Una volta, non tanto tempo fa, la frutta esotica si associava immediatamente a circostanze eccezionali.
Manghi, papaye e ananas come roba da ricchi e privilegio per pochi, insomma.
Nel quotidiano, invece, l’unica concessione all’esotico per tutti era la banana, quella omologata con il bollino blu, facile da mangiare, da mettere nella cartella per la merenda.
Per capire che le cose sono cambiate – e che di conseguenza debba cambiare il nostro approccio a frutta e verdura del resto del mondo – basta fare un salto ai diversi mercati comunali e in molti altri luoghi di scambio in giro per l’Italia.
Cose dell’altro mondo, cose mai viste sono in rassegna oggi nelle nostre bancarelle, a ricordarci che il pianeta è ben più vasto e ricco di quello che pensiamo e che l’orto del vicino è fertile di prodotti e sapori che vale la pena imparare a conoscere e apprezzare.
Senza contare che molte delle verdure che a buon diritto dichiariamo nostre, in un tempo lontano sono state esotiche, portate da Paesi vicini o da altri continenti, acclimatate a quote e latitudini diverse da quelle della specie d’origine, selezionate per un miglior adattamento al nuovo ambiente e al gusto del popolo ospitante.
Sono state esotiche le patate, il pomodoro, ma anche tutti gli agrumi e le albicocche, le castagne, le melanzane. Oggi hanno pieno diritto di cittadinanza.
Orgogliosi della nostra buona cucina, che riteniamo il vertice a livello planetario, guardiamo con sospetto e con supponenza quella di altri Paesi, senza contare che alle spalle delle cucine etniche ci sono civiltà antiche di millenni. Perché negarsi tanta varietà?
Oggi scopriremo 5 frutti esotici poco conosciuti nel nostro paese e precisamente vi faremo conoscere l’alchechengi, la carambola, la cirimoia o cherimoya, il pomelo e il rocoto.
1. Alchechengi
A sentire il nome (e a vedere il frutto) ci si immagina che sia una pianta tra le più esotiche, oltre alle più strane.
In realtà l’alchechengi (Physalis alkekengi), cresce anche spontaneo in tutti i cinque continenti (in America meridionale si trova una specie simile, Physalis peruviana, pianta dalle molte virtù), e si può coltivare anche alle nostre latitudini, fino a 1.000 m di quota.
Le sue origini non sono certe, ma è diffuso in Asia e in Europa dall’antichità.
In Giappone è un’apprezzata specie ornamentale, tanto che al suo curioso frutto a forma di lanterna (Hōzuki) è dedicata una festa ad Asakusa, uno degli storici quartieri di Tokyo.
Fa parte di quei frutti esotici che appaiono sui nostri banchi del mercato intorno al Natale. Appartiene alla numerosa famiglia delle Solanacee, e il frutto è l’unica parte commestibile della pianta.
Il nome alchechengi è arrivato, attraverso il francese, da una voce araba che significa, appunto, “lanterna cinese”, per la forma - veramente inconsueta - del frutto, che è una bacca di piccole dimensioni, avvolta da una membrana cartacea di colore arancione.
Si considera maturo quando la membrana a forma di lanterna è completamente secca. Di norma gli alchechengi si raccolgono a fine estate e si appendono a testa in giù fino a completa maturazione.
Il colore della bacca, della dimensione di una grossa ciliegia, varia dal giallo verdognolo fino al rosso. È compatto e poco succoso, pieno di piccoli semi commestibili.
A guardarlo bene, si coglie una certa familiarità col pomodoro, altra solanacea di cui si mangia la bacca. Il gusto, non troppo dolce, ricorda quello dei frutti di bosco, con una nota acida che rimanda agli agrumi.
È infatti ricco di vitamina C (ne contiene circa il doppio del limone), ha proprietà diuretiche e depurative, tanto che le bacche essiccate, in infusione, sono ampiamente usate in erboristeria.
L’alchechengi contiene anche molta pectina ed è quindi adatto alla preparazione di marmellate.
Un trattamento a parte merita la specie che arriva dal Sudamerica, Physalis peruviana di origine andina e nota anche con il nome di uciuva.
Era un alimento tradizionale degli incas ed è oggi estesamente coltivato nel continente sudamericano e in Sudafrica, dove è stato introdotto dai coloni già all’inizio del XIX secolo: è noto anche con il nome di ribes del Capo (Cape Gooseberry).
Ha l’involucro leggermente più piccolo, il frutto giallo, ricchissimo di sostanze antiossidanti.
2. Carambola
Mai forma di frutto fu più insolita: la carambola (Averrhoa carambola) è chiamata anche frutto stella (star fruit) perché la sua sezione è, appunto, a forma di stella a cinque punte.
La pianta è originaria delle coste dell’India e dello Sri Lanka e degli arcipelaghi dell’oceano Indiano, ma è ormai coltivata in tutto il Sudest asiatico, in Polinesia e nelle zone tropicali dell’America del Sud, soprattutto in Brasile.
La Malesia è il più grande produttore ed esportatore di questo frutto.
Ne esistono varietà dolci e acide. Queste ultime, non reperibili sui nostri mercati, sono più piccole e più saporite, con un più alto contenuto di acido ossalico (non sono quindi indicate per chi è in dialisi).
In Europa si trova soprattutto come specialità natalizia la carambola dolce, dal bel colore giallo carico, superficie cerosa, e polpa molto succosa e croccante, dal gusto indefinibile: qualcosa che sta a metà strada tra l’uva, l’arancia, la prugna e l’ananas, ma non troppo dolce.
Viene impiegata nelle macedonie esotiche, tagliata a fette per la sua forma accattivante e festosa. Ha varie proprietà terapeutiche, ed è utilizzata nella medicina tradizionale per curare vari malanni, tra cui la tosse, la nausea e il mal di testa.
È ricca di sostanze antiossidanti (fenoli e flavonoidi), di potassio e di vitamina C, mentre è povera di zuccheri. La carambola si mangia tutta, senza sbucciarla. All’interno possono esserci (ma non sempre) fino a 12 semi bruni piatti.
Chi abita in Sicilia può provare a seminarli. L’isola è l’unico posto in Italia dove l’albero della carambola, alto da 5 a 12 metri, riesce a crescere. E se nelle zone tropicali fruttifica tutto l’anno, nelle zone subtropicali e temperate calde, purché protetta, produce a fine estate.
Oltre che nelle macedonie natalizie, la carambola ha anche altri usi. Nei Paesi d’origine il succo acido dei frutti immaturi (o delle varietà più acide) viene utilizzato per condire o marinare cibi; la polpa si può candire, trasformare in marmellata o in chutney, e si adatta quindi sia a ricette dolci, sia in abbinamento con cibi salati, incluse la carne e il pesce.
3. Cirimoia (cherimoya)
Non molto frequente sui nostri mercati , la cirimoia (Annona cherimola) è invece molto apprezzata in America latina, negli Stati Uniti, in Spagna e Israele, dove è coltivata a scopo commerciale.
Ha origine nelle valli delle Ande, ed è un albero sempreverde a rapido accrescimento, a portamento di arbusto, alto fino a 9 metri.
Cresce bene dai 700 metri di altezza fino ai 1.500 alle latitudini subtropicali, ma in Ecuador e Guatemala può vivere bene anche oltre i 2.000 metri.
È stato introdotto con successo in aree che avessero le stessa caratteristiche climatiche: in Spagna è infatti coltivato sulla Sierra Nevada, fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, quando andò a sostituire gli agrumi, più soggetti alle malattie.
In Italia la cirimoia è stata introdotta già nel 1797, a Reggio Calabria, e in quella regione è coltivata con un certo successo tra Gioiosa Ionica e Bagnara Calabra, oltre che in Sicilia.
Nel comune di Reggio Calabria è addirittura un prodotto a denominazione comunale (De.Co.), col nome di Annona di Reggio. Il frutto, reperibile di solito per le feste natalizie (matura a partire da ottobre), è a forma di cuore, delle dimensioni di una mela.
La buccia è verde e vellutata, con un motivo a rilievo che ricorda le squame di una pigna chiusa. All’interno la polpa è bianca, fondente, dolce e acidula insieme, molto succosa.
Annidati nella polpa vi sono semi bruni o neri, lucidi e duri, non commestibili (contengono sostanze molto velenose). Si mangia così com’è, con il cucchiaino. Nei Paesi andini d’origine si condisce anche con un po’ di succo di lime.
Per il suo alto tenore di zuccheri e di proteine, è un frutto nutriente, ricco anche di vitamina C e di minerali, come calcio e potassio.
4. Pomelo
Come tutti gli agrumi il pomelo (Citrus maxima) è originario dell’Estremo Oriente, ed è diffuso in tutta l’Asia subtropicale e tropicale.
È un piccolo albero, in genere spinoso, che ha il suo ambiente d’elezione nelle foreste di pianura, lungo i fiumi.
Ne esistono grandi coltivazioni in Indocina e Cina meridionale, dove il frutto è più apprezzato, e soprattutto in Thailandia, dove si contano decine di varietà pregiate, di cui alcune dolci (a polpa chiara) altre acide (a polpa rosa o rossa).
È stretto parente del pompelmo, che di fatto è un incrocio tra il pomelo e l’arancio. Il frutto però è molto più grande, in genere raggiunge il peso di circa 1 o 2 kg o anche di più, e con un diametro fino a 30 cm.
È vagamente piriforme, con una buccia liscia color verde pallido, e la polpa dal colore che varia dal giallo pallido al rosa o anche al rosso.
L’albedo (cioè la parte bianca della buccia) è molto spesso, ed è commestibile, in genere trasformato in candito. La polpa, dal sapore simile a quella del pompelmo, è acidula e profumata.
Per essere consumati, in genere gli spicchi vengono privati della buccia che li ricopre (spessa e lievemente amara), lasciando esposte le vescicole.
Nei Paesi del Sudest asiatico gli spicchi si aggiungono spesso alle insalate oppure si consumano conditi con zucchero, sale e peperoncino o pepe. Come tutti gli agrumi, sono una importante fonte di vitamina C.
Il pomelo si coltiva con discreto successo anche in California e in Israele, e qualche pianta sporadica si trova come curiosità anche nei giardini mediterranei della Liguria e della Sicilia, dove in genere prende il nome di sciadocco o pampaleone.
I negozi alimentari cinesi sono il luogo dove è più facile trovarli nelle nostre città.
5. Rocoto
È rosso fuoco il colore, anticipazione del fuoco che talvolta può sprigionare questo peperone, parente stretto del peperone dolce e del peperoncino (tutte varietà delle specie Capsicum annuum).
Il rocoto appartiene invece alla specie Capsicum pubescens, che in vari modi si differenzia da questi suoi parenti stretti.
Tipico degli altopiani andini, è il peperone che meglio sopporta i climi freddi e le quote elevate. La pianta tende a essere alta, ad accrescimento veloce e necessita di sostegni come il pomodoro.
Ha fiori di un bel colore viola, mentre il peperone li ha sempre bianchi. Le foglie possono essere anche pelose (mai nel peperone).
Pianta diversa, insomma, e lo si capisce anche aprendo il frutto, che nel rocoto più facilmente reperibile ha forma tonda, dimensione di una mela, ed è quasi privo delle caratteristiche concavità tipiche del nostro peperone quadrato.
I semi sono neri o marrone scuro, piuttosto grandi, ma il profumo è decisamente di peperone, anzi, forse anche più intenso.
È noto come uno dei più piccanti peperoni al mondo, non tanto in termini assoluti (altri peperoncini si posizionano sulla scala di Scoville ben più in alto) ma perché i capsicinoidi contenuti sono qualitativamente diversi, proprio per il fatto che si tratta di un’altra specie.
Intanto, può comunque raggiungere le 100.000 unità Scoville, quando una varietà nostrana di peperoncino, come il calabrese, raggiunge solo le 30.000 unità. C’è tuttavia molta variabilità, e il grado di piccantezza può anche essere appena percettibile. Un peperone a sorpresa, insomma.
Ne esistono innumerevoli cultivar:
- il rocoto manzano, è appunto quello la cui forma ricorda la mela;
- il canario è giallo;
- ne esistono di gialli e di rossi, di forma più allungata, di varia dimensione;
- tutti hanno fiori viola, semi scuri e polpa piuttosto spessa, che li rende molto adatti, specie se di buona dimensione, a essere cucinati ripieni, come nella più celebre ricetta andina, il rocoto relleno (cioè ripieno).