Capita spesso di leggere delle frasi famose, ossia delle “celebri “esternazioni” e pensieri particolarmente illuminanti di personaggi del passato o del presente, e rendersi conto di aver dimenticato l’origine, il contesto storico ecc.
Frasi celebri di ogni tempo diventate immortali, in quanto rappresentavano la sintesi illuminante di un giudizio ancora inespresso o anche perché interpretavano con grande efficacia certi bisogni collettivi della gente.
Oggi, infatti, scopriremo 5 di queste, considerate tra le frasi più celebri pronunciate nel corso degli anni e per questo ritenute “immortali”.
E per chi è interessato all’argomento, consigliamo il libro “Frasi celebri: dalla Bibbia a Mike Bongiorno” di Alberto Angelucci. Buona lettura.
1. Penso, dunque sono
Forse Auguste Rodin si è ispirato al «Cogito, ergo sum» di Cartesio scolpendo l'imponente figura michelangiolesca del “pensatore”, anche se quel grande bronzo medita da oltre cento anni seduto in una postura inequivocabile: a conferma del fatto che certi spazi sono i più adatti alla riflessione.
René Descartes, insigne filosofo, matematico e (cauto) uomo d'armi francese che visse per vent'anni in Olanda, concepì comunque la sua fondamentale enunciazione filosofica nel 1619, mentre era militare a Neuburg sul Danubio: quando gli si scoprì "come una rivelazione improvvisa e quasi soprannaturale", secondo le sue stesse parole.
Riflettendo sul fatto che tutta la realtà e tutte le cognizioni possano essere false, capì la virtù taumaturgica del dubbio. Di tutto posso dubitare, fuorché di dubitare e cioè di pensare: se penso, dunque, sono.
Si trattava di un'intuizione, più che di un ragionamento: anche se basata su un sillogismo, il famoso meccanismo deduttivo della filosofia scolastica medievale che è sempre dimostrato con quella paroletta magica di «ergo».
E' per esempio un sillogismo tipico quello che viene sempre ricordato: «Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, ergo Socrate è mortale».
Poi modificato da Eugène Ionesco nel “Rinoceronte”, quando un filosofo sbalordito dalla sua stessa audacia, così lo coniuga: «Tutti i gatti sono mortali, Socrate è mortale, dunque Socrate è un gatto»: aprendo nuovi orizzonti per tutti gli animalisti.
Cartesio, dunque, rassicurato dal fatto che la sua vita non fosse un sogno o un'allucinazione, pose questa riflessione alla base del suo pensiero filosofico, facendole dimostrare tutto: dalla realtà del mondo esteriore all'esistenza di Dio.
Si irritò solo leggermente quando qualcuno gli fece notare che un concetto analogo era già stato espresso da Sant'Agostino nei suoi "Soliloqui", dichiarando esplicitamente che non lo aveva mai letto: cosa piuttosto strana, visto che aveva studiato dai gesuiti.
Quella lontana esperienza religiosa gli consigliò tuttavia di tenersi prudentemente lontano da ogni adesione alle teorie di Galileo.
Anzi, per non entrare in urto con la Chiesa, distrusse gli scritti che potevano comprometterlo in questo senso, inventando una locuzione meno nota ma non meno illuminante della precedente: «Bene vixit qui bene latuit», cioè visse bene chi è rimasto ben nascosto.
Ma Cartesio non si limitò a studiare la filosofia. Fu anche infatti un grande matematico che pose le basi della geometria analitica inventando il metodo delle coordinate: ovviamente cartesiane.
Sono quei due assi, uno verticale e uno orizzontale, dentro i quali si può rappresentare qualunque fenomeno per mezzo di una curva basata su punti rappresentativi di grandezze matematiche.
Tutto questo gli valse una tale celebrità che la regina Cristina di Svezia lo invitò a Stoccolma per farsi insegnare la filosofia a domicilio. Descartes morì di polmonite nel febbraio del 1650, a soli cinquantaquattro anni.
2. Il dado è tratto
Cesare non pronunciò certamente queste parole il 10 gennaio del 49 a.C., mentre spingeva il cavallo nelle gelide acque del Rubicone, un fiumiciattolo dalle parti di Rimini che qualcuno ha poi creduto di identificare nel Fiumicino di Savignano o persino nel poco marziale Pisciatello di Cesena.
Ma il suo biografo Svetonio ha ben adattato un vecchio proverbio greco alla situazione, per interpretare il senso ineluttabile di quel piccolo balzo: infatti il Rubicone segnava per legge il confine fra l'Italia e la Gallia Cisalpina e nessuno poteva attraversarlo con le truppe senza l’autorizzazione del Senato romano.
Cesare dava così inizio alla prima marcia su Roma della storia, che aveva qualche analogia con l'ultima (almeno finora) di queste minacciose passeggiate verso la capitale.
Il condottiero giocava da una posizione di forza, derivata dalle conquiste militari della Britannia e della Gallia: soprattutto dalla guerra contro i Galli, conclusa con la cattura del suo antagonista più fiero, Vercingetorige.
Decise quindi che era ora di far fuori Pompeo, rimasto l'unico padrone di Roma dopo la morte di Crasso e le trasferte transalpine del suo concorrente.
Per comprendere meglio la situazione familiare bisogna ricordare che Cesare era al tempo stesso il cognato e il suocero di Pompeo avendone sposata la sorella Cornelia e avendogli poi concesso la mano di sua figlia Giulia. Quindi quella fu forse la prima volta nella storia che un genero illustre si accinse a fare una brutta fine.
Giulio Cesare dunque, magro, eloquente, ben rasato, e con una pronunciata calvizie, era veramente un Dio per i suoi soldati che aveva guidato alla vittoria e che si aspettavano congrue ricompense in tempo di pace.
Pompeo rappresentava invece, sia pure “pro domo sua”, la legalità repubblicana, appoggiato dal Senato ma scarsamente sostenuto dalle sue legioni, che per di più aveva parcheggiato in Spagna per rafforzare la sua immagine di democratico.
Di conseguenza Cesare non ebbe troppe difficoltà a raggiungere Roma, mentre il suo rivale si rifugiava in Grecia seguito da buona parte dei senatori legalitari che iniziarono la tradizione politica dell'Aventino.
Lo braccò quindi in Spagna e in Oriente, fino a sconfiggerlo definitivamente nella battaglia di Farsalo, appena un anno dopo. Pompeo finì poi morto ammazzato in Egitto: cosa così comune a quel tempo che l'evento non fece neanche notizia.
3. Il fine giustifica i mezzi
C'è voluto un poderoso sforzo di sintesi per riassumere tutto il pensiero politico di Niccolò Machiavelli in questa frase proverbiale.
Machiavelli, il cervello più fino del Rinascimento italiano, si sarebbe indignato non poco se avesse potuto leggerla, perché si tratta di un'esemplificazione un po’ troppo elementare della sua costruzione dottrinale.
Lui in realtà, con grande e profetico realismo politico, aveva teorizzato empiricamente l'uso strategico delle cattive azioni per fini di potere: e soprattutto senza domandarsi se quei fini erano giusti o sbagliati. Erano "fini" per qualcuno e tanto basta.
Il problema di Machiavelli è che la maggior parte della gente queste cose le sa (e le pratica) ma non le piace sentirselo dire: di qui la secolare accusa di immoralità appiccicata al diplomatico e scrittore fiorentino.
Machiavelli, nato nel 1469, aveva fatto in tempo a vedere la brutta fine di Fra Girolamo Savonarola: sconsacrato, impiccato e infine bruciato in Piazza della Signoria. E questa esperienza lo fece riflettere sullo scarso successo dei profeti disarmati anche quando hanno ragione.
Per questo prese come modello del "Principe" un esempio di politico ideale, Cesare Borgia, alias duca Valentino: il quale approfittò dei vantaggi derivati dalla brillante carriera del padre, che si era comprato l'elezione a papa col nome di Alessandro VI, per tessere a colpi di pugnale e di veleno le più raffinate trame diplomatiche d'Europa.
Machiavelli lo trasforma in un trattato vivente su come si conquistano, si mantengono e si perdono gli Stati: ovvero dell'arte di governare. Non esiste infatti a suo parere un concetto astratto di legittimità del potere: esistono solo le esigenze di stabilità politica, da raggiungere a qualunque mezzo.
Seguono, in proposito, decine di affettuosi consigli e indicazioni:
- «Un re non deve essere magnanimo, ma furbo come la volpe e feroce come un leone»;
- «Bisogna presupporre che tutti gli uomini siano cattivi»;
- «Bisogna usare la forza, mostrando un'apparenza virtuosa»;
- «Il disarmato ricco è preda del soldato povero»;
- «Non dico mai quello che credo, né credo mai in quello che dico».
Machiavelli, che aveva una vera e propria ammirazione estetica per il potere e le sue astuzie, separò quindi inevitabilmente la morale dalla politica. E dovette anche sentirsi un po' incompreso, a giudicare da quest'ultima riflessione:
«Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu sei».
4. O con lo scudo o sopra lo scudo
Questo, secondo Plutarco, era l'augurio delle madri spartane quando i loro figli partivano per il fronte.
Il che voleva dire: torna con lo scudo in mano, cioè vittorioso, oppure torna sdraiato sul tuo scudo, cioè sicuramente morto.
Ma «la madre del pauroso di solito non piange», obiettava più tardi Cornelio Nepote a nome delle più tenere mamme romane.
Bisogna però considerare che Sparta, era un piccolo Stato circondato da nemici agguerriti, e quindi i cittadini erano abituati fin dall'infanzia a preoccuparsi in primo luogo della loro educazione militare; disdegnando altre occupazioni civili e ignorando del tutto la ricerca del denaro che, per evitare tentazioni, non esisteva nemmeno.
Si racconta che nel 480 a.C., prima della battaglia delle Termopili contro Serse, qualcuno fece notare al comandante spartano Leonida che le soverchianti forze persiane avrebbero oscurato il sole con le oro frecce.
«Vuol dire che combatteremo all'ombra», rispose Leonida, con una battuta che voleva essere anche spiritosa. Infatti gli Spartani «eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti».
Nessuna meraviglia, dunque, se questi guerrieri tornavano (se tornavano) dalla guerra carichi di trofei umani, vantandosi dei morti ammazzati.
E, come sempre accade dopo una battuta di caccia, se non ne ammazzavano abbastanza se li inventavano per vanagloria: lo aveva già notato acutamente Archiloco, poeta greco del sesto secolo avanti Cristo, che anticipando il Miles gloriosus di Plauto così riferisce l'esito di una campagna militare:
«Sette furono gli uccisi e mille furono gli uccisori (sedicenti)».
Fu in quell'epoca che nacque il mito della nobiltà di cadere in combattimento. "Dulce et decorum est pro patria mori", verseggiò anche Orazio che peraltro viveva assai più comodamente dei suoi antenati.
5. Veni, vidi, vici
Ecco un buon esempio di cronaca giornalistica stringata ed essenziale: anche perché si riferisce a una guerra lampo (sul serio) della durata di cinque giorni.
Tanti ne bastarono a Giulio Cesare, dopo la sconfitta di Pompeo, per sbarcare ad Alessandria, battere Farnace, re del Bosforo, e prendersi tutto l'Egitto insediando provvisoriamente sul trono la sua amica Cleopatra Filopatore: o Cleopatra VII, secondo la genealogia, anche se nessuno al mondo si ricorda chi fossero le altre sei.
Secondo Plutarco questo immortale messaggio telegrafico fu spedito ai Romani per mezzo di un fattorino di nome Mazio: che evidentemente non era pagato a righe.
Quando, forse, concepì questa frase, Cesare non si rese ben conto di quello che aveva fatto sul piano letterario.
Ne sarebbe stato ancor più orgoglioso se avesse potuto leggere l’analisi linguistica di Renzo Tosi, nel suo dizionario di sentenze latine e greche: «Il trinomio è particolarmente felice perché riproduce la rapidità grazie alla struttura asindetica accompagnata dall'allitterazione, dall'omeoteleuto e dall'isosillabismo dei tre membri».
Una definizione da far tremare anche il più impavido dei condottieri. Iniziò così un'altra saga familiare, su due generazioni. Cesare aveva una nuova moglie a Roma che,secondo i posteri, era molto fedele e irreprensibile.
La quale, appunto, non gradì affatto questo flirt esotico con la regina d'Egitto, che non considerava neanche troppo bella: anzi fu l'unica cittadina dell'Impero ad accorgersi che aveva il naso un po’ lungo.
Cleopatra comunque non se ne preoccupava molto, essendosi già assicurata gli alimenti dopo la nascita di un bambino, subito chiamato Cesarione in modo che non ci fossero dubbi sulla genuinità della provenienza.
E continuò ad occuparsi affettuosamente della famiglia imperiale, dopo la morte di Cesare, "ereditandone" anche il giovane e ambizioso nipote Marco Antonio (figlio di sua sorella Giulia): fino alla morte procurata da un serpente, che vendicò un suo lontano antenato di tutti i fastidi procurati dalle donne.
Ad ogni modo il fulmineo veni, vidi, vici, sia che si riferisse alla battaglia di Zela contro Farnace, sia che si riferisse alla rapidità del corteggiamento di Cleopatra, viene da sempre considerato come uno degli esempi più felici di composizione retorica.
Lo stesso Giulio Cesare che si dedicò anche alla redazione di trattati sulle teorie linguistiche, spiegava che la base di ogni eloquenza è la scelta delle parole: e che soprattutto bisogna fuggire le parole insolite.