In inglese si usa l’espressione “brain drain”, mentre da noi è ormai comune parlare di “fuga dei cervelli”.
Il fenomeno è comunque lo stesso: il trasferimento all’estero di tante menti brillanti.
In realtà, in diverse occasioni si abusa dell’argomento, anche perché nel mondo moderno, sempre più globalizzato nel bene e nel male, la mobilità e la necessità di confronto sono eventi naturali.
Ciò comunque non significa che non sia necessaria una riflessione in merito a quanto accade all’interno dei confini italici.
Di sicuro deve preoccupare la vera e propria emigrazione a cui stiamo assistendo nel nostro Paese, poiché sono molti i ricercatori che vanno via, mentre risultano pochi gli stranieri affascinati dalle possibilità offerte dalla Penisola.
In questo modo la bilancia pende troppo da un lato e rischia di incrinare le conquiste (in termini di competitività) raggiunte in secoli di storia.
Eppure le potenzialità ci sono e in Italia è doveroso migliorare le strutture e ottenere più risorse per attrarre l’attenzione sia di chi è andato via, sia di chi da fuori osserva la nostra nazione.
La crisi mondiale ormai persistente da anni non aiuta, ma la necessità di invertire la tendenza è evidente, tanto quanto i numeri relativi al fenomeno: i finanziamenti alla ricerca sono i più bassi in Europa e lo Stato destina ad essa appena lo 0,56 per cento del Pil.
Valutando le ultime borse di studio erogate dall’European Research Council (ERC) per sostenere i giovani ricercatori potremmo ritenerci soddisfatti, poiché l’Italia risulta al terzo posto (dopo Germania e Francia) con 43 vincitori.
Un dato incoraggiante, che però non considera il rovescio della medaglia: solo 19 di loro svolge l’attività da noi. Nonostante questo, le affermazioni di tanti connazionali testimoniano l’alta qualità del capitale umano a disposizione.
I nostri scienziati sono molto apprezzati nel mondo, sono capaci di farsi strada lontano da casa e la loro produzione scientifica si attesta ai massimi livelli.
Lo dimostrano gli esempi che seguono, tutti di italiani che all’estero hanno ottenuto un grande successo, regalando lustro al nostro Paese.
Ecco 5 di loro, alla guida di importanti istituzioni internazionali, che ci spiegano cosa stanno studiando e come sono arrivati fino a lì.
1. Napoleone Ferrara: un italiano in odore di Nobel
Tra gli scienziati italiani più famosi al mondo c’è sicuramente Napoleone Ferrara (classe 1956) oggi direttore del Moores Cancer Centre alla University of California di San Diego.
Lo provano le sue ricerche note a livello planetario e anche una speciale classifica pubblicata nel 2014 sull’European Journal of Clinical Investigation che lo ha inserito tra i migliori 400 scienziati in assoluto.
Per raggiungere tali vertici, Ferrara, dopo la laurea in medicina conseguita presso l’Università di Catania (sua città natale), si è trasferito negli USA sfruttando una borsa di studio.
Lo scienziato racconta “oltreoceano, la mia attività di ricerca si è rivelata subito fruttuosa, tanto da spingermi a restare all’estero, anche se inizialmente pensavo di fermarmi solo qualche anno e poi rientrare in Italia”.
Gli studi intrapresi nel nuovo mondo hanno consentito al medico siciliano di intuire l’esistenza di un fattore di crescita delle cellule cancerogene.
“La mia permanenza negli Stati Uniti mi ha permesso di scoprire il VEGF (fattore di crescita dell’endotelio vascolare) e la sua grande importanza nell’angiogenesi (formazione di nuovi vasi sanguigni)”, dice.
“In seguito ho anche sviluppato efficaci terapie anti-VEGF, in grado di curare la degenerazione maculare, la prima causa di cecità nella popolazione anziana”.
Il lavoro di Ferrara è di enorme importanza e negli ultimi quindici anni gli ha consentito di collezionare una serie notevole di riconoscimenti.
In particolare, nel 2010, ha vinto il Lasker Award per la ricerca medica clinica, un premio prestigioso e beneaugurante, poiché diversi scienziati sono stati insigniti del Nobel proprio dopo questo riconoscimento.
Inoltre, Ferrara nel 2013 ha incassato ben tre milioni di dollari per continuare le sue ricerche, grazie al trionfo nel Breakthrough Prize in Life Sciences, il più generoso tra i premi che vengono assegnati agli scienziati.
Ferrara è un cervello italiano che non solo ha fatto onore a se stesso, ma al nostro intero Paese. Nella foto sotto, elaborazione grafica del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF)
2. Pier Francesco Ferrari: come si modifica l'attività cerebrale
Inizia a Parma la carriera di Pier Francesco Ferrari, ma poi si sposta a Lione, in Francia, grazie a una serie di circostanze.
“In passato sono stato invitato per tenere dei seminari presso l’Institut des Sciences Cognitives Marc Jeannerod (ISC) e la direttrice dell’Istituto stesso mi ha chiesto di tornare per illustrare ulteriormente le mie ricerche”, ha raccontato Ferrari.
“A un certo punto mi è stato proposto di sviluppare il mio lavoro da loro e, sebbene avessi un ruolo da professore associato a Parma (con tanta didattica), il trasferimento mi è sembrato inevitabile per raggiungere un livello qualitativo superiore nella mia ricerca.
Perché qui in Francia esistono maggiori opportunità e i finanziamenti governativi e regionali sono proporzionalmente maggiori che in Italia, soprattutto nella ricerca di base.
Così, dopo un concorso, la valutazione delle mie pubblicazioni e del mio progetto, mi sono classificato primo nel settore delle Neuroscienze in tutta la Francia e oggi sono direttore della ricerca presso l’ISC del CNRS di Lione”.
Un salto di qualità che permette allo studioso italiano di svolgere il lavoro che lo appassiona e che si sviluppa su due binari.
“Da un lato, mi occupo di cognizione sociale nell’uomo e nelle scimmie”, precisa Ferrari. “Studio i meccanismi neurali e, in particolare, il ruolo del sistema motorio nella cognizione (come comprendiamo le azioni e le emozioni degli altri, l’empatia e l’imitazione), sia nell’adulto, sia nel neonato durante il periodo di sviluppo.
Analizzo, quindi, come i neonati della nostra specie rispondono agli stimoli sociali, tentando di capire in che modo le prime esperienze siano in grado di modificare l’attività cerebrale.
Un’altra linea di ricerca che porto avanti, invece, si occupa del sistema motorio e delle emozioni in un perimetro circoscritto, quale quello della sindrome di Möbius.
I bambini che, per cause genetiche ignote, nascono con questa malattia, non possono muovere i muscoli deputati alla mimica facciale e sembrano inespressivi (il viso è come congelato).
Si tratta di un problema con conseguenze sul modo di esprimere emozioni e su come ci si mette in relazione con gli altri”.
3. Paola Bovolenta: in Spagna per studiare il sistema nervoso
Paola Bovolenta si laurea in biologia presso l’Università di Firenze e subito dopo si trasferisce negli USA per un dottorato alla New York University School of Medicine.
Ancora negli Stati Uniti prosegue la sua formazione alla Columbia University School of Medicine, per poi tornare in Europa, ma non in Italia, bensì in Spagna.
È a Madrid che ottiene l’incarico di professoressa e diventa Responsabile del Dipartimento di Sviluppo e Rigenerazione del Centro de Biología Molecular Severo Ochoa.
“Da sempre mi affascina comprendere come si forma il sistema nervoso”, dichiara la Bovolenta. “Attualmente il nostro laboratorio sta cercando di identificare, tanto da un punto di vista cellulare quanto molecolare, quali sono i meccanismi che permettono al piccolo gruppo di cellule ben determinate dell’embrione di acquistare le caratteristiche necessarie per formare un organo come l’occhio.
Inoltre, siamo interessati a capire in che modo si stabiliscono le connessioni tra l’occhio e le altre zone del cervello che, nel loro complesso, ci consentono di vedere e interpretare il mondo che ci circonda. Questo ci permetterà di individuare le cause di malattie rare del sistema visivo e mettere a punto delle cure efficaci”.
Un’attività che ha consentito a Paola Bovolenta di entrare a gennaio 2017 nel consiglio scientifico ERC, quell’organo indipendente che dirige il Consiglio europeo della ricerca e che decide come distribuirne i finanziamenti.
Un incarico prestigioso che occuperà la scienziata italiana per 4 anni, ma che non le impedirà di continuare l’attività nel suo laboratorio.
“Le nostre intenzioni per il futuro sono di mantenere le linee di ricerca attuali”, precisa la biologa italiana. “Una parte del nostro team si sta dedicando anche all’Alzheimer. Abbiamo dati interessanti che potrebbero essere di aiuto per capire i meccanismi che fanno progredire la malattia. Sarebbe davvero molto importante”.
Nella foto sotto, le cellule si associano tra loro costituendo delle fibre nervose intercomunicanti.
4. Andrea Musacchio: un biologo alla Max Planck Society
Quella del romano Andrea Musacchio è una carriera portata avanti tra Italia, USA e Germania.
“Dopo la Laurea in Biologia a Roma-Tor Vergata, ho svolto un dottorato di ricerca all’EMBL (European Molecular Biology Laboratory) di Heidelberg, in Germania, e da lì mi sono trasferito alla Harvard Medical School (Boston) per il mio Postdottorato”, racconta Musacchio.
“All’inizio del 1999 ho aperto il mio primo laboratorio all’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano e ci ho lavorato per circa 12 anni, quando la Max Planck Society (Max Planck Gesellschaft, una prestigiosa società scientifica tedesca) mi ha offerto di diventare uno dei suoi Direttori presso il proprio istituto di Dortmund.
Ho accettato questa posizione in parte per il suo prestigio, ma soprattutto perché il principio costitutivo del Max Planck è di finanziare dall’interno i propri scienziati, offrendogli la possibilità di seguire progetti e interessi scientifici liberamente”.
È così che lo scienziato italiano ha cominciato a occuparsi dello studio del meccanismo di divisione delle cellule umane.
“Il mio laboratorio analizza il processo che porta da una cellula madre a due cellule figlie”, spiega Musacchio. “In particolare, ci occupiamo dei processi che permettono ai cromosomi, i vettori dell’informazione genetica, di essere ereditati correttamente dalle cellule figlie.
Perché questo sia possibile, i cromosomi devono interagire con una complessa struttura chiamata ‘fuso mitotico’.
Il nostro scopo è quello di ricostituire in vitro questi processi per capire bene i passaggi che li rendono possibili ed esplorare in dettaglio i meccanismi molecolari della divisione cellulare.
Una delle nostre finalità è comprendere cosa smetta di funzionare quando alcune di queste cellule diventano tumorali”.
Nella foto sotto, le diverse fasi della divisione cellulare.
5. Andrea Ferrari: una magia chiamata grafene
Il grafene, grazie alle sue proprietà uniche (formato da uno strato monoatomico di carbonio, ha la resistenza meccanica del diamante e la flessibilità della plastica), è un materiale con grandi potenzialità per il futuro e Andrea Ferrari lo sa bene già da diversi anni.
È per questo che nel Regno Unito ha costruito il Cambridge Graphene Centre, una struttura di eccellenza che attualmente dirige per studiare questo materiale a base di carbonio destinato a diventare sempre più comune.
“Dopo la laurea in Ingegneria nucleare al Politecnico di Milano, sono arrivato a Cambridge dove ho conseguito il dottorato in Ingegneria elettrica”, spiega Ferrari. “Oggi, oltre a dirigere il centro che ho fondato, ricopro il ruolo di professore di Nanotecnologie sempre dell’Università di Cambridge”.
In circa 20 anni di attività Ferrari ha concentrato la sua attenzione sul carbonio amorfo, sui nanotubi di carbonio, sul diamante e su tutti i materiali affini al grafene (sono oltre 2000).
“Il Cambridge Graphene Centre raduna svariati gruppi di ricerca (sono circa 100 le persone al suo interno) che occupano diversi ambiti di studio”, racconta l’ingegnere italiano.
“D’altronde le applicazioni del grafene sono molteplici e i campi da analizzare diventano altrettanto numerosi. Finora i finanziamenti sono stati consistenti, perché gli investitori hanno capito la rilevanza che può avere questo materiale nell’industria dei prossimi anni.
In futuro il grafene avrà applicazioni in optoelettronica (campo che copre una grande varietà di dispositivi che interagiscono con la luce) in modo complementare all’elettronica e alla fotonica basata sul silicio”.
Una sfida impegnativa, ma che può essere vinta anche grazie all’ambizioso progetto di ricerca “Graphene Flagship”, finanziato dalla Comunità Europea con la cifra di un miliardo di euro e che coinvolge lo stesso Ferrari in qualità di responsabile scientifico e tecnologico, oltre che di Presidente del Management Panel.
Nella foto sotto, modello molecolare del grafene, con una struttura a celle esagonali.