Epicuro fu un filosofo greco, nato sull’isola di Samo nel 341 a.C., da genitori ateniesi.
Sin da giovane manifestò un particolare interesse per la filosofia.
Nel 306 a.C. acquistò, in un luogo non lontano dall’Accademia platonica ad Atene, una proprietà dotata di un giardino destinato a dare il nome alla scuola.
Il «giardino» di Epicuro divenne ben presto una sorta di comunità di amici, aperta anche alle donne e agli schiavi.
La filosofia di Epicuro vuole liberare l’uomo dai dolori che lo affliggono, affinché possa raggiungere la felicità.
Per sostenere un proponimento tanto ambizioso, il filosofo è ben conscio di dover elaborare una dottrina che poggi su un impianto teorico saldissimo, costruito con una scrupolosità proporzionale all’importanza del fine da conseguire.
Epicuro si cura, dunque, di determinare quali siano i criteri di conoscenza atti a supportare un’indagine razionale intorno alla realtà; effettua tale indagine in modo rigoroso, attenendosi ai criteri stabiliti.
Prende le mosse dalla corretta comprensione della realtà per poter fissare una serie di regole di comportamento che permettano di raggiungere lo stato di felicità, vero traguardo della filosofia.
Ma vediamo chi era questo grande filosofo e, in maniera semplice e sinottica, cerchiamo di capire alcuni punti fondamentali della sua dottrina.
1. Il «Canone» di Epicuro
Il «Canone» di Epicuro (l'opera perduta ma riportata distesamente da Diogene Laerzio), è l’opera che trattava della conoscenza.
Già il nome è significativo: "κανών" (lat. regula) era lo strumento di cui ci si avvaleva nella costruzione degli edifici, affinché la struttura fosse diritta e, quindi, solida.
- Secondo Epicuro il primo criterio di conoscenza è la sensazione e per creare un tale sistema di conoscenze su basi stabili il filosofo attribuisce a ogni sensazione un carattere di assoluta verità.
Le sensazioni sono sempre vere, e una non può in alcun modo invalidarne un’altra; all’errore potranno condurre solamente le scorrette inferenze effettuate, sulla base delle informazioni ricevute attraverso i sensi, dalla ragione. - Il secondo criterio di conoscenza è la "προληψις", ‘prolessi’ o ‘anticipazione’ o ‘prenozione’ e trae origine dalla ripetizione delle sensazioni provate dagli organi di senso. Essa costituisce il criterio che consente all’uomo di riconoscere gli oggetti e al contempo permette di elaborare ragionamenti astratti.
- Il terzo criterio di conoscenza, le affezioni ("παθη"), ovvero il piacere e il dolore, ha una valenza etica più che propriamente gnoseologica. In base a questi criteri, Epicuro può indagare la realtà fenomenica e darne una spiegazione razionale.
L’universo è composto di atomi e di vuoto. Gli atomi sono infiniti quanto a numero, indivisibili e immutabili; sono in continuo movimento, a una velocità inimmaginabile (per quanto non infinita); possono avere forme e dimensioni diverse.
L’esistenza del vuoto è presupposta in quanto, se non ci fosse, agli atomi sarebbe precluso il movimento, che avviene a velocità costante e secondo un moto generalmente rettilineo e uniforme, ma che può subire, a volte, delle modificazioni.
Per definire queste deviazioni dalla linea retta si è soliti far riferimento a un vocabolo latino, clinamen, che compare per la prima volta nel poema di Lucrezio. Sebbene il termine non sia attestato nelle opere di Epicuro, il concetto è certamente una sua invenzione, e ha importanza capitale.
Infatti, se gli atomi si muovessero sempre lungo traiettorie rette e parallele, non sarebbe possibile un loro incontro, e di conseguenza non si formerebbero quelle aggregazioni di atomi che sono all’origine di tutte le cose.
Epicuro pensa allora che essi possano a volte, casualmente, deviare dalla verticale, scontrarsi e unirsi. Se il valore del clinamen è immediatamente evidente a livello fisico, anche in questo caso il fenomeno si rivela fondante per l’etica.
In particolar modo, esso permette di svincolare la volontà dell’uomo dai lacci di un determinismo altrimenti incompatibile con la sua libertà.
2. Gli dei secondo Epicuro
Epicuro non nega l’esistenza degli dei.
Anzi, a proposito della loro conoscenza da parte degli uomini, si serve dell’aggettivo ἐναργής, “manifesto”, “evidente”, con il quale il filosofo indica, più tecnicamente, ciò che è il prodotto di un'assoluta verità.
Questo si spiega ancora una volta facendo riferimento alle teorie della fisica (e della canonica), e più precisamente al concetto di "εἴδωλα".
Con questo termine, che generalmente si traduce con “simulacri”, Epicuro designa dei fasci di atomi che costantemente si staccano da tutte le cose, sotto la spinta di un impulso continuo ("παλσις") e giungono a colpire i nostri organi di senso.
Gli "εἴδωλα" mantengono la forma e le qualità dei corpi dai quali si dipartono, e quando vengono in contatto con gli organi recettori producono le sensazioni.
Anche gli dei, come tutto ciò che è presente nell’universo, sono composti di atomi, e da loro si dipartono simulacri, tanto sottili, però, che colpiscono non gli
organi recettori, bensì direttamente l’anima.
Per questo motivo è noto che gli dei esistono e hanno tratti antropomorfi. Gli dei per Epicuro sono esseri perfetti nei quali, pur essendo costituiti di atomi, ogni eventuale perdita di materia è immediatamente soggetta a compensazione: perciò sono incorruttibili ed eterni.
Inoltre, godono della perfetta beatitudine, e questo implica che non siano turbati da alcuna preoccupazione. Ma ciò significa che non si danno cura né di reggere l’universo conferendogli un ordine provvidenziale, né, tanto meno, degli uomini.
Secondo Epicuro se gli dei sono completamente indifferenti ai casi umani, né potrebbe essere altrimenti, non ci si dovranno attendere da essi né favori, né punizioni.
Questa consapevolezza permette però agli uomini di affrontare la vita liberi dal terrore derivante da assurde superstizioni, e di non nutrire false attese intorno a inesistenti ricompense ultraterrene, tanto più se si considera la natura mortale dell’anima.
Anch’essa, secondo Epicuro, è costituita di atomi che, al momento della morte, si disgregheranno e si disperderanno per sempre. Dell’uomo nulla più rimarrà.
Per questo motivo il cuore della filosofia epicurea consiste nelle riflessioni intorno al modo migliore nel quale affrontare la vita terrena, l’unica che si ha a disposizione, ovvero l’etica.
3. La concezione del piacere e del dolore
Secondo Epicuro, è manifestamente evidente che gli uomini tendono per natura al piacere.
Sin dalla nascita, quando non è ancora intervenuta alcuna distorsione, causata da fallaci opinioni, ad abbagliare le menti, tutti ricercano il piacere e fuggono il dolore.
L’etica epicurea si propone di stabilire dei principi che servano agli uomini come guida nelle proprie scelte, in modo tale che essi possano ottenere il fine di natura, così da raggiungere la felicità.
Conviene però precisare quale sia il concetto di piacere propugnato da Epicuro. Epicuro, infatti, distingue due tipi di piacere, quello “cinetico” o “in movimento”, e quello “catastematico” o “stabile”:
- il primo, perseguito dai filosofi della scuola cirenaica, con i quali non a caso Epicuro polemizza aspramente, consiste in un lieve movimento dei sensi che produce una positiva alterazione dell’equilibrio nel corpo;
- il secondo, cui Epicuro assegna il primato, si configura invece come assenza di dolore nel corpo (ἀπονία) e di turbamento nell’anima (ἀταραξία).
Epicuro non nega l’esistenza del piacere cinetico, ma lo considera irrilevante rispetto a quello catastematico.
Infatti, un piacere concepito come assenza di qualcos’altro, una volta che sia stato raggiunto, è in sé perfetto, e non può crescere quantitativamente, ma solo variare lievemente a livello qualitativo, senza peraltro che ciò apporti un reale beneficio, ma solo l’illusione di esso.
Una possibilità di confondere i due tipi di piacere è presente solamente quando, nella fase in cui si ha il passaggio da una mancanza alla sua scomparsa (che coincide con il momento nel quale l’affezione positiva insorge), il piacere quantitativo legato alla cessazione della mancanza si unisce a quello qualitativo dipendente dalla natura della sua fonte.
Ciò può indurre in errore e portare a credere che una variazione di qualità abbia influenza sul processo di sottrazione della mancanza. Un esempio chiarirà meglio questo concetto.
Quando si ha fame, ci si trova in uno stato di mancanza. Assumendo del cibo, tale mancanza viene colmata, e da ciò si ingenera il piacere. La maggiore o minore raffinatezza del cibo è irrilevante (per quanto erroneamente si potrebbe anche credere il contrario); ciò che davvero conta è la raggiunta sazietà.
4. Il “tetrafarmaco” di Epicuro e i desideri
Secondo il grande filosofo per ottenere la felicità occorre seguire poche regole, le più importanti delle quali Epicuro riassume nelle prime 4 Massime capitali, note anche con il nome di “tetrafarmaco”, ossia “quadruplice rimedio”, un vero compendio dell’etica epicurea: non bisogna aver timore né della morte, né degli dei; è facile conseguire il piacere e sfuggire al dolore.
Le prime due massime implicano che Epicuro, da un lato mira a liberare l’uomo dal timore di mali futuri, che comprometterebbe irrimediabilmente la sua serenità; dall’altro vuole spronarlo a vivere in pienezza la propria limitata esperienza, poiché il carattere di finitudine che la non costituisce un ostacolo al raggiungimento della felicità.
Tra i desideri, alcuni sono naturali e necessari; altri naturali e non necessari; altri, poi, né naturali, né necessari, ma insorgono per vana opinione:
- Naturali e necessari sono da considerarsi i desideri che, se non appagati, porterebbero alla morte, e hanno attinenza con il soddisfacimento dei bisogni fisici fondamentali, come mangiare, bere, ripararsi dal freddo.
- Naturali e non necessari sono invece quelli che aggiungono ai primi una variazione qualitativa che Epicuro riteneva non tanto nociva, quanto piuttosto inutile.
- Né naturali né necessari devono infine considerarsi quei desideri che non sono solamente inutili, ma risultano addirittura dannosi, come la brama di onori e ricchezze.
Questa classificazione dei desideri permette, se accettata, un radicale mutamento di prospettiva della visione che si può avere della vita. Infatti, se è vero che l’uomo non ha la possibilità di ottenere tutto ciò che vorrebbe, e che la privazione di qualcosa gli provoca un senso di insoddisfazione, e quindi di infelicità,
Epicuro insegna che cosa sia davvero indispensabile perché si riesca a trascorrere un’esistenza serena e priva di affanni, fugando le vane opinioni che porterebbero a ricercare beni che in realtà non sono tali.
La limitazione dei desideri, in questo modo, assume i caratteri non di una rinuncia dettata dalla necessità, ma di un volontario rifiuto di qualcosa che, essendo inutile, non comporta sofferenza qualora non lo si possegga.
Proprio per questo Epicuro, tra le varie virtù, assegna il primato alla "φρόνησις", l’assennatezza (o prudenza), in quanto essa permette di discernere i desideri necessari da quelli inutili, e d’altra parte è in grado di assegnare un carattere di positività anche ad alcuni tipi di dolore, se da essi si figura che potrà derivarne un piacere.
L’assennatezza governa l’agire dell’uomo e al contempo rappresenta la garanzia fondamentale della sua libertà, facendo in modo che solo da lui, del tutto indipendentemente dai condizionamenti esterni, sia determinata la sua felicità.
5. Vita di Epicuro (341 a.C. - 271 a.C.)
Le notizie che possediamo intorno alla vita di Epicuro provengono in massima parte dalla biografia compresa nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio.
Epicuro nacque nel 341 a.C. sull’isola di Samo, da genitori ateniesi. Sin da giovane manifestò un particolare interesse per la filosofia.
Inizialmente seguì le lezioni di due filosofi: Panfilo, di orientamento platonico, e Nausifane, un democriteo, ma ben presto se ne distaccò.
Una delle caratteristiche peculiari di Epicuro sarà proprio la volontà di affermare l’indipendenza del proprio pensiero dall’influenza di altri filosofi, attribuendo al messaggio da lui propugnato quasi i tratti di una rivelazione.
A 18 anni si trasferì ad Atene per adempiere i doveri legati all’istituzione dell’efebia, che provvedeva all’educazione, soprattutto militare, dei giovani della pólis.
Qui ebbe l’occasione di ascoltare le lezioni di Senocrate, scolarca dell’Accademia, e di Teofrasto, succeduto in quegli anni ad Aristotele alla guida del Liceo.
Poco più che trentenne, nel 310 a.C., fondò una scuola filosofica, prima a Lampsaco, poi a Mitilene. Nel 306 a.C. fece ritorno ad Atene, dove acquistò, in un luogo non lontano dall’Accademia platonica, una proprietà dotata di un giardino destinato a dare il nome alla scuola.
Il «giardino» di Epicuro divenne ben presto una sorta di comunità di amici, aperta anche alle donne, alcune delle quali note etere – come la celebre Leonzio, futura moglie di Metrodoro – e agli schiavi, come il famoso Mys («Topo»).
La vita nella comunità era molto frugale, ed esigua la quota versata da ogni membro per far fronte alle necessità materiali.
I discepoli apprendevano le dottrine del maestro, mandandone a memoria i precetti fondamentali, ma il rapporto con Epicuro era contraddistinto dalla "παρρησία", la libertà di parola, utile sia all’instaurazione di rapporti di amicizia più stretti e sinceri, sia al miglioramento spirituale.
Epicuro visse quasi esclusivamente ad Atene, dedicandosi all’insegnamento e alla stesura delle sue numerose opere. Se ne allontanò solo per brevi .