo abbondante, per coloro che sanno spenderla bene.
E precisa che siamo noi che rendiamo breve la vita, impegnando in attività pubbliche o private e dedicando agli altri quel tempo che dovremmo invece dedicare a noi stessi.
1. De brevitate vitae, 1
La maggior parte degli uomini, o Paolino, rimprovera alla natura di essere stata avara con noi per averci dato una vita così breve e così veloce che, salvo pochissime eccezioni, ci abbandona proprio mentre ci accingiamo a sperimentarla.
Questo fatto, che tutti considerano una disgrazia, provoca il risentimento e le lamentele non solo del volgo ignorante ma persino di uomini colti e famosi, che hanno la medesima sensazione della gente comune. Da qui quel celebre detto di Ippocrate, il più grande dei medici: «La vita è breve, l’arte è lunga».
Da qui l’accusa − sciocca per un sapiente − che Aristotele mosse alla natura, rimproverandole di essere stata tanto generosa con gli animali da consentir loro un’esistenza lunga anche più di cinque o dieci generazioni delle nostre e di aver dato all’uomo, che pur ha destinato a imprese tanto grandi e numerose, un periodo assai più corto.
Ma il tempo che ci è stato assegnato non è poco, di per sé, siamo noi che ne perdiamo molto. La vita è sufficientemente lunga, anzi più che abbondante anche per realizzare le più grandi e difficili imprese, purché si sappia spenderla bene dall’inizio alla fine.
Ma quando la passiamo fra gli agi e l’indolenza o non la utilizziamo per niente di buono e vantaggioso, giunti alla resa dei conti, mentre prima non la sentivamo nemmeno scorrere, allora sì ci sembra che sia volata in un lampo.
È proprio così: la nostra vita non è breve, siamo noi che la rendiamo tale; non è che lei sia tirchia, siamo noi che la dissipiamo. Come immense e regali ricchezze, se capitano in mano di un cattivo padrone, spariscono in un battibaleno, mentre capitali anche modesti, se affidati a un buon amministratore, aumentano, per gli utili che se ne sanno trarre, così la nostra vita riesce molto lunga a chi sa farla fruttare.
2. De brevitate vitae, 2
Mi meraviglio sempre quando vedo uno chiedere ad un altro di concedergli un po’ del suo tempo e la facilità con cui questo viene accordato.
Entrambi guardano solo allo scopo a cui quel tempo è destinato, non al tempo in se stesso: lo si chiede e lo si dà come se fosse una cosuccia da niente, si scherza col bene più prezioso che ci sia, di cui non ci si rende conto perché è immateriale, perché non lo si vede, e perciò lo si stima pochissimo, anzi non gli si dà nessun valore.
Le pensioni, le donazioni, quelle sì che hanno un prezzo e si ricevono volentieri, e per ottenerle si spendono lavoro, fatica ed ogni cura; al tempo invece non si riconosce alcun valore, nessuno ne fa il conto, tutti lo usano con troppa larghezza, quasi che fosse un bene da nulla.
Quando però sono malate, o si trovano in pericolo di morte, quelle stesse persone che sino a poco prima non si curavano del tempo, vedi come s’attaccano alle ginocchia dei medici, scongiurandoli di guarirle, e se magari temono di poter essere giustiziate per qualche colpa commessa sono pronte a sacrificare tutti i loro beni pur di continuare a vivere. Tale è l’incoerenza dell’animo umano!
Se si potesse conoscere il numero degli anni futuri, come avviene per quelli passati, quante persone tremerebbero vedendo che gliene restano pochi, e con quale parsimonia li spenderebbero! È facile gestire un bene, per quanto piccolo, quando è sicuro, ma con uno di cui non si conosce la durata si dovrebbe usare maggiore diligenza. Tu mi dirai che, sotto sotto, tutti, chi più chi meno, riconoscono il valore del tempo.
Sì, ma in che modo? Quelli che dichiarano, per esempio, di essere disposti a dare la propria vita per le persone che amano, in realtà non sanno quel che dicono, non si rendono conto che morendo si privano di un bene senza che se ne giovino gli altri, anzi, non possono nemmeno sapere, una volta morti, che si sono tolti qualcosa, sicché accettano una perdita che in effetti non c’è.
Nessuno può rifonderti i tuoi anni perduti, nessuno mai potrà restituirti nuovamente a te stesso. La vita di ognuno prosegue il suo cammino lungo la strada segnata e non s’arresta né ritorna indietro: non fa rumore, non dà segno alcuno della sua rapidità, scivola via in silenzio.
Né potere di re né favore di popolo potranno prolungarla, rispetterà la sua andatura così com’è iniziata il primo giorno, senza deviazioni e senza ritardi di sorta. Cosa accadrà in avvenire nessuno può saperlo. Indugiamo su questo e su quello e la vita invece ha fretta, e un bel momento arriverà la morte, alla quale, volenti o non volenti, siamo votati tutti.
3. De brevitate vitae, 3
"I più bei giorni della vita fuggono sempre per primi ai miseri mortali".
Perché indugi», egli dice, «perché ti arresti? Il tempo fugge, afferralo!». E poiché anche quando lo avrai afferrato non cesserà di fuggire, usalo in fretta, come se attingessi l’acqua da una corrente rapida e precaria: solo così puoi gareggiare con lui in velocità.
Molto opportunamente il poeta, nel biasimare questa vana ed eterna programmazione, parla di «giorni più belli», non dell’età più bella. Ma come fai a sciorinare davanti a te, e con tanta sicurezza, una sfilza di mesi e di anni, lunga quanto la tua avidità, in un tempo che corre così veloce? E quando parla di giorni vuol dire uno per uno, e che ciascuno di essi se ne fugge veloce.
Né c’è dubbio che per «miseri mortali» intende gli uomini affaccendati, ed è per loro che «ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola». La vecchiaia sorprende i loro animi impreparati ed inermi, perché sono rimasti infantili e nulla hanno previsto a questo riguardo, sicché v’incappano all’improvviso, senza che l’abbiano attesa, senza essersi accorti che giorno per giorno si avvicinava.
Come durante un viaggio, se siamo immersi in una conversazione, in una lettura o in un pensiero più intenso degli altri, ci troviamo giunti alla meta prima ancora di accorgerci che stavamo avvicinandoci, così questa corsa della vita, rapida e ininterrotta, che non muta il suo ritmo, sia che dormiamo sia che stiamo svegli, se siamo sempre impegnati non l’avvertiamo se non quando è giunta alla fine.
4. De brevitate vitae, 4
Guarda come si affannano a voler prolungare la vita: già vecchi decrepiti vanno mendicando a forza di preghiere un supplemento di anni, fingono, anche di fronte a se stessi, di essere più giovani, si lusingano con inganni e bugie, compiacendosi di questi stupidi sotterfugi, come convinti di poterla fare in barba al destino.
Poi, quando qualche malanno li avverte che sono mortali, gli si dipinge nel volto un tale terrore che la morte in loro non sembra un semplice uscire dalla vita ma un esserne strappati a dura forza.
Allora gridano che sono stati sciocchi a non vivere e giurano che se mai la scamperanno si daranno alla contemplazione, vedono, finalmente, quanto sia stato inutile darsi tanto da fare per delle cose di cui poi non avrebbero potuto godere, quanto vana sia stata ogni loro fatica. Perché, invece, non dovrebbe essere lunga una vita libera da ogni impegno?
Nessuna parte di questa è delegata ad altri, niente viene disperso di qua e di là, nulla è lasciato al caso o perduto per negligenza, niente le viene tolto per largizioni o rimane inutilizzato: è, insomma, come se tutta la vita fosse una rendita continua, istante per istante.
Dunque, per quanto breve, una simile esistenza è più che sufficiente, e l’uomo saggio, in qualunque momento lo colga il giorno supremo, andrà incontro alla morte sereno e con passo sicuro.
5. De brevitate vitae, 5
Perché dunque ci lamentiamo della natura? Lei si è comportata bene con noi, ci ha dato una vita lunga, se sappiamo spenderla bene.
Senonché accade che uno non è mai sazio di niente, un altro si applica con frenetica operosità a lavori superflui, un altro ancora si sbronza dalla mattina alla sera, e c’è chi è intorpidito dall’inerzia, chi si macera per l’ambizione, sempre condizionata ai giudizi degli altri, chi smania per il commercio e va in giro per terre e per mari nella speranza di far quattrini; alcuni, spiriti bellicosi, sono sempre attenti ai pericoli del prossimo o preoccupati dei propri, altri si consumano in una volontaria schiavitù, adulando i loro superiori senza ricavarne la minima gratitudine, molti sono presi dalla bellezza altrui o si danno pensiero della propria; parecchi, poi, non avendo uno scopo preciso, incostanti e scontenti di se stessi, passano da un proposito all’altro senza concludere niente, oppure vagano a caso, insoddisfatti di tutto, sì che la morte alla fine li coglie così spossati e pieni di sonno che mi sembra verissimo quanto, a mo’ d’un oracolo, dice il sommo poeta, che cioè «noi viviamo veramente solo una piccola parte della nostra vita»: tutto il resto, infatti, non è un vivere ma un passare il tempo. I vizi incalzano e ci aggrediscono da ogni parte, né ci consentono di sollevarci e alzare gli occhi alla luce del vero.
Essi opprimono a tal punto coloro che sono immersi e tesi nelle proprie passioni che non gli permettono di tornare in se stessi, e se mai hanno un minuto di respiro, costoro continuano ad ondeggiare, come fa il mare profondo, dove, anche quando il vento è cessato, le acque restano agitate. Non c’è tregua alle loro passioni. E non parlo di quelli i cui mali sono evidenti e sotto gli occhi di tutti, ma di coloro che richiamano gente intorno a sé perché ritenuti felici, mentre in realtà sono soffocati dai loro stessi beni. A quanti non sono di peso le ricchezze! A quanti ancora l’eloquenza e la continua preoccupazione di mettere in mostra il proprio ingegno non fanno sputar sangue!
Alcuni diventano addirittura cadaverici per i continui piaceri e altri non hanno più un briciolo di libertà, attorniati come sono quotidianamente dalla folla incalzante dei clienti. Ebbene, passali in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più potenti; uno fa l’avvocato, un altro lo cerca questo è accusato, quello lo difende e quell’altro lo giudica: nessuno è libero di badare a se stesso ma ognuno si dà da fare e si consuma per un altro. Prendi quei personaggi dai nomi altisonanti, informati su di loro e vedrai che ciò che li distingue è il fatto che ciascuno di loro si dedica ad un altro, ma nessuno di essi si appartiene, nessuno è padrone di se stesso.
È dunque irragionevole chi s’indigna e si duole perché il suo superiore non si cura di lui né trova il tempo di riceverlo quando chiede di parlargli: con quale coraggio si lamenta del disinteresse che gli dimostra il suo capo se lui non ha neppure un momentino da dedicare a se stesso? Quello, almeno, sia pure con fare sprezzante, qualche occhiata gliela lancia, ascolta la sua voce, lascia persino che gli cammini al fianco, mentre lui non si degna e non si è mai degnato d’intrattenersi un poco con se stesso, di guardarsi dentro, di ascoltarsi. Non possiamo dunque pretendere che gli altri si occupino di noi, dal momento che quando noi ci occupiamo degli altri lo facciamo unicamente perché non sappiamo o non vogliamo prenderci cura di noi stessi.