La Storia è piena di grandi protagonisti traditi da una debolezza, da un errore, da un infortunio che hanno appannato la loro gloria, anche se si preferisce non parlarne perché i miti sono intoccabili.
Dall’epoca romana a oggi, ecco cinque personaggi, tra i tanti, colpevoli di aver sbagliato almeno una volta.
1. SPARTACO (109 A.C. – 71 A.C.) - Tradito da un’illusione
Lo schiavo che nel 73 a.C. organizzò con alcuni compagni l’evasione dei gladiatori dalla scuola di Capua viene celebrato come un difensore degli oppressi e un combattente per la libertà.
Ma è un giudizio dei tempi moderni, successivo alla diffusione dell’ideologia marxista che fece di lui un precursore delle rivolte degli oppressi contro gli oppressori, addirittura un anticipatore della lotta di classe.
In realtà gli storici vedono in lui un perdente, abile condottiero, sagace trascinatore, coraggioso combattente, ma un illuso, destinato al fallimento. Il suo grande errore fu di pensare che il sistema schiavistico su cui si reggeva l’economia di Roma si potesse abbattere.
I fatti dimostrarono che era un sogno irrealizzabile. E tuttavia la sua avventura, durata due anni, procurò ai Romani parecchi danni e ai loro eserciti migliaia di morti.
I pochi uomini che seguirono Spartaco nella rivolta a Capua diventarono presto un esercito che arrivò a contare fino a 70 mila uomini e che travolse, nella sua marcia verso il nord, decine di legioni.
Dopo avere sbaragliato a Modena l’esercito del proconsole Cassio Longino, invece di proseguire verso le Alpi per cercare fuori d’Italia una comunque improbabile salvezza, ripiegò sorprendentemente verso sud, forse sperando di estendere la rivolta in regioni come la Calabria e la Sicilia dove non era ancora arrivata. Fu un tragico errore.
Sulle sue tracce Roma inviò un esercito di otto legioni al comando di Marco Licinio Crasso, che lo incalzò fino alla punta della Calabria.
Qui Spartaco si mise in contatto con i pirati, che gli promisero le navi per attraversare lo stretto, ma poi non mantennero l’impegno. Costretto a tornare indietro, riuscì a rompere l’assedio di Crasso e a risalire verso nord.
Fu raggiunto nella piana del Sele, dove ebbe luogo la battaglia decisiva. Fu un’ecatombe: 60 mila ribelli caddero sul terreno e fra loro anche Spartaco. I sopravvissuti tentarono di fuggire verso nord ma furono intercettati da Pompeo, che tornava dalla Spagna dove aveva combattuto contro Sertorio. Quelli che non furono trucidati subito vennero crocifissi lungo la via Appia fino a Roma.
Va sottolineato che per porre fine al sogno di libertà innescato da Spartaco dovettero scendere in campo due personaggi di primo piano come Crasso e Pompeo, che con Cesare si sarebbero spartiti il potere a Roma nel primo triunvirato. Davvero troppo perché la generosa illusione di un gladiatore potesse prevalere sul potere costituito.
2. MARIA STUARDA (1542 – 1587) - Regina che collezionava sfortune
Nessuno potrà mai togliere a Maria Stuart, sovrana di Scozia, la sgradita palma di regina più sfortunata della storia.
Ma nessuno può negare che le tante disgrazie che le sono piovute addosso, fino alla tragica morte, sia andata a cercarsele.
Proclamata regina di Scozia all’età di nove mesi, per l’improvvisa morte del padre Giacomo V, minacciata da Enrico VIII d’Inghilterra, che mal tollerava la Scozia fedele al papa, essendo lui il capo della chiesa anglicana in odio al papa di Roma, richiesta dal re francese Enrico II, alleato della Scozia, in moglie per il figlio Francesco, quando questi diventò re lei fu la regina consorte di Francia.
Ma il matrimonio con Francesco, meno maturo, meno istruito, meno intelligente di lei, fu infelice e comunque non durò a lungo per l’improvvisa morte di lui.
A quel punto Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II, ritenne che due vedove al vertice dello stato fossero troppe e ordinò alla nuora di andare in Scozia, dove anche a causa della sua assenza, le cose si mettevano male.
Il parlamento di quel paese, sobillato dalla nuova regina d’Inghilterra Elisabetta Tudor - figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, nonché sua cugina - aveva votato la conversione del paese dalla fede cattolica a quella protestante. La povera Stuarda si trovò così coinvolta nelle guerre di religione che dilaniavano l’Europa.
Osteggiata dalla nobiltà, vista con diffidenza dal suo popolo che la considerava più francese che scozzese, temuta da Elisabetta che la considerava una rivale al trono – già rivendicato per Maria dalla corte francese – poté contare solo sull’appoggio del papa e della cattolicissima Spagna.
Come se la difficile posizione in cui si dibatteva non fosse abbastanza, la regina di Scozia fece di tutto per alienarsi le restanti simpatie della sua gente, con comportamenti troppo liberi e scegliendosi due mariti inaffidabili e inadeguati (il primo, il conte di Leicester Robert Dudley, le era stato suggerito da Elisabetta, che l’aveva avuto come amante e che voleva utilizzarlo per controllare la cugina).
Quando, per farla breve, gli scozzesi ne ebbero abbastanza del suo non governo e la costrinsero ad andarsene, da chi andò a rifugiarsi la povera Maria?
Nientemeno che dalla cugina Elisabetta: l’agnello che chiede protezione al lupo! La regina d’Inghilterra non perse tempo e la mise in carcere.
Ve la tenne per vent’anni, mentre in Europa infuriava la polemica sulla legittimità di quella detenzione che colpiva una regina, soggetta solo, secondo le idee del tempo, al giudizio divino.
Finché la sprovveduta Maria si lasciò coinvolgere in una congiura tesa a eliminare Elisabetta per mettere lei sul trono.
Firmò così la propria condanna a morte, lasciando sul patibolo la testa che doveva indossare la corona d’Inghilterra. Nella foto sotto, Maria Stuarda (a sinistra) e Elisabetta Tudor (a destra).
3. NAPOLEONE BONAPARTE (1769 – 1821) - Grande stratega, ma...
Mettere in discussione l’importanza storica di Napoleone Bonaparte è un’impresa davvero spericolata.
Non si può dare torto a Manzoni che scrisse, magari con un pizzico di retorica, «due secoli, / l’un contro l’altro armato, / sommessi a lui si volsero / come aspettando il fato; / ei fe’ silenzio, ed arbitro / s’assise in mezzo a lor».
Insomma, come mettere in discussione l’uomo che si levò a decidere il destino di due epoche tra loro contrapposte?
Perché non c’è dubbio che il prima e il dopo di Napoleone furono profondamente diversi: con lui finiva l’Europa del potere assoluto e cominciava la stagione della modernità.
Imperatore di Francia dal 1804 al 1814 e poi, per poco tempo, durante i Cento Giorni del 1815, padrone dell’intero continente a parte l’Inghilterra e la Russia, accorto legislatore, coraggioso riformatore dello stato, della scuola, dell’esercito, del calendario, nel ventennio in cui resse il potere produsse tanti cambiamenti che non solo la Francia ma l’intera Europa ne furono rinnovate.
Ma è nel campo militare, quello in cui secondo la tradizione storica colse i successi più luminosi, che si manifestano i limiti e i fallimenti più evidenti.
Anche qui, non si può certo negare che sia stato un grande stratega, il più grande della sua epoca, come dimostrano, giusto per fare qualche esempio, le memorabili battaglie di Marengo e Austerlitz. Ma merita davvero di essere paragonato ad un Alessandro Magno, un Annibale, un Giulio Cesare?
La risposta degli storici è no, e per due buone ragioni. La prima è che le sue vittorie non furono mai risolutive: ognuna di esse innescava una condizione di guerra successiva, contro nuovi nemici, per nuove conquiste, per una inestinguibile sete di potere che lo portò a combattere ininterrottamente e a bagnare di sangue le campagne di tutta Europa.
La seconda fu la sproporzione fra le sue ambizioni e i mezzi per realizzarle. E questa è la vera causa del suo fallimento militare più rovinoso, cioè la campagna di Russia del 1812, che si trasformò in un irrimediabile disastro nonostante qualche vittoria sul campo, come a Borodino dove tuttavia perse 35 mila uomini.
A batterlo non furono i comandanti russi, ma il “generale inverno” che rese difficili i rifornimenti e annientò la sua armata. Durante l’avanzata Napoleone aveva al suo comando più di 400 mila uomini; nella disastrosa ritirata poté contare su meno di 10 mila effettivi.
Il grande stratega aveva sbagliato il calcolo dei rischi e delle risorse a sua disposizione.
4. CHARLES DARWIN 1809 – 1882) - E l’origine della vita?
Charles Darwin scrisse il suo libro più famoso quando aveva esattamente 50 anni. “L’origine delle specie” è un trattato abilmente argomentato, ben scritto e corredato da argomentazioni convincenti e meticolose.
In esso viene formulata la rivoluzionaria teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali, che avvenne per selezione naturale - e non per creazione divina - grazie al prevalere dei caratteri più forti sui più deboli, inevitabilmente destinati a scomparire.
Fu questo processo evolutivo che permise agli appartenenti di una singola specie di diversificarsi e moltiplicarsi, pur discendendo tutti da un comune antenato.
Ma all’interno delle varie specie esiste una selezione naturale, che è una continua lotta per la sopravvivenza tra i vari individui. Alla fine sopravvivono gli individui più adatti, cioè i più capaci di sfruttare le risorse dell’ambiente e a generare più discendenti.
Queste teorie sono alla base della moderna biologia, che riconosce nella selezione naturale il motore dell’evoluzione della vita sulla terra. Le leggi di Mendel sull’ereditarietà dei caratteri e, più di recente, la scoperta del DNA sono altrettante conferme della validità del pensiero di Darwin. Ma...
C’è un ma, che non va cercato nelle bizzarre obiezioni di quanti, fedeli al testo della Bibbia, sono ancora convinti che il mondo sia stato creato da Dio seimila anni fa e che sia destinato a finire il giorno del giudizio universale (in America prosperano migliaia di sette che vanno predicando queste sciocchezze).
No, non sono queste dottrine che possono rimettere in discussione le teorie del geniale naturalista inglese, già condannate come eretiche dalla Chiesa del suo tempo.
L’obiezione di fondo che gli muovono i suoi oppositori, adesso come allora, è di non avere neppure tentato di spiegare come si sia originata la vita, quella stessa che poi si sviluppa e differenzia con il processo evolutivo. Se va scartata la facile risposta biblica della creazione divina, come si è accesa la scintilla che ha provocato la nascita della vita?
Adesso sappiamo - o crediamo di sapere - che tutto è cominciato con il cosiddetto Big Bang, la grande esplosione cosmica che ha dato origine all’universo, ma c’è voluta l’esplorazione dello spazio e la costruzione di telescopi sempre più potenti per arrivare a questa conclusione.
Darwin, gli rimproverano gli scienziati, non si è neppure posto il problema. Come se uno scrittore di gialli scrivesse una meravigliosa e intricatissima storia omettendo il primo capitolo, decisivo per la comprensione del racconto. E poi, gli rimproverano ancora, non ha incluso la specie umana nel suo schema evolutivo.
Ora possiamo anche accettare l’idea di discendere noi uomini dalle scimmie, ma possibile che non ci sia uno stacco, un salto di qualità tra noi e loro (la chiesa cattolica, che oramai accetta la teoria dell’evoluzionismo, sostiene per esempio che l’anima dell’homo sapiens sia diversa da quella dei suoi predecessori).
Insomma, a più di un secolo dalla sua morte, Charles Darwin è ancora soggetto a critiche e obiezioni. E anche ad accuse di plagio.
Per parlare della spietata competizione tra individui per la sopravvivenza, usa un’immagine molto efficace, paragonando il mondo a «un grande mattatoio, una scena universale di avidità e ingiustizia». Ebbene, questa espressione non l’ha creata lui ma suo nonno Erasmo.
5. MALCOLM X (1925 – 1965) - Conversione tardiva
Malcolm X fu l’espressione violenta della stessa lotta per i diritti civili e per l’uguaglianza tra neri e bianchi che portò il pacifista Martin Luther King a ottenere il premio Nobel.
Proprio la profonda differenza sul modo di condurre la stessa battaglia impedì ai due compagni di lotta di intendersi e perfino di stimarsi.
Quando il 28 agosto del 1963 King guidò la grande manifestazione di Washington e infiammò i suoi seguaci con il celebre discorso davanti al Lincoln Memorial in cui proclamava «I have a dream», Malcolm commentò sprezzante che lui non trovava niente di eccitante in una «buffonata fatta da bianchi davanti alla statua di un presidente morto da cento anni e al quale, quando era vivo, noi neri non piacevamo».
La svolta radicale del futuro attivista avvenne negli anni dell’immediato dopoguerra, nel carcere dove era finito per furto e possesso illegale di armi.
Fu qui che entrò in contatto con elementi della Nation of Islam (Noi), una setta islamica che predicava la conversione dei neri alla religione musulmana e auspicava la formazione di una nazione nera autonoma all’interno degli Stati Uniti (il più celebre “convertito” al Noi fu il pugile Cassius Clay, che cambiò il suo nome con quello di Mohammed Alì).
Uscito di prigione, Malcolm si buttò anima e corpo nella campagna di reclutamento in favore della setta. Fu grazie a lui, e alla sua trascinante oratoria, che gli iscritti passarono in una decina di anni da poche centinaia a più di 30 mila. La sua attività finì con l’attirare l’attenzione della Cia, che gli attribuiva «una personalità asociale con tendenze paranoiche».
Se ci fossero stati dubbi sul suo sovversivismo, bastava quella X da lui scelta come cognome, a indicare la mancanza di un vero nome - discendeva infatti da una famiglia di schiavi - e quindi delle sue origini, per non parlare del fatto che in pieno maccartismo si dichiarava pubblicamente comunista.
La sua crescente popolarità suscitò le gelosie dei compagni del Noi, che peraltro lui aveva già messo sotto accusa per fatti di corruzione e per abusi sessuali sulle militanti. Alla fine la separazione fu inevitabile.
Dopo un viaggio alla Mecca, pellegrinaggio obbligatorio per ogni buon musulmano, Malcolm cominciò a predicare un nuovo messaggio che ripudiava la violenza e apriva la speranza ad una vera integrazione sociale non solo in America ma in tutto il mondo.
«Da quando alla Mecca ho trovato la verità», annunciò in un discorso che si può considerare la sua eredità spirituale, «ho accolto fra i miei più cari amici uomini di tutti i tipi, cristiani, ebrei, buddhisti, indù, agnostici e persino atei. Ho amici che si dicono capitalisti, socialisti, comunisti. Alcuni sono moderati, conservatori, estremisti. Alcuni sono addirittura degli “Zio Tom”! Oggi i miei amici sono neri, marrone, rossi, gialli, bianchi».
Era un ripudio totale e clamoroso dell’odio e della violenza. Ma il cattivo seme sparso in passato gli si ritorse contro. Per gli ex compagni del Noi quell’abiura era imperdonabile. Il 21 febbraio del 1965, mentre teneva un discorso pubblico ad Harlem, lo ammazzarono con sette colpi di pistola. Non aveva ancora 40 anni.
Figura tanto affascinante quanto tragica, Malcolm X fu un trascinatore di folle. E tuttavia la sua lotta in favore dei diritti dei neri non ottenne i risultati conseguiti dal rivale Martin Luther King, anche lui destinato, tre anni dopo, a morire assassinato, però da un razzista bianco, non dagli ex compagni di lotta.
Nella foto sotto, Malcom X in compagnia di Martin Luther King, il 26 marzo 1964.