Straordinario, per definizione, è qualcosa che va oltre l’ordinario.
Un evento, una mareggiata, una pioggia, una nevicata, un’esplosione, un’affermazione, una notizia, un racconto, una notte stellata…
Se non tutto, molto può essere definito con questo aggettivo evocativo, non quantificabile, estremo.
Veniamo al viaggio: già di suo è un evento fuori dalla vita “ordinaria” per la gran parte di noi.
Se poi si aggiunge una destinazione particolarmente interessante, ecco che, per una sofisticata alchimia di passioni, desideri e interessi, il nostro andare può diventare “straordinario”.
Ecco allora 5 viaggi straordinari da fare almeno 1 volta nella vita.
E per chi è interessato all’argomento, vi consigliamo la lettura del bellissimo e originale libro “101 viaggi straordinari da fare almeno 1 volta nella vita” di Beppe Ceccato e Andrea Forlani. Buona lettura.
1. Indonesia, a vela nel Karimunjawa
Terra dell’acqua”. Questo significa Indonesia.
Diciassettemila isole di tutte le dimensioni gettate in un mare bello ma anche dannatamente pericoloso: il terribile tsunami del 2004, ma anche l’altro del 2006, sono difficili da cancellare nella memoria collettiva di questa gente. Eppure, sono isole troppo affascinanti.
Attirano come calamite per la loro bellezza disarmante e per quella sensazione di “lontano” che, anche nel Terzo Millennio, nell’era del tablet e del tutto è possibile, continua a essere alimentata a ragione.
In mezzo a tutte queste terre in ammollo, però, c’è un arcipelago, piccolo e meraviglioso, 27 lembi di coralli tropicali, protetti da una riserva naturale e da un parco marino di 35 miglia nautiche d’estensione, disseminati nello stretto di mare che separa il Borneo Kalimantan da Giava.
Si chiama Karimunjawa e si raggiunge con un traghetto che fa servizio continuo da Semarang fino all’isola di Keimunjawa, o, più veloce, a bordo di un Cessna, volo privato della Kura Kura Aviation, dall’aeroporto di Semerang a Central Java, fino all’isola di Kemujan.
In questo caso il bagaglio consentito è di soli 10 chilogrammi. Il giusto, visto che, per veleggiare tra questi gioielli di corallo, non serve granché. La bellezza di Karimunjawa, oltre che naturale, sta nel suo forte attaccamento alle tradizioni.
Un’eccezione in uno Stato come l’Indonesia che, contaminazione dopo contaminazione, ha cambiato, e di molto, il suo stile di vita. Qui, su queste isole, si trovano ancora i maestri d’ascia che “scolpiscono” i loro prahu soppè (le imbarcazioni tipiche) e li dipingono con le forme di delfini, razze, pesci vela, aironi, onde, stilizzati nell’iconografia dell’arte popolare marinaresca.
Per il resto, nulla è cambiato lungo le rotte di Karimunjawa, frequentate per secoli dagli schooner olandesi (velieri a due o più alberi), dagli eleganti e filanti prahu pinisi dei navigatori e commercianti bughinesi di Sulawesi, dal sempre presente Joseph Conrad che questi mari conosceva come le sue tasche, a bordo del Vidar e del Celestial, dai pescatori javanesi di Semerang con i loro massicci prahu korsin e dalle sempre più numerose imbarcazioni che, oggi, portano gli amanti della vela alla scoperta di un mare intrigante.
L’arcipelago vanta anche un resort elegante (diciannove villette con piscina privata e 19 cottage con vista mare), il Kura Kura, sull’isola di Menyawakan (www.kurakuraresort.com), che conferma un turismo filtrato da quel senso un po’ radical-chic di chi vuole allontanarsi dalle classiche rotte per sentirsi un po’ Conrad, un po’ avventuriero, unico…
La rotta di Karimunjawa segue il monsone estivo di sud-est, secco e moderato, che soffia da giugno a ottobre lungo le centoventi miglia distribuite tra cinque isole abitate, ventuno lagune coralline e uno sperone di roccia calcarea chiamato Gundul, casa aperta per sterne, rondini di mare, cormorani e fregate.
All’estremità sud-occidentale dell’arcipelago ci sono due atolli semi-emersi, Karang Kapal e Karang Katang. Su quest’ultimo si apre una laguna dove, con un po’ di fortuna, si possono vedere gli squali balena provenienti dall’oceano Indiano.
Così, bordeggiando di isola in isola, appaiono come in un perfetto copione teatrale le scenografie dello spettacolo Tropico Perfetto: la baia turchese sull’isola di Bengkoang, le formazioni coralline del reef, novanta specie, tra le quali il corallo nero e le canne d’organo, le barche colorate con la prua falcata e le decorazioni che corrono lungo tutto lo scafo, che dondolano pigre nel porticciolo riparato sull’isola di Parang, la coltivazione delle alghe a Nyamuk, lunghi filari di eucheuma legati a noci di cocco ancorati al fondo marino, i pescherecci che escono per la pesca al tramonto da Kirimunjawa, in fila indiana diretti al Mar di Java: un’entusiastica processione di colori…
2. Perù, il cammino degli Incas
È il simbolo del Paese sudamericano. Stimola da un secolo le fantasie di appassionati, esoterici, archeologi, astrologi.
Uno di quei miti assoluti, sinonimo di avventura e viaggio fuori dall’ordinario.
Il Machu Picchu, quel che resta di una sfarzosa cittadella inca racchiusa nella cordigliera centrale delle Ande a 2430 metri d’altezza, circondata dal verde, affacciata sulle acque impetuose del fiume Urubamba, affluente del Rio Amazonas, che scorre 400 metri più in basso, è uno di quei luoghi che prima o poi nella propria vita bisogna pur mettere in cantiere di visitare.
Però non come fa la maggior parte dei turisti, ovvero partendo da Cuzco su un trenino fino ad Aguas Calientes e, da qui, con mini van che porta a destinazione. Troppo facile, troppo poco avventuroso, anche se il fascino lassù è garantito comunque.
Meglio dedicarci 4 giorni, in un trekking di trenta chilometri che tappa dopo tappa, sito archeologico dopo sito archeologico, in una sorta di cammino di purificazione e preparazione, conduce all’alba fino alla Intipunku, la porta del sole, l’ingresso più scenografico al magico sito.
È il Camino Inca, uno dei tanti che questo avanzatissimo popolo aveva predisposto nel favoloso regno che ebbe come primo sovrano proprio quel Pachacútec che verso il 1440 conquistò la valle del Picchu e si innamorò di quel territorio mistico.
Ne fece una cittadella, probabilmente luogo di residenza estiva, fortemente connotata dal simbolismo religioso inca, con un’area a terrazzamenti, ben visibili ancora oggi, per le coltivazioni agricole (anche su questo modo di coltivare ci sarebbe molto da dire per la perfezione con cui gli agricoltori inca preparavano il terreno).
Grazie alla rete di sentieri l’imperatore e la sua corte potevano mangiare il pesce pescato sulla costa dopo appena tre ore! Premessa: pur non essendo inca super allenati e non avendo l’incombenza della consegna ittica, il trekking che parte da Cuzco (per essere più precisi, al chilometro 82 della ferrovia, impossibile sbagliarsi visto il grande cartello che lo annuncia!) richiede comunque un buon allenamento per superare i quattromila metri d’altezza.
Il primo giorno si percorrono 13 chilometri, 5 ore di camminata effettiva, fino a Wayllabamba (3390 m). Durante il sentiero, s’incontrano siti archeologici interessanti come quello di Salapunku, sul margine destro del fiume Urubamba, di Q’hanamarca, Miskay, Willkarakay, tutti prodromi del grande evento. Davanti a un fuoco, un mate de coca caldo, si commenta la giornata e si pianifica il giorno dopo.
Saranno meno chilometri (11), ma più duri: 7 ore di camminata, a cominciare da una scalinata in pietra che sale, sale… Si raggiunge il Warmiwanusca, il punto più alto del trekking, 4224 metri, montagna vera, sbalzi climatici, aria da provetto scalatore, macchine fotografiche sempre in azione. L’accampamento della seconda notte è a Pacasmayo (3643 m).
Nel terzo giorno si compie la tappa più lunga, 16 chilometri in 10 ore. L’atmosfera si carica di magia mano a mano che si prosegue: ecco la laguna Saqtaicocha, un lago a 4260 metri d’altezza, dove vivono le anatre e dove si specchiano le cime; ancora siti archeologici, una galleria, nebbiolina che galleggia, un’altra laguna, la Yanacocha, pausa merenda a Paqaymayu.
Circondato dalle nuvole, al chilometro 32 del cammino, ecco uno dei siti archeologici più interessanti, Phuyupatamarca, in quechua “il villaggio sopra le nuvole”, appunto. L’ultima notte è al campo di Winawayana. Per raggiungere la meta finale mancano appena 5 chilometri, 2 ore di cammino.
Di mattina presto si parte per raggiungere Intipunku, la porta del sole. Da qui la vista del Machu Picchu è il premio di 4 giorni di fatica. Il sito appare in tutta la sua maestosità, illuminato dai raggi obliqui del sole. Magia, mistero, meraviglia, emozioni indescrivibili, prima di scendere a visitarlo. E abbandonarsi alla fantasia, a Pachacútec e alla sua città meravigliosa.
3. Patagonia, viaggio di confine
Il mostro è bellissimo, blu cobalto, enorme, 557 chilometri quadrati. Ha sette braccia e un nome che sembra un canto, Nahuel Huapi, “l’isola del puma”, in lingua mapuche.
È un lago: provvede al 25 per cento del fabbisogno energetico del suo Paese, l’Argentina, e ha la sua leggenda alla Lochness, un dinosauro lacustre, un enorme plesiosauro.
Inventato, secondo quanto narrano le leggende, da tal Martin Sheffields, cacciatore di taglie in cerca di Butch Cassidy e Sundance Kid.
Dà anche il nome a un parco naturale, che esiste dal 1922, il terzo del genere creato nel mondo (gli altri due si trovano negli States). Siamo in Patagonia, regione enorme che si divide tra Argentina e Cile, terra che si confonde con il cielo, tinte forti, nuvole in continuo movimento, boschi, distese di nulla e montagne ricoperte da ghiacciai perenni.
Quello che ci accingiamo a fare è un percorso incredibile, da Bariloche (Argentina) fino a Puerto Montt (Cile) attraverso la cordigliera delle Ande, la catena montuosa che si allunga per 7500 chilometri, 3660 metri la media d’altezza delle sue cime.
L’impresa sembra improbabile, ma da secoli gli indios mapuche usano un sentiero (diventato strada) che, sfruttando la naturale depressione delle montagne, corre a un’altezza media di mille metri e attraversa la cordigliera e il confine dei due Stati.
Agli inizi del secolo scorso, uno svizzero di nome Ricardo Roth Schutz, credendo nella bellezza e nelle potenzialità dei luoghi, ne aveva fatto un itinerario turistico fondando un’impresa di trasporti, l’Andina del Sur. Progetto naufragato con la prima guerra mondiale per carenza di turisti stranieri, ma di grande intuizione.
Eccoci qua, dopo un secolo, a ripercorrere il suo itinerario, in autobus e barca, attraverso i laghi, specchi turchesi da lasciare incantati. San Carlos de Bariloche è una cittadina di 120 mila abitanti, turistica quanto basta nel rispetto della natura che la circonda. Begli alberghi, buone tavole, il giusto divertimento.
Arrivati a Puerto Pañuelo si prende una barca per arrivare a Puerto Blest e da qui si arriva a un lago incantato, il Frías. Il colore smeraldo delle sue acque è probabilmente dovuto ai sedimenti minerali rastrellati dal disgelo del Cerro Tronador. Ancora in navigazione per riprendere un mezzo di terra e passare il confine con il Cile.
La notte si trascorre a Perulla, paesino abitato da un centinaio di persone, porta d’ingresso al parco nazionale Vicente Pérez Rosales. All’interno di questa riserva di 2310 chilometri quadrati c’è un altro lago meraviglioso chiamato di Todos los Santos, famoso, più degli altri, per il colore smeraldo intenso delle sue acque.
In navigazione il panorama è imponente: il Cerro Tronador appare in tutta la maestosità dei suoi 3491 metri d’altezza e dei sette ghiacciai. E poi, ci sono il Pontiagudo (2490 m) e l’Osorno (2600 m) anch’essi vulcani, geologicamente attivi. Quest’ultimo ha sputato fuoco e pietre l’ultima volta nel 1836…
Si sbarca a Petrohué, per rimettersi in autobus per bordare un altro lago, il Llanquihué, altre fotografie paradisiache con vista sempre sull’Osorno e sul Calbuco, coperti di neve. Puerto Varas e Puerto Montt sono vicine e, con loro, la fine del viaggio in Patagonia.
4. Tanzania, rotta su Zanzibar
Scriveva David Livingstone, uno che di viaggi ne sapeva qualcosa: «Questo è il posto più bello che abbia mai visto in tutta l’Africa.
Un luogo dell’illusione dove niente è come appare». Correva l’anno 1866, e sull’isola a fare il bello e il cattivo tempo ci pensava il sultano Sayyid Majid bin Said Al-Busaid.
Più cattivo che bello, a dire il vero, dal momento che a metà del XIX secolo transitavano nel mercato degli schiavi di Zanzibar qualcosa come 50 mila povere anime l’anno.
Non che i decenni successivi potessero dirsi migliori, tra guerre, genocidi, rivoluzioni e quant’altro, ma il XXI secolo per fortuna non annovera nulla di tutto questo.
E anche se occorre muoversi con un minimo di buon senso e prudenza (come un abbigliamento sobrio, essendo il 90 per cento degli abitanti di religione islamica, e magari un’antimalarica), il viaggio sarà foriero di promesse mantenute.
Sarà sufficiente una sbirciatina nella zona di Nungwi, sulla punta settentrionale: lunghe spiagge di sabbia bianca e un colore del mare da spot pubblicitario, che hanno attirato alcuni dei migliori resort di Zanzibar, oltre a un buon numero di locali e ristoranti parecchio frequentati da backpackers e simil-hippy.
E dire che fino a una decina di anni or sono da queste parti si pensava solo a pescare e a costruire dhow, tradizionali imbarcazioni a vela utilizzate principalmente per il trasporto di merci.
Se invece siete in cerca di qualcosa di più esclusivo, potrebbe fare al caso vostro l’atollo di Mnemba, sempre nel quadrante nord ma sul lato orientale.
Un reef protetto di forma ovale, zeppo di fauna marina (inclusi balene, delfini e tartarughe) e al cui interno brilla la piccola Mnemba Island: un chilometro e mezzo di circonferenza, spiagge e fondali da urlo – soprattutto in settembre e ottobre, quando il mare è più calmo – e prezzi che lo sono altrettanto.
Trattasi infatti di un’isola privata (www.mnemba-island.com) con lodge di lusso e regole severe per chi si avvicina troppo: multe salate e allontanamento coatto.
Ancora belle spiagge sul litorale est, inframmezzate da piccoli villaggi, ma se invece siete in vena di incontri molto particolari… dovete spostarvi fino a Kimikazi, estremo sud, dove si aggira la susa atlantica.
Nulla di scabroso, stiamo parlando di delfini: fatevi dare un passaggio in mare da una barca di pescatori locali, e con un po’ di fortuna riuscirete persino a farci un bagno insieme.
Tassativamente vietato lasciare Zanzibar senza esservi recati a Stone Town, la città vecchia di Zanzibar City, nonché luogo di nascita di Farouk Bulsara: non si tratta del proprietario di un negozio di spezie, bensì il vero nome del più conosciuto Freddy Mercury, fuggito insieme alla famiglia nel 1964, allo scoppio della rivoluzione che rovesciò il sultano Jamshid bin Abdullah e il suo governo.
Ma non è per i Queen che l’unesco ha dichiarato Stone Town Patrimonio dell’umanità, semmai per le sue architetture figlie di un frullato di influenze arabe, persiane, indiane ed europee. Un intrico di vicoli, bazar – celebre quello di Darajani – e palazzi dove perdersi (meglio non di notte) seguendo il profumo delle spezie e il richiamo delle onde del mare.
Per ritrovare la strada chiedete della Casa delle Meraviglie, sul lungomare: fu costruita nel 1883 per il sultano di Zanzibar di fianco a una fortezza del XVII secolo, oggi attrezzata con negozietti e laboratori e utilizzata per spettacoli di danza e concerti.
Prima di ripartire non dimenticatevi di rendere omaggio alla casa di Livingstone: anch’essa edificata per un sultano (Majid), oggi è invece sede dell’Ente del turismo di Zanzibar.
5. Isola di Pasqua
A vederla dall’alto, è un quasi perfetto triangolo rettangolo.
Osservata un po’ di sbieco, assomiglia anche a una testa di cavallo.
La natura ama la perfezione, si sa, e come un pignolo cesellatore ha disposto tre vulcani, uno per ogni punta della figura geometrica.
Ormai sono spenti da milioni di anni, ma non è abbastanza da poterli dichiarare inattivi. I loro nomi sono una poesia criptica: a nord, il Maunga Terevaka, con 539 metri, il rilievo più alto, a sud-est il Puakatike (377 m) e a sud-ovest il Rano Kau (324 m).
L’uomo, di suo, ci ha aggiunto un valore inestimabile, un migliaio di giganteschi volti che guardano l’infinito da secoli.
L'isola di Pasqua (appena 163,6 chilometri quadrati di terra vulcanica) si trova, in mezzo al blu cobalto dell’oceano Pacifico, a 3256 chilometri dalla costa cilena, 4521 chilometri da Papeete, appena 2075 dalle isole Pitcairn.
Distante da tutto, è l’isola abitata più lontana del pianeta. Non per nulla è stata anche chiamata Te pito o te henua, “l’ombelico del mondo”, in lingua rapanui. Impossibile gustare quella netta sensazione di solitudine che ti assale in qualsiasi altro angolo remoto della terra.
Sarà per via del mare: all’orizzonte, fatta eccezione per tre isolette minori, qualche manciata di ettari, Motu Nui, Motu Iti, Motu Kao, non si scorge altro che acqua.
Blu, che si confonde con il blu del cielo, formando un tutt’uno, una sorta di grande palla colorata, simile a una di quelle sfere usate dai maghi.
Anche, si fa per dire, le vicine Pitcairn (sia Pasqua che l’unico territorio inglese della Polinesia sono le sommità di una catena montuosa che sale dalle profondità marine per oltre duemila metri) hanno il loro guinness: appena quarantotto residenti, tutti discendenti degli ammutinati del Bounty, il luogo meno popolato del mondo (un abitante per chilometro quadrato, ma questa è un’altra storia).
Chi ha visto il film Rapa Nui, s’è fatto l’idea di un luogo triste, incolore, violento, ossessivo. Invece, quello che salta agli occhi non appena si atterra con uno dei voli della lan, l’unica compagnia aerea che serve costantemente la propaggine cilena, è la saturazione dei colori. Sembra di essere in un’immensa foto digitale saturata all’eccesso.
Accostamenti folgoranti: i verdi in tutte le possibili gradazioni, gli ocra, i blu si combinano in una spumeggiante tavolozza. E poi, una volta abituati alle tinte forti che ben dispongono, si nota la conformazione, collinosa, per nulla aggressiva, dolce.
Le spiagge sono soltanto due, ma talmente belle che viene voglia di venirci sempre e non ci si stanca mai di calpestarne la sabbia e tuffarsi nelle acque cristalline. Se poi si sale al Rano Kau lo spettacolo diventa incredibile.