250 anni fa nasceva a Bonn uno dei più grandi compositori di tutti i tempi.
Nasce, infatti, nel 1770, conduce gran parte della sua vita a Vienna, dove muore nel 1827, all’età di 57 anni. La sua opera si estende cronologicamente dal periodo classico agli inizi del Romanticismo.
Ultimo grande rappresentante del classicismo viennese (dopo Gluck, Haydn e Mozart), Beethoven preparò l’evoluzione verso il Romanticismo musicale ed influenzò tutta la musica occidentale per larga parte del XIX sec..
Personalità inclassificabile (“Voi mi avete dato l’impressione di essere un uomo con molte teste, molti cuori, molte anime” gli disse Haydn verso il 1793) la sua arte si espresse in tutti i generi, e benché la musica sinfonica fosse la fonte principale della sua popolarità universale, è nelle opere per pianoforte e nella musica da camera che la sua influenza fu più considerevole.
Superando attraverso la ferrea volontà le prove di una vita segnata dal dramma della sordità, la sua musica celebra il trionfo dell’eroismo, della fratellanza fra i popoli e della gioia, nonostante il destino gli avesse riservato l’isolamento e la miseria. L’opera di Beethoven ha fatto di lui una delle figure più significative della musica.
Ecco perché Ludwig van Beethoven ha cambiato la storia della musica e come è diventato un personaggio di culto.
1. Fidelio e un inno per l’Europa
- Fidelio: W la libertà!
In un’epoca in cui il melodramma era il genere di spettacolo più seguito in Europa, Beethoven compose (1803-1805) una sola opera per il teatro musicale: Fidelio.
Si tratta di un Singspiel, cioè di uno spettacolo in parte recitato e in parte cantato, in tedesco.
La trama è ambientata in Spagna, ma è ispirata a una storia vera accaduta durante il Terrore, nel corso della Rivoluzione francese: Leonore si traveste da uomo e con il falso nome di Fidelio (“il fedele”) cerca di liberare l’amato marito Florestan, ingiustamente imprigionato. Dopo varie peripezie il bene trionfa, il governatore corrotto viene punito e Leonore può liberare Florestan.
Il Fidelio ebbe un buon successo, ma Beethoven rimaneggiò per ben due volte la partitura e non scrisse altri lavori per il teatro. L’opera riassumeva gli ideali in voga all’epoca e vicini al compositore: la lotta per la giustizia e la libertà, la speranza in un avvenire migliore.
- Un inno per l’Europa
Nel 1972 l’Ode alla gioia, dalla Nona sinfonia di Beethoven (1824), fu adottato come inno dal Consiglio d’Europa, in seguito dall’Ue.
Nella versione “europea” l’inno è eseguito soltanto dall’orchestra, senza parole e in una forma abbreviata, ma nella Nona sinfonia è un brano complesso, che prevede un grande coro e quattro voci soliste (soprano, mezzosoprano, tenore e baritono).
L’Ode alla gioia fa parte dell’ultimo movimento dell’ultima sinfonia del compositore. Il testo usato (modificandolo) da Beethoven è l’ode Alla gioia (An die Freude), scritta nel 1785 da Friedrich Schiller, tra i più importanti poeti e drammaturghi del Romanticismo.
Le sue parole annunciano un futuro di fratellanza e felicità universale nel nome dell’umanità e la musica ne esprime la gioia e la speranza.
2. L’Eroica e la Pastorale
- Perché l’Eroica si chiama così?
L’Eroica (1802-1804) è la terza delle nove sinfonie di Beethoven e segnò un grosso passo avanti rispetto alle due precedenti. Anzi, fu una rivoluzione.
Inizialmente Beethoven l’aveva dedicata a Napoleone Bonaparte (sotto, in un quadro di Jacques-Louis David). Beethoven, che era di idee libertarie, tra i venti e i trent’anni aveva accolto con favore sia la Rivoluzione francese, sia l’ascesa di Bonaparte.
Ma quando Napoleone si fece incoronare imperatore lui, deluso dalla piega monarchica che stava prendendo il bonapartismo, stracciò il frontespizio con la dedica, che cambiò in un più generico “Sinfonia grande Eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo”.
Nessuno fino ad allora aveva scritto una sinfonia (una composizione per orchestra in genere divisa in quattro movimenti) di quella lunghezza e così impegnativa: quasi un’ora di musica. Il piglio “eroico” si deve soprattutto al secondo movimento che, invece di essere un brano cantabile come previsto dalla tradizione, è una monumentale e drammatica Marcia funebre.
Nessuno aveva mai ascoltato niente del genere fino a quel momento, e infatti dopo la prima esecuzione pubblica (1805) uscirono recensioni di questo tono: “Il nuovo lavoro di Beethoven possiede grandi e audaci idee, ma il tutto guadagnerebbe se l’autore si decidesse ad abbreviare la sinfonia”.
Insomma, una bella sforbiciata avrebbe reso più digeribile il capolavoro, evidentemente troppo avanti per l’epoca.
- .. e la Pastorale?
La Sinfonia n. 6, eseguita per la prima volta nel 1808, fu intitolata Pastorale dallo stesso Beethoven (sotto, mentre compone en plein air).
Spesso viene definita una composizione “a tema”, nella quale l’orchestra sembra riprodurre le fasi di una giornata in campagna: la passeggiata, una festa contadina, un temporale, il ritorno del sereno.
Ma, come scrive lo stesso Beethoven sulla partitura, quella musica è “Più espressione del sentimento che pittura dei suoni”.
Il sottotitolo è rivelatore: la grandezza della sua musica non va cercata nella capacità di imitare o descrivere la natura (lo avevano già fatto tanti musicisti, fin dal periodo Barocco).
Sta invece nella capacità di esprimere sentimenti con la musica, usando in modo innovativo forme e strumenti.
Anche in altre composizioni Beethoven suggerì la presenza di significati nascosti, come quando, secondo la tradizione, disse che il drammatico inizio della Quinta sinfonia (il celebre ta-ta-ta-taaaa) evocava il “destino che bussa alla porta”.
3. Per Elisa e “Nove e non più nove”
- L’Elisa di Per Elisa si chiamava... Teresa
Per Elisa (Für Elise, in tedesco) è una bagatella, ovvero una breve composizione per pianoforte.
Non è nella top ten dei capolavori di Beethoven, ma la semplicità del suo tema principale ne ha decretato il successo globale, facendola finire nelle musichette d’attesa di mezzo mondo.
La dedica a Elisa, però, si deve a un altro Ludwig: l’editore Ludwig Nohl, che pubblicò il brano quando il compositore era già morto da mezzo secolo.
In origine, secondo la maggior parte dei biografi, il brano era dedicato a Therese Malfatti (foto sotto), giovane di una ricca famiglia di commercianti viennesi di origini toscane, di cui Beethoven si era invaghito: l’editore avrebbe interpretato male la scrittura di Beethoven. Il condizionale è d’obbligo, visto che il manoscritto originale è andato perduto (restano soltanto alcuni abbozzi).
E c’è addirittura chi ritiene che lo stesso Nohl avrebbe scritto il brano, a partire dagli spunti beethoveniani. Se così fosse, Per Elisa sarebbe un falso.
Come sottolinea però lo studioso tedesco Klaus Kopitz, nella vita di Beethoven una “Elisa” ci fu: la cantante lirica Elisabeth Röckel.
- “Nove e non più nove”: le sinfonie che cambiarono la musica
Mozart (1756-1791) scrisse una cinquantina di sinfonie in 35 anni, Haydn (1732-1809) ben 104 in 77 anni, Beethoven soltanto 9, in 57 anni. E dopo di lui, per oltre un secolo nessuno superò il fatidico numero nove.
Tanto che si mormorava di una “maledizione della Nona”: Gustav Mahler, nel 1911, morì mentre stava lavorando alla sua decima sinfonia e solo il russo Dmitrij Šostakovič, nel 1953, supererà quel confine invisibile, arrivando poi a 15 sinfonie.
Non fu certo la presunta “maledizione di Beethoven” a provocare un crollo nella produzione sinfonica.
Fu invece la conseguenza della rivoluzione musicale beethoveniana, che trasformò un genere “di consumo” e spesso convenzionale come la sinfonia in banco di prova e di sperimentazione del linguaggio musicale e dell’orchestrazione (cioè dell’arte di mettere insieme i diversi strumenti di un’orchestra).
Dopo di lui le sinfonie diventarono più complesse, spesso accompagnate da un coro o da solisti (come nella Nona, sopra, la “prima” del 7 maggio 1824 a Vienna).
Insomma, un tipo di musica che richiedeva tempo e ricerca creativa continua: più arte e meno mestiere.
4. Un salto nel futuro e la sordità del compositore
- Un salto nel futuro
Gli ultimi cinque quartetti e la Grande fuga per archi (due violini, viola e violoncello) di Beethoven furono composti pochi anni prima della sua morte (avvenuta nel 1827) e sono un vertice assoluto nella storia della musica.
Perché? Per la loro espressività melodica, per la complessità formale, per le molte novità stilistiche e per l’influenza che hanno esercitato sulle generazioni successive.
In queste composizioni (e in altri capolavori dell’ultimo periodo) Beethoven ha usato le forme della tradizione come nessuno aveva fatto prima, anticipando il linguaggio musicale di fine Ottocento- inizio Novecento.
Tre di questi quartetti furono commissionati dal mecenate russo Nikolaj Galytsin e pagati 50 ducati l’uno (no, Beethoven non scriveva soltanto “per se stesso”, come vuole un luogo comune).
Sul manoscritto dell’ultimo quartetto, i due motivi musicali principali sono accompagnati da altrettante frasi di Beethoven: “Müß es sein?” e “Es müß sein!” (“È così?” e “Deve essere così!”). Sul vero significato di queste parole c’è chi si interroga da quasi due secoli.
- La sordità influenzò la sua musica?
Nel 1820, Beethoven era del tutto sordo: i capolavori dei suoi ultimi sette anni di vita nacquero nel silenzio assoluto (a parte tinniti e acufeni che lo tormentavano).
La sordità progressiva, iniziata verso il 1796, probabilmente a causa di un’infezione, peggiorò l’umore di un giovane già provato dalla vita.
Ma non rappresentò un vero handicap per la sua arte (sotto, un episodio tratto da una biografia: dopo un concerto la contralto Caroline Unger lo avvisa dell’applauso del pubblico che il musicista non ha sentito).
Beethoven, infatti, possedeva il cosiddetto “orecchio assoluto”, era cioè in grado di identificare esattamente l’altezza delle note e aveva un’intonazione perfetta.
Quando scorreva una partitura o componeva al pianoforte, strumento per il quale scrisse 32 sonate che ne rivoluzionarono la tecnica, non aveva bisogno di “ascoltarsi” con le orecchie.
Nel suo cervello, le note risuonavano all’esatta altezza e con il giusto timbro, grazie anche all’esperienza accumulata fin da ragazzo.
5. Che cos’è il Testamento di Heiligenstadt e chi era “l’Amata immortale”?
- Che cos’è il Testamento di Heiligenstadt?
Il 6 ottobre 1802 Beethoven prese penna e calamaio e scrisse (ma non spedì) una lunga lettera ai suoi fratelli, Kaspar e Nikolaus, dalla sua casa di Heiligenstadt, un sobborgo di Vienna.
Non è un “testamento”, ma è stato chiamato così perché si tratta di una lettera-confessione, ritrovata soltanto dopo la morte del musicista.
Il “testamento” contiene una serie di amare riflessioni e svela la vera ragione del carattere umorale e ombroso di Beethoven: il progredire della sordità, di cui nel 1802 pochi erano a conoscenza.
Tutto questo lo allontanò dalla vita mondana, come spiega nella lettera: “O voi uomini che mi stimate o mi definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto! Voi non conoscete la causa segreta che mi fa apparire a voi così”.
E ancora: “Per colpa della malattia, pur essendo dotato di un temperamento ardente, vivace, e anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la mia vita in solitudine”.
Insomma, Beethoven più che un genio arcigno e intrattabile, era un uomo solo.
- Chi era “l’Amata immortale”?
Dopo la morte di Beethoven, insieme al Testamento di Heiligenstadt (vedi sopra) furono trovate tre lettere del 1812, mai spedite e indirizzate a una misteriosa “Amata immortale”, insieme a un ritratto di ragazza senza alcun nome.
Chi era la donna del mistero? Secondo il biografo e produttore musicale statunitense Maynard Solomon, recentemente scomparso, le candidate sono Josephine von Brunswick e Antonia Brentano.
Secondo altri, era Giulietta Guicciardi (foto sotto), nata in Galizia (allora Impero austriaco, oggi Polonia) da una famiglia italiana, allieva pianista alla quale Beethoven dedicò la Sonata n. 14 e chiese di sposarlo. Ricevendo l’ennesimo rifiuto.
Sì, perché con le sue proposte di matrimonio Ludwig collezionò soltanto dei “no grazie”. Secondo Solomon, Beethoven “considerava i rapporti amorosi un ostacolo alla propria missione creativa”. Ma se morì single, non fu per scelta.