5 esperimenti psicologici immorali

Nonostante la sua immensa intelligenza, l’essere umano è una creatura irrazionale e sconcertante. Le sue emozioni e i comportamenti sono talvolta difficili da prevedere e ancora più da giustifificare, facendo della psicologia un mezzo essenziale per comprendere realmente la sua mente incredibile.

Come in ogni altra scienza, gli psicologi hanno fatto per lungo tempo ricorso a esperimenti controllati per testare le loro ipotesi, ma gli oggetti dei loro test non erano virus o batteri… ma noi.

Oggi, qualora si partecipasse a uno studio universitario di psicologia si verrebbe probabilmente accolti da un giovane ed emozionato laureato con un dettagliato modulo di informazioni sanitarie.

Questi ti accompagnerebbe durante l’intero processo, avvertendoti esplicitamente di qualsiasi disagio possibile, e che anche fosse il più avverso sarebbe comunque minimo.

Gli studi, però, non sono sempre stati così. L’inseguimento della conoscenza, e talvolta della gloria personale, ha spinto i ricercatori a condurre studi insidiosi sui soggetti umani in esame. D’altronde, nei decenni scorsi, la legislazione è stata scarsa nel tenere sotto controllo gli sperimentatori.

Oggi illustreremo cinque esperimenti psicologici immorali e scopriremo cosa accade quando un essere umano si trasforma in un semplice dato agli occhi degli sperimentatori.

1. IL “MONSTER STUDY”

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Wendell Johnson (foto sotto) fu un importante logopedista degli anni Trenta.

Per chi lo conosceva non fu una sorpresa, dal momento che la sua professione nacque da un interesse personale, considerando che aveva sofferto sin dall’infanzia di un disturbo del linguaggio. Egli era convinto che le azioni dei suoi genitori fossero responsabili della sua problematica.

Credeva infatti che mettere in evidenza le difficoltà nel parlare di un bambino lo rendesse eccessivamente consapevole delle proprie parole, fino a sviluppare, nel corso del tempo, un impedimento a vita.

Per provare la sua teoria, nel 1938 Johnson reclutò la studentessa di un master, Mary Tudor, per condurre esperimenti su bambini orfani non consenzienti.

Durante le sue sessioni, Tudor separò i bambini in due gruppi, entrambi contenenti individui con precedenti diagnosi di disturbi del linguaggio e bambini in grado di parlare correttamente.

Un gruppo ricevette solo stimoli positivi in merito al loro linguaggio, l’altro rimproveri e richiami negativi per renderli consapevoli delle loro problematiche.

Lo studio si era posto l’obiettivo di dimostrare come coloro che avevano difficoltà nel linguaggio potessero migliorare nel gruppo positivo, mentre gli impedimenti potessero peggiorare nell’altro. I dati sperimentali non supportarono nessuna delle due ipotesi, mentre in compenso l’eredità dello studio fu il trauma emotivo sofferto dai bambini del gruppo negativo.

Alcuni si ritirarono e divennero incredibilmente silenziosi e consapevoli di loro stessi, facendo sì che i colleghi della Tudor soprannominassero la sua teoria come “esperimento del mostro”.

Lo stesso Johnson commise un altro atto eticamente dubbio, non discutendo il lavoro una volta completato, e decidendo invece di ignorare le prove che chiaramente contraddicevano la sua ipotesi privilegiata.

2. L’ESPERIMENTO DELLA PRIGIONE DI STANFORD

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Le posizioni autorevoli ci compromettono? E con quanta facilità può sfumare la nostra identità individuale?

Domande come queste hanno ispirato uno degli psicologi più controversi a livello mondiale, il dottor Philip Zimbardo (foto sotto), nel costruire una prigione simulata nel seminterrato del dipartimento di psicologia dell’Università di Stanford e a popolarla di giovani innocenti.

L’esperimento della prigione di Stanford divideva casualmente a metà i 18 volontari tra guardie e prigionieri; nei sei giorni successivi si sarebbe trasformato in uno degli studi più assurdi mai condotti.

All’inizio dell’esperimento i “prigionieri” furono arrestati, privati dei loro vestiti e averi, e rinchiusi dietro porte sbarrate.

Alle guardie vennero fornite uniformi e pochissime istruzioni, se non quella di tenere sotto controllo i prigionieri. Non ci volle molto perché alcune delle guardie cominciassero ad apprezzare il loro nuovo ruolo.

Cominciarono con il suonare i fischietti di notte e presto passarono a obbligare i detenuti a fare flessioni come forma di punizione, addirittura a volte con lo stivale di una guardia piantato sulla schiena.

I prigionieri reagirono innescando una ribellione il secondo giorno, ammucchiando i materassi contro le sbarre e rifiutandosi di uscire.

Ma una volta sottomessi di nuovo, le guardie divennero ancora più cattive: tolsero i materassi ai prigionieri, li costrinsero a urinare e a defecare nei secchi, per poi addirittura rinchiuderli nel “buco”, un piccolo e buio ripostiglio per le pulizie (troppo piccolo addirittura per sedersi) per ore e ore.

Diversi prigionieri cominciarono a soffrire di crisi emotive e per questo furono allontanati dallo studio, che si concluse in ogni caso dopo appena sei giorni. La durata prevista era di due settimane, ma dopo che la fidanzata di Zimbardo assistette all’esperimento si espresse contro la sua disumanità.

Secondo Zimbardo, altri 50 testimoni avrebbero assistito all’esperimento prima di lei e nessuno aveva mai sollevato obiezioni.

3. ESPERIMENTO SULL’EFFETTO SPETTATORE

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Il 13 marzo 1964, una giovane donna di nome Kitty Genovese (foto sotto) fu accoltellata a morte mentre camminava verso casa dopo il lavoro, nel Queens (New York).

Il brutale omicidio fu commesso in un quartiere molto popolato e Kitty urlò ripetutamente per ricevere aiuto, ma invano.

È stato riferito che 37 persone udirono i suoi lamenti, ma nessuna di loro intervenne tempestivamente in modo da salvarla.

Gli psicologi hanno descritto questo fenomeno come “effetto spettatore”, secondo il quale siamo più propensi a non agire quando siamo parte di un gruppo. Gli psicologi sociali John Darley e Bibb Latané (foto sotto) decisero allora di condurre un esperimento sulla scia di questo efferato crimine per verifificare la portata dell’effetto spettatore.

Invitarono i partecipanti in uno studio con il pretesto di discutere la loro vita universitaria. Essi erano fisicamente isolati gli uni dagli altri, ma sarebbero poi stati posizionati in gruppi di varie dimensioni per discutere la questione via audio.

All’insaputa dei soggetti in esame, tutti gli altri membri del gruppo erano attori con uno di loro che avrebbe finto un attacco epilettico durante il test.

I ricercatori poterono dunque osservare l’effetto spettatore in piena regola. Se i partecipanti si trovavano da soli con l’attore sofferente quasi sempre cercavano di aiutare.

Ma quando erano invece parte di un gruppo prestavano soccorso un terzo in meno delle volte, lasciando il presunto malato al suo destino.

4. L’ESPERIMENTO DI MILGRAM

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All’indomani della Seconda guerra mondiale, i membri dell’ex Partito Nazista furono processati e difesero la loro efferatezza asserendo che stavano semplicemente eseguendo gli ordini.

Poco più di un decennio dopo uno psicologo di Yale, il dottor Stanley Milgram, divenne sempre più interessato al ruolo dell’autorità e all’obbedienza in relazione ad atti moralmente discutibili.

Così, nel luglio 1961, diede avvio a una serie di esperimenti per verificare quanto lontano potesse giungere l’obbedienza. Il suo esperimento coinvolse tre partecipanti, uno “studente”, un “insegnante” e un “ricercatore”.

Il compito dell’insegnate era interrogare lo studente con domande basate sulla memoria; qualora avesse fallito nel rispondere correttamente lo avrebbe punito con l’elettroshock.

La tensione della scossa sarebbe andata aumentando di volta in volta, partendo da 15v (chiaramente etichettati come sicuri), a 300v (già molto pericolosi), fino a oltre 450v. Se l’insegnate esitava nell’impartire la punizione, l’autoritaria figura del ricercatore era lì appositamente per indurlo a continuare.

Sia il ruolo dell’insegnante che quello dello studente erano supposti per essere assegnati causalmente tra due volontari. In realtà tale assegnazione era solo una farsa, dal momento che il “vero” volontario era solo l’insegnante, mentre per lo studente era stato scelto un attore.

Anche le stesse scariche elettriche erano finte, ma era stato chiesto al finto studente di urlare il più possibile in preda a un’immaginaria agonia.

Nonostante le proteste e i segni di visibile disagio dei volontari, che loro malgrado dovevano sottoporre gli studenti all’elettroshock, più della metà erogò quella che si riteneva essere una scossa di 450v solo perché si trovavano sotto l’istruzione di una figura autoritaria.





5. PROGETTO MKULTRA

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Negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, crebbe la preoccupazione attorno alle segnalazioni secondo le quali Cina e Unione Sovietica stavano sviluppando tecnologie per il controllo mentale da utilizzare sui loro agenti sotto copertura.

Per non essere da meno, gli Stati Uniti cominciarono a somministrare farmaci psico-attivi come mezzi per il controllo mentale, sia su soggetti consenzienti che, a volte, su vittime inconsapevoli.

Parte dell’operazione MKULTRA era il progetto Midnight Climax: prostitute assoldate dalla CIA attiravano uomini ignari e li drogavano di nascosto utilizzando LSD, agente psicoattivo che provoca allucinazioni.

Gli agenti, osservando segretamente dal retro di uno specchio, potevano così analizzare gli effetti che aveva sulla mente di quegli uomini. Sebbene la maggior parte della documentazione del progetto sia andata persa o distrutta, sappiamo per certo che esso determinò almeno un decesso.

Uno scienziato della CIA di nome Frank Olson bevve un drink segretamente addizionato di LSD, e alcuni giorni dopo morì precipitando dalla finestra del suo hotel. Il presidente Gerald Ford pose finalmente fine al futile e sinistro progetto nel 1976, quando si adoperò per limitare i poteri delle agenzie di intelligence operanti negli Stati Uniti.

Nella foto sotto, Sidney Gottlieb, pseudonimo di Joseph Schneider, è stato un chimico statunitense, coinvolto in diverse attività segrete della CIA fra cui il progetto MKULTRA.








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