Gli animali hanno vissuto al nostro fianco, a volte come compagni fedeli, a volte come ospiti indesiderati.
A parte i classici animali utili all’uomo (il cane che con l’uomo ha un feeling che dura da 15mila anni, il cavallo che ha aiutato l’umanità per millenni, in guerra e nei trasporti, ecc.).
Scopriamo 5 animali insoliti da sempre al nostro servizio…
1. Le api
La testimonianza più antica dell'alleanza tra genere umano e ape risale al Neolitico.
Si trova in una pittura rupestre del 7000-5000 a.C., rinvenuta in Spagna nei pressi di Valencia (foto sotto): raffigura una persona (forse una donna) appesa a una parete rocciosa, circondata da molte api e con una bisaccia, mentre estrae alcuni favi di miele da un anfratto.
È una rappresentazione primitiva della raccolta del miele selvatico.
Il primo documento storico che dimostra l'utilizzo abituale del miele si trova invece nell'Egitto dei faraoni, sul bassorilievo del sarcofago di Micerino (circa 2530 a.C.). Il miele nella civiltà egizia era considerato così prezioso che accanto alle mummie si deponevano grandi coppe colme del dolce prodotto, che il defunto avrebbe consumato durante il viaggio nell'aldilà.
Vasi di miele ermeticamente chiusi il cui contenuto si è perfettamente conservato sono stati rinvenuti negli scavi delle tombe dei faraoni. E in alcuni geroglifici si leggono ricette a base di miele impiegate sia nell'arte culinaria sia in medicina, per curare disturbi digestivi e preparare unguenti per piaghe e ferite.
Sotto, geroglifico con ape, da un'iscrizione di Kamak, risalente alla XVIII dinastia (1543-1292 a.C.)
L'uomo apprezzò il miele a tal punto, che quasi subito mise in atto una sorta di "allevamento" delle api. Egli Egiziani furono forse i primi a capire l'importanza di offrire a questi insetti un luogo sicuro dove costruire l'alveare. Nacquero così, attorno al 2600 a.C., le prime arnie: giare cilindriche di terracotta, messe una sopra l'altra.
I luoghi ideali erano i campi lungo le sponde del Nilo, che offrivano ampie fioriture alle api. Anche altri popoli affrontarono e risolsero li problema di "adottare" questi insetti: ognuno sviluppò un proprio tipo di arnie. In Medio Oriente si usavano i vasi in terracotta, nell'Europa Centrale i tronchi cavi, altrove contenitori di paglia o di fibra vegetale e argilla.
Il miele non era, però, solo un prodotto capace di dolcificare gli alimenti. Ricerche storiche dimostrano che i Sumeri lo impiegavano nella cosmesi, mentre Assiri e Babilonesi lo usavano a scopo curativo: utilizzavano il miele per le affezioni che colpivano epidermide, occhi, genitali, apparato digerente.
Il miele e la cera ottenuta dai favi erano utilizzati persino per trattare i corpi dei defunti. Anche i Celti lo usavano nei riti di sepoltura, mentre per gli Etruschi il miele rappresentava una preziosa offerta votiva.
Nel mondo greco li miele era considerato il "prodotto degli arcobaleni e delle stelle" e quindi si credeva che provenisse dagli dèi, di cui era considerato il cibo. La sua forza energetica è tale che i Greci lo consideravano un potente elisir di giovinezza e lo davano agli atleti che partecipavano alle Olimpiadi.
Il filosofo Aristotele (384-322 a.C.) fu il primo a studiare le api, analizzandole sia nel modo di riprodursi sia nella loro complessa organizzazione sociale. Quanto ai Romani, sappiamo con certezza che l'apicoltura era sviluppata: praticavano la sciamatura artificiale, costruivano arnie esperimentarono nuove tecniche.
I Romani facevano uso del miele a scopo terapeutico, cosmetico e in cucina (lo aggiungevano anche nel vino), tanto che era considerato un ingrediente immancabile.
Il passare dei secoli non fece diminuire l'incanto nei confronti delle api e il miele continuò ad avere un ruolo centrale nell'alimentazione.
Basti pensare che fino a tutto il Medioevo fu l'unico dolcificante di larga diffusione, gradualmente soppiantato dallo zucchero soltanto nei secoli successivi, con l'espansione coloniale europea (per le piantagioni di canna da zucchero) e con l'introduzione dello zucchero di barbabietola raffinato industrialmente.
2. Gli elefanti
Gli elefanti da guerra sono stati armi importanti, nell'antica arte militare.
Venivano principalmente utilizzati nelle cariche, per scompaginare i ranghi dei nemici. Scendevano in battaglia solo gli animali maschi, perché più veloci, più pesanti e più aggressivi delle femmine.
Il loro utilizzo bellico iniziò attorno al 1100 a.C., nella Valle dell'Indo (attuale Pakistan), come testimoniano diversi inni in sanscrito. Furono introdotti nell'esercito persiano da Dario I (550-486 a.C.), che aveva conquistato quei territori e aveva visto gli elefanti da guerra in azione.
Il primo a farne le spese fu Alessandro Magno nella battaglia di Gaugamela (331 a.C. foto sotto).
I quindici elefanti delle linee persiane fecero tremare le truppe macedoni, tanto che Alessandro decise di compiere un sacrificio al dio della Paura (Phobos) la notte prima dell'attacco, tenendo poi la cavalleria lontano dagli elefanti durante lo scontro. In seguito Alessandro arrivò ad apprezzare gli elefanti da guerra al punto da introdurli nel suo esercito.
Arrivato ai confini dell'India, quando venne a sapere che i sovrani dei regni Magadha e Gangaridai avrebbero potuto schierarne contro di lui tra i 3mila e i 6mila, interruppe la sua avanzata verso est.
Tornato a Babilonia, istituì una forza di elefanti di guardia al suo palazzo e creò la posizione di "elefantarca", comandante delle unità di pachidermi.
Anche Egizi, Cartaginesi e Numidi addomesticarono gli elefanti, ricorrendo soprattutto alla sottospecie nordafricana, più piccola di quella asiatica e che fu talmente sfruttata da estinguersi.
Il caso più famoso? Quello di Annibale Barca, che valicò le Alpi giungendo in Italia con 21 elefanti superstiti e che durante la Battaglia della Trebbia (218 a.C.), a destra e a sinistra dello schieramento, li pose davanti alle ali di cavalleria, ottenendo la vittoria.
I Romani impararono a difendersi da quegli animali con li lancio di dardi nei loro punti più deboli. E, come narra lo storico antico Polibio, alla fine gli elefanti portati dai Cartaginesi, non abituati al freddo della Pianura Padana, morirono tutti eccetto uno: Surus.
Il leggendario elefante di Annibale, passato alla Storia come il più valoroso pachiderma di tutte le Guerre puniche, sopravvisse alla sconfitta ma morì, malato, poco dopo. Alla sua scomparsa Annibale costruì addirittura una città in suo onore.
Dopo le Guerre puniche, Roma portò nell'Urbe molti elefanti come bottino e in seguito li utilizzò anche nelle proprie campagne militari. Qua sotto, l'armata di Annibale supera il Rodano, nel 218 aC.
In India e altrove gli elefanti sono stati impiegati per secoli come animali da lavoro, per spostare grandi pesi. Ma sono stati ben più ricercati e sfruttati per l'avorio che si ricava dalle loro zanne.
Con questo prezioso materiale fin dall'antichità vennero prodotti oggetti d'uso quotidiano, ornamenti e manufatti artistici e religiosi, fino allo sviluppo di una vera e propria economia dell'avorio. La facilità di lavorazione e il suo valore intrinseco ne hanno fatto un materiale perfetto per oggetti raffinati, doni da re esimboli del potere.
Ancora oggi, purtroppo, l'avorio è uno status symbol. Con la conseguenza che la specie africana, già decimata, resta in pericolo di estinzione.
3. Lo yak
Lo yak è l'animale simbolo dell'altopiano del Tibet, dove vive tra pascoli di alta quota e steppe.
Ha una corporatura massiccia (può raggiungere una tonnellata di peso), manto scuro che scende lungo i fianchi e si infoltisce sulle spalle e ampie corna arcuate.
È per l'appunto ben equipaggiato per vivere alle alte quote:la folta pelliccia e la pelle spessa lo proteggono dal freddo e gli zoccoli divaricabili gli permettono di muoversi anche su terreni acquitrinosi.
Ma sono soprattutto la capacità polmonare e l'elevato tasso di emoglobina nel sangue a permettergli di vivere fino ai 6mila metri: i suoi globuli rossi sono tre volte quelli dei comuni bovini e la curiosa struttura della cassa toracica, costituita da 14 o 15 paia di costole invece che dalle 13 tipiche dei bovini, gli dà una maggiore capacità di respirazione.
Qua sotto, modello di yak in bronzo che si trova in Gansu, Cina. Dinastia Yuan, 1271–1368 d.C.
Lo yak si nutre di erbe e piante erbacee e avolte di muschi e licheni. Ma mentre la specie selvatica vive ormai in popolazioni ridotte, lo yak domestico è ancora molto diffuso in Tibet: è infatti uno dei pochi animali che si possono allevare al di sopra dei 2mila metri.
Ma rispetto al "cugino" selvatico è di mole inferiore, ha una colorazione più varia e corna più piccole.
Considerati da sempre il tesoro e il mezzo di spostamento principale dai tibetani, questi super-bovini sono in grado di camminare su sentieri ripidi e pericolosi, inerpicarsi tra montagne innevate, attraversare paludi e fiumi.
Possono trasportare carichi pesanti, fino a 100-200mchilogrammi, su lunghe distanze. I tibetani ricavano dai loro amati yak il latte per il formaggio e l'immancabile burro usato per il tè e per alimentare le lampade nei monasteri.
Il pelo è tessuto per confezionare stoffa per tende e corde, mentre il soffice contropelo viene filato per ottenere la chara (un tipo di feltro) e utilizzato per fabbricare borse, coperte e tende.
Le code sono usate nelle pratiche religiose buddhiste e hindu, mentre dalle pelli si ricavano suole per stivali e il cuore trova utilizzo nella medicina tradizionale.
Nessuna parte dell'animale va sprecata e persino lo sterco ha un impiego fondamentale: lasciato essiccare in piccole tavolette sulle pareti di quasi tutte le case, è impiegato come combustibile.
Gli yak sono così importanti per i tibetani che, quando nasce, ogni animale riceve un nome proprio, come nel caso dei bambini.
Senza gli yak, senza la loro straordinaria costituzione e la loro poderosa forza, gli abitanti delle valli himalayane non avrebbero potuto sviluppare la loro civiltà, fondata su una convivenza armoniosa tra animale e uomo.
4. Il bisonte
Non tutti sanno che esistono duespecie distinte di questi animali: il bisonte americano (Bison bison) e quello europeo (Bison bonasus).
La specie europea fu cacciata fino alla totale scomparsa allo stato brado. Infatti, soprattutto nel Medioevo, dai bisonti si ricavavano cuoio e corna usate come coppe.
Le prime immagini di questi animali si trovano già nelle pitture rupestri neolitiche, per esempio nella Grotta Chauvet, in Francia (foto sotto). In seguito, esemplari cresciuti in cattività sono stati reintrodotti, soprattutto in Polonia.
Quanto ai bisonti americani, fino a 150 anni fa occupavano tutto il Nord America, dal Messico al Canada, nelle estese pianure e in alcune foreste. Questo grosso bovino, che tutti abbiamo visto nei film western, arrivò in America dall'Asia attraversando lo Stretto di Bering tra 40mila e 80mila anni fa.
Oggi solo una piccola parte di bisonti americani sopravvive in aree protette come lo Yellowstone National Park, il Cave National Park o in fattorie private.
Questa situazione è la conseguenza, devastante e a lungo termine, della colonizzazione europea ottocentesca nei territori del West: soldati, avventurieri, coloni e cercatori d'oro compirono un folle e sconsiderato massacro del buffalo, come lo chiamano gli statunitensi.
Lo sterminarono per trasformare le praterie in pascoli recintati da destinare all'allevamento di mucche e cavalli, ma soprattutto come una strategia, impostata dal generale Philip Sheridan, per prendere possesso delle loro terre dopo averli piegati e sconfitti.
La caccia indiscriminata al bisonte privò infatti i nativi di ogni sostentamento, dato che tutta la loro economia si basava su questi animali, da cui ricavavano cibo, abiti, armi e molto altro.
Prima che giungessero gli europei vivevano, secondo alcune stime, non meno di 20 milioni di bisonti nel Nord America.
I bisonti divennero uno degli animali totemici più importanti della cultura indigena e assunsero un significato di abbondanza, prosperità, gratitudine, protezione, forza.
Per capire la tragedia della loro sconsiderata caccia basta ricordare la celebre frase del colonnello statunitense Richard Dodge: "Ogni bisonte morto è un indiano morto". Era il 1867. Nel 1884 i bisonti americani erano rimasti 400: estinti, di fatto.
Sotto, un nativo americano a caccia di bisonti,in una litografia dell'800.
5. Il dromedario
Molto probabimente la leggendaria "nave del deserto" fu domesticata nella Penisola araba tra il V e il VI millennio a.C. oppure in Somalia, dove alcune pitture rupestri risalenti a più di 5mila anni fa li raffigurano.
Ben presto il dromedario divenne cavalcatura e bestia da soma, fornendo anche latte, carne e pelli ai beduini, nomadi nei deserti.
Le femmine, in particolare, sono apprezzate per la loro produzione di latte e il carattere più docile.
Secondo un proverbio arabo, l'uomo sarebbe diventato "parassita" del dromedario, detto nave del deserto per la sua capacità di percorrere lunghe distanze su terreni accidentati, senza alimenti solidi e liquidi.
Le zampe con due sole dita, ricoperte da uno spesso strato calloso, gli permettono di camminare sulla sabbia senza sprofondare e le sue narici sono molto strette, per fermare la sabbia sollevata dal vento. I dromedari sono in grado di percorrere fino a 150 km in 15-20 ore, a una velocità che può oscillare fra gli 8 e i 20 km orari, sopportando un carico sino a 150-200 Kg.
Inoltre resistono alla sete fino a 8giorni, essendo in grado di evitare la dispersione di 10 litri circa d'acqua, che riescono a bere in 10 minuti, grazie all'addensamento del plasma sanguigno che li porta a dilatare i globuli rossi fino a 250 volte i valori abituali.
La traspirazione, già assai limitata dal tipo di epidermide, può essere rallentata dall'ingestione di vegetali spontanei delle aree desertiche, ricchi di sali minerali. Dotato di udito e olfatto finissimi (ma i nomadi ne lodano pure la vista), il dromedario avverte la presenza di acque sotterranee.
Il commercio del sale tra i giacimenti del Sahara e li Mediterraneo o l'Africa subsahariana non sarebbe stato possibile senza il contributo prezioso di questi animali così tenaci.
La loro irrequietezza non li rese invece molto adatti all'uso bellico: anticamente, i guerrieri arabi arrivavano sul campo di battaglia in sella a un dromedario, ma con il cavallo al seguito, che montavano quando veniva il momento di combattere.
La nave del deserto è impiegata, soprattutto da tempi relativamente recenti, anche come animale da corsa: nei Paesi del Golfo Persico si organizzano gare molto seguite, su percorsi rettilinei (il dromedario non ama curvare in corsa) lunghi fino a 28 km.
Una curiosità? Il vocabolario arabo ha 160 termini per identificare i dromedari, in base a sesso, età o colore del manto.