Oltre 120 scrittori, nel libro "La Top Ten: Writers Pick Their Favorite Books (Gli scrittori scelgono i loro libri preferiti)", hanno risposto alla classica domanda "Quale è il libro più importante del XX secolo?", chiaramente dal loro puntio di vita.
Tra gli autori, che si sono prestati a questa intervista, ricordiamo Norman Mailer, Ann Patchett, Jonathan Franzen, Claire Messud e Joyce Carol Oates.
Grazie a questa statistica siamo in grado di vedere la classifica dei libri più importanti, del XX secolo. Guardiamola insieme.
1. "Lolita" di Vladimir Nabokov
"Dopo trentasei anni rileggo Lolita di Vladimir Nabokov, che ora Adelphi ripresenta... Trentasei anni sono moltissimi per un libro. Ma Lolita ha, come allora, un'abbagliante grandezza. Che respiro. Che forza romanzesca. Che potere verbale. Che scintillante alterigia. Che gioco sovrano. Come accade sempre ai grandi libri, Lolita si è spostato nel mio ricordo. Non mi ero accorto che possedesse una così straordinaria suggestione mitica". (Pietro Citati)
Pochi romanzi sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo come il capolavoro di Nabokov, diventatolo al punto che il nome della protagonista è divenuto un vero e proprio neologismo: non si dice forse di una ragazzina molto giovane e altrettanto maliziosamente spregiudicata che è una Lolita, o che fa la Lolita? Poi c’è Humbert Humbert, l’altro protagonista, l’uomo adulto che perde completamente la testa per la ragazzina.
"Lolita" è un testo assolutamente perfetto in cui non si incontra mai una parola fuori posto, in cui Nabokov riesce a trattare un tema estremamente difficile come una relazione sessuale tra un uomo maturo e una ragazzina (poco più di una bambina) intrecciando ironia e pietas, leggerezza e dramma, ad evocare una torrida ma lugubre ossessione erotica senza mai usare alcun tipo di quel turpiloquio cui tante mezze calzette di autori contemporanei ricorrono pensando stupidamente che questo possa costituire una scorciatoia per l’Arte. Da questo punto di vista, siamo proprio di fronte alla Lezione di un Maestro.
Vladimir Nabokov è uno dei grandi scrittori del Novecento, dalla vita eccentrica ed avventurosa quanto basta per raccogliere scandalo e successi non solo postumi. Nato nella Pietroburgo di fine Ottocento (1899), in una via elegante a due passi dal Palazzo d'Inverno, rampollo di una famiglia aristocratica, fuggì dalla Russia in seguito alla Rivoluzione, e dopo un passaggio europeo, nel 1940 sbarca negli Stati Uniti. Nabokov è già uno scrittore, un professore universitario millantato seduttore, un critico e un entomologo, un appassionato di scacchi, ma la fama arriverà solo con Lolita, scritto in inglese.
Come altri grandi scrittori non madrelingua si impadronisce con veemenza e passione della lingua d'adozione, smentendo tanti luoghi comuni senza, peraltro, perdere il russo elegante che aveva caratterizzato i suoi esordi letterari. Fu la moglie Vera a volere fortemente che Lolita fosse pubblicato, controbattendo le stesse ritrosie del marito.
Dal 1953 cominciò a presentare il manoscritto, respinto e bollato come pornografico. Fu accettato alla fine da un editore parigino ma la vera fama arrivò con la recensione di Graham Greene sul Sunday Times. Così Lolita divenne il romanzo cult, nel bene e nel male, di quegli anni '50 così puritani, e il suo autore fu consacrato dal film di Kubrick del 1962 - al quale contribuì come sceneggiatore - con quegli ammiccanti occhiali a cuore della locandina che suscitano brividi e pruderie. Nel 1959 Nabokov torna in Europa e si stabilisce in Svizzera, cercando rifugio ad una fama divenuta eccessiva. Si spenge a Montreux nel 1977.
2. "Il grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald
"Il grande Gatsby" ovvero l'età del jazz: luci, party, belle auto e vestiti da cocktail, ma dietro la tenerezza della notte si cela la sua oscurità, la sua durezza, il senso di solitudine con il quale può strangolare anche la vita più promettente. Il giovane Nick Carraway, voce narrante del romanzo, si trasferisce a New York nell'estate del 1922. Affitta una casa nella prestigiosa e sognante Long Island, brulicante di nuovi ricchi disperatamente impegnati a
festeggiarsi a vicenda. Un vicino di casa colpisce Nick in modo particolare: si tratta di un misterioso Jay Gatsby, che abita in una casa smisurata e vistosa, riempiendola ogni sabato sera di invitati alle sue stravaganti feste.
Eppure vive in una disperata solitudine e si innamorerà insensatamente della cugina sposata di Nick, Daisy... Il mito americano si decompone pagina dopo pagina, mantenendo tutto lo sfavillio di facciata ma mostrando anche il ventre molle della sua fragilità. Proprio come andava accadendo allo stesso Fitzgerald, ex casanova ed ex alcolizzato alle prese con il mistero di un'esistenza ormai votata alla dissoluzione finale.
Francis Scott Fitzgerald (Saint Paul, 1896 - Hollywood, 1940), autore di racconti e romanzi, ha scritto alcune delle pagine più intense e perfette della prosa statunitense e ha reso in termini poetici il senso dell'esperienza americana, cogliendone l'oscura dimensione romantica. Il padre era un gentiluomo del Sud di scarsa fortuna economica, la madre di ascendenza cattolica e irlandese, figlia di un ricco commerciante. Grazie al nonno materno studiò alla Newman School (New Jersey) e poi a Princeton.
Nel 1918 lasciò gli studi per arruolarsi nell'esercito. Incontrò a Montgomery Zelda Sayre, che divenne modello di tutte le 'ragazze dorate' dei suoi racconti, e che sposò appena raggiunse i primi successi letterari. Fitzgerald divenne famoso e ricco, visse tra Europa, dove conobbe gli espatriati americani (Stein, Hemingway, Dos Passos), e America, in piena "età del jazz". Nel 1921 nacque la figlia Scottie, iniziarono le difficoltà finanziarie ed emotive di Fitzgerald e i sintomi della malattia mentale di Zelda. Dimenticato, alcoolizzato, Fitzgerald tentò disperatamente di trovare un lavoro a Hollywood come sceneggiatore.
Oltre ai numerosi racconti, lo scrittore è celebre per i suoi romanzi 'Questa parte di paradiso' (This side of paradise, 1920), 'Belli e dannati' (The beautiful and damned, 1922), 'Il grande Gatsby' (The great Gatsby, 1925), 'Tenera è la notte' (Tender is the night, 1934) e l'incompiuto 'Gli ultimi fuochi' (The last tycoon, 1941).
3. "Alla ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust
"La qualità di Proust" scriveva Virginia Woolf "è l'unione dell'estrema sensibilità con l'estrema tenacia. E resistente come il filo per suture ed evanescente come la polvere d'oro di una farfalla."
Su questa sensibilità e su questa tenacia, e su molto altro ancora, è costruito il fascino della "Recherche", colossale romanzo-mondo - l'unico che l'autore abbia dato alle stampe - frutto di quindici anni di tormentata gestazione. Usciti a partire dal 1913, i sette libri che compongono, in un tutto unitario, la "Recherche" esplorano una moltitudine di temi: il senso del tempo, la memoria, il sogno, l'abitudine, il desiderio. E poi ancora la gelosia, il rapporto tra arte e realtà, l'interagire di rituali ed emozioni.
Memorabili i personaggi che il lettore incontra tra queste pagine, dal Narratore, figura dai fortissimi tratti autobiografici, alle donne da lui amate, Gilberte e Albertine, fino a Odette e Swann, Bloch, Françoise, il barone di Charlus e la duchessa di Guermantes. Attorno al tema della memoria involontaria, le cosiddette "intermittenze del cuore" della celeberrima scena della madeleine, vive tutta la società francese dei decenni a cavallo del Novecento, quelli della vita di Proust, dalla sconfitta di Sedan agli anni delle avanguardie, passando per l'affaire Dreyfus e la Grande Guerra.
"A confronto con l'opera di Proust, quasi tutti i romanzi che si conoscono sembrano dei semplici racconti. Alla ricerca del tempo perduto è una cronaca ricavata dal ricordo: nella quale la successione empirica del tempo è sostituita dal misterioso e spesso trascurato collegarsi degli avvenimenti, che il biografo dell'anima, guardando all'indietro e dentro di sé, sente come l'unica cosa vera. Gli avvenimenti passati non hanno più potere su di lui, ed egli non finge mai che quanto da tempo è accaduto non sia ancora accaduto, e che non sia ancora deciso quanto da tempo è deciso.
Perciò non c'è tensione, non c'è acme drammatico, non c'è assalto e scontro, ne susseguente soluzione e pacificazione. La cronaca della vita inferiore scorre con armonia epica, poiché è soltanto ricordo e introspezione. E la vera epica dell'anima, la verità stessa, che qui irretisce il lettore in un dolce, lungo sogno in cui egli soffre molto, ma soffrendo gode anche la libertà e la pace; è il vero pathos del decorso delle cose terrene, quel pathos che sempre scorre, che mai si esaurisce, che costantemente ci opprime e costantemente ci sostiene."
(Erich Auerbach)
Marcel Proust fu uno scrittore francese. Esordì su alcune riviste legate al movimento simbolista. Nel 1896 uscì I piaceri e i giorni (Les plaisirs et le jours), raccolta di sofisticate prose d'occasione. Fra il 1896 e il 1904 lavorò a un romanzo che costituisce il primo abbozzo della sua opera maggiore e che fu pubblicato postumo con il titolo Jean Santeuil.
Nel 1906, in seguito alla morte del padre e della madre, si trasferì in un appartamento di Boulevard Haussmann, dove fece applicare alle pareti della sua stanza un rivestimento di sugaro per proteggersi da ogni rumore. Lì, isolato dal mondo, scrisse Alla ricerca del tempo perduto (A la recherche du temps perdu, 1913-1927), monumentale ciclo di sette romanzi (La strada di Swann, All'ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodoma e Gomorra, La fuggitiva, Albertine scomparsa e Il tempo ritrovato) al quale lavorò sino agli ultimi giorni di vita.
L'opera ha una struttura assai complessa che l'autore stesso paragonò a quella di una grande cattedrale gotica. Si tratta della ricostruzione di una vita intesa come scoperta graduale del significato dela realtà attraverso la memoria, a partire da un evento minimo e casuale: l'episodio di un dolce chiamato "madelaine" che il protagonista riassapora per la prima volta dopo gli anni dell'infanzia e che gli riporta alla mente un intero periodo della sua vita. Nell'ultimo romanzo si avvertono echi dalla filosofia di Bergson e dalla sua teoria del "tempo creativo".
L'opera è anche un grandioso affresco della società francese agli inizi del secolo, rappresentata nei suoi molteplici e contraddittori aspetti e livelli. Proust fu anche autore di una serie di scritti dedicati a scrittori e artisti dai quali emerge uno straordinario talento critico. Tra essi ricordiamo: Imitazioni e miscellanee (1919), Cronache (postume, 1927) e Contro Sainte-Beuve (postumo, 1954).
4. "Ulisse" di James Joyce
L'Ulisse di Joyce è un'opera fondamentale del Novecento letterario europeo. Il romanzo rovescia il canone epico della tradizione, raccontando non il destino di un eroe, ma la giornata comune di un uomo moderno nelle sue peregrinazioni quotidiane. Un'odissea dentro la realtà di ogni giorno che sa aprire, per squarci e discese nell'abisso psichico dei personaggi, porte sulla verità di ogni uomo. Questo libro può ben dirsi la Bibbia del modernismo.
Racconta dei fatti che avvengono in un unico giorno a Dublino a Leopold Bloom, Ulisse dell’età moderna, secondo una corrispondenza epica che fa figurare i personaggi , nonché gli episodi del romanzo, come paralleli a quelli dell’Odissea omerica.
Ma ciò che fa dell’Ulisse una pietra miliare della letteratura è l’alto grado di sperimentazione stilistico- formale evidente soprattutto attraverso il crescente uso del flusso di coscienza (spesso confuso col monologo interiore) Oltre lo stile e il contenuto anche l’atteggiamento di Joyce nei confronti dei suoi personaggi risulta geniale.
Scritto fra il 1914 e il 1919, ma pubblicato solo nel 1922 a Parigi, sollevando scandali e polemiche a non finire, l’Ulisse è forse l’opera più rivoluzionaria del primo Novecento dal punto di vista delle tecniche narrative e linguistiche.
Il romanzo non ha una vera e propria trama, ed è di una tale complessità da renderne quasi impossibile il riassunto. Lo stile si adatta di volta in volta agli avvenimenti: Joyce usa codici diversi a seconda delle situazioni, facendo la parodia dei principali tipi di linguaggio (ad esempio il linguaggio giornalistico, quello della filosofia, quello burocratico, ecc.).
Ma la tecnica più innovativa usata da Joyce è quella del monologo interiore o anche del flusso di coscienza, con cui registra il sovrapporsi nella coscienza di idee, ricordi, stati d’animo, impulsi inconsci, senza seguire un ordine e scardinando continuamente la coesione del racconto, come avviene nel sogno, dove le immagini si sovrappongono richiamandosi l’una all’altra in un processo spontaneo.
James Joyce nacque a Dublino nel 1882. Ebbe un’educazione severa e frequentò i migliori collegi della città. Dopo la morte della madre (1903) le condizioni familiari divennero critiche ed egli entrò in seminario, per poi uscirne quasi subito. Incominciò a pubblicare i primi lavori poetici (Musica da camera, Poesie da un soldo) quando ancora frequentava l’università, dove entrò in contatto con alcuni tra i maggiori letterati del suo tempo. Si recò poi a Parigi, e da lì a Zurigo; infine a Pola e poi a Trieste, dove entrò in amicizia con Italo Svevo.
Durante la prima guerra mondiale ritornò a Zurigo, e poi di nuovo a Parigi. Nel 1914 pubblicò l’opera narrativa Gente di Dublino, che consta di 15 racconti incentrati sulla vita pubblica della capitale irlandese, dominata da piccinerie e incapacità di affrontare i grandi problemi senza false ipocrisie. Nel 1917 apparve il Ritratto dell’artista giovane, più conosciuto con il titolo di Dedalus; in esso l’autore tenta una sorta di autobiografia interiore, in cui spiega il suo divenire di artista.
Ormai i maggiori scrittori europei erano entrati in rapporto di amicizia con lui. Conobbe anche lo psicanalista Carl Gustav Jung, con il quale approfondì le sue conoscenze sulla psicologia del profondo. Nel 1922 apparve il suo capolavoro, Ulisse, uno dei libri fondamentali della letteratura moderna. All’avvicinarsi della seconda guerra mondiale, lasciava la Francia e si stabiliva a Zurigo dove, tormentato da problemi familiari e di salute, morì nel 1941.
5. "Gente di Dublino" di James Joyce
Un capitolo della storia morale d'Irlanda: "Gente di Dublino" è la spietata e nichilistica radiografia di una città, del suo ambiente e dei suoi abitanti. Quindici racconti brevi. Quindici schizzi esistenziali. Storie in equilibrio fra elemento realistico e simbolico che mescolano angoscia e disperazione. Epifanie, rivelazioni di una verità tragica, ma anche comica. Personaggi dublinesi che, nella loro inerzia e nella loro ipocrisia, riflettono caratteri universali.
Racconti naturalistici che mettono a fuoco i momenti fondamentali dell'esistenza: la fanciullezza, l'adolescenza, la maturità. Ogni racconto narra uno spezzone di vita quotidiana del protagonista. Tramite di esso l’autore vuole mostrare al lettore alcuni aspetti caratterizzanti la vita nella capitale irlandese in quel particolare periodo storico. Gli aspetti che ricorrono nei racconti sono la paralisi morale che colpisce il/la protagonista, spesso di origine politico/religiosa, e la fuga, conseguenza strettamente legata al primo dei due aspetti.
Le storie sono distribuite lungo un asse temporale che caratterizza ogni fase della vita: in "Le sorelle", "Un incontro" e "Arabia", il protagonista vive il periodo dell’infanza. In "Eveline", "Dopo la corsa", "I due galanti" e "Pensione di famiglia", Joyce tratta del periodo dell’adolescenza. In "Una piccola nube", "Rivalsa", "Polvere" e "Un caso pietoso" i protagonisti sono ormai maturi. In "Il giorno dell’Edera", "Una madre" e "La grazia" Joyce tratta della vita pubblica dei protagonisti. L’epilogo del libro è costituito da un ultimo racconto: "I morti".
James Joyce nacque a Dublino nel 1882. Ebbe un’educazione severa e frequentò i migliori collegi della città. Dopo la morte della madre (1903) le condizioni familiari divennero critiche ed egli entrò in seminario, per poi uscirne quasi subito. Incominciò a pubblicare i primi lavori poetici (Musica da camera, Poesie da un soldo) quando ancora frequentava l’università, dove entrò in contatto con alcuni tra i maggiori letterati del suo tempo. Si recò poi a Parigi, e da lì a Zurigo; infine a Pola e poi a Trieste, dove entrò in amicizia con Italo Svevo.
Durante la prima guerra mondiale ritornò a Zurigo, e poi di nuovo a Parigi. Nel 1914 pubblicò l’opera narrativa Gente di Dublino, che consta di 15 racconti incentrati sulla vita pubblica della capitale irlandese, dominata da piccinerie e incapacità di affrontare i grandi problemi senza false ipocrisie. Nel 1917 apparve il Ritratto dell’artista giovane, più conosciuto con il titolo di Dedalus; in esso l’autore tenta una sorta di autobiografia interiore, in cui spiega il suo divenire di artista. Ormai i maggiori scrittori europei erano entrati in rapporto di amicizia con lui.
Conobbe anche lo psicanalista Carl Gustav Jung, con il quale approfondì le sue conoscenze sulla psicologia del profondo. Nel 1922 apparve il suo capolavoro, Ulisse, uno dei libri fondamentali della letteratura moderna. All’avvicinarsi della seconda guerra mondiale, lasciava la Francia e si stabiliva a Zurigo dove, tormentato da problemi familiari e di salute, morì nel 1941.
La selezione è superficiale e priva di gusto. La scelta di Lolita in particolare è dovuta alla moda, ridicola. Come con Gatsby: è chiaro che il successo presso il grande pubblico è stato il vero fattore determinante. Non che siano cattivi romanzi, ci mancherebbe.Ma non esiste che siano al posto in cui li avete messi. Cercate di leggere quelli che non conoscete, piuttosto che scimmiottare preferenze diffuse