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5 grandi avventurosi che hanno fatto la storia dell’archeologia

L’archeologia è lo studio delle culture umane e arte antica e l’architettura.

Si occupa dello studio di manufatti, dati ambientali e paesaggi, come anche la scoperta di antiche civiltà.

Molte grandi scoperte sono avvenute per caso, per merito di uomini spinti dalla passione e spesso anche dall’ambizione.

E ‘stato grazie al loro lavoro che abbiamo potuto acquisire conoscenze sulla vita nei tempi antichi.

Ecco le loro vite e le loro avventure.

1. Schliemann, il rapace di Troia

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Inseguendo i miti dell’Iliade scoprì i resti di Troia (identificati in Turchia) e quelli di Micene (Grecia) ed entrò nell’Olimpo degli archeologi.

Ma anche in quello dei cacciatori di tesori, e di quelli senza troppi scrupoli.

Heinrich Schliemann (1822-1890) scavando, pur senza avere tutte le carte in regola per farlo, il 31 maggio 1873, a Troia, trovò una serie di oggetti d’oro e d’argento che subito battezzò “tesoro di Priamo”, attribuendoli in modo arbitrario al leggendario sovrano di Troia.

Allo stesso modo, attribuì ad Agamennone una maschera funeraria d’oro trovata a Micene.

Passati due anni, dopo averlo trafugato dalla Turchia in Grecia, offrì il tesoro al governo di Atene, che rifiutò: lo stesso fecero Inghilterra e Francia, finché nel 1880 fu la Germania ad assicurarselo.

Conservato a Berlino fino al 1939, con lo scoppio della guerra fu fatto nascondere da Hitler. Poi dell’oro di Troia si persero le tracce.

Solo nel 1993 l’allora presidente russo Boris Eltsin ammise che si trovava a Mosca.

Nel 1945 era stato consegnato da un funzionario dei musei berlinesi a un alto ufficiale dell’Armata Rossa quando i sovietici erano entrati nella capitale tedesca.

Il tesoro, trattenuto come compensazione per i danni di guerra, è oggi al Museo Puškin di Mosca.

2. Bingham, ossessione Vilcabamba

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Inglese, classe 1875, figlio del primo predicatore protestante sbarcato nelle Hawaii, Hiram Bingham era nato a Honolulu.

Nel 1911 lo ritroviamo sulle Ande, a cercare di districarsi nella giungla.

Il suo sogno era, come quello di tanti europei fin dal tempo dei conquistadores, trovare una città perduta.

Non il mitico regno di El Dorado, bensì Vilcabamba, la città degli Inca.

La sua “caccia al tesoro” non fu un’avventura improvvisata. Alle spalle aveva i finanziamenti della Yale University e della National Geographic Society.

Ma i soldi non resero più facile l’impresa. Bingham cercava Vilcabamba, estremo rifugio di Manco Capac, l’ultimo sovrano incaico che nel 1533 aveva inutilmente tentato di resistere agli spagnoli.

Seguendo le indicazioni di un contadino si inerpicò sulle alture intorno a Cuzco, l’antica capitale del Perù spagnolo.

Il contadino lo portò fino a un gruppo di maestose rovine arroccate tra i monti, a 2.400 metri di altitudine, e disse: “Machu Picchu”, cioè “la grande cima” in lingua quechua.

Bingham esultò: aveva trovato Vilcabamba. O almeno era ancora convinto di averlo fatto quando nel 1956 morì, coperto di gloria e celebrato come un eroe.

In realtà Machu Picchu era qualcosa di diverso, una roccaforte o forse una cittadella sacra con funzioni astronomiche.

La vera Vilcabamba, l’ultima capitale degli Inca, fu scoperta dopo la morte di Bingham, nella zona dove le sue prime ricerche lo avevano condotto, prima di essere “sviato” dalla visione di Machu Picchu.

3. Evans, il “cementificatore” di Cnosso

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Scoprì il palazzo minoico di Cnosso (Creta): l’archeologo inglese Arthur Evans (1851- 1941) esaminò il sito nel 1894.

Cinque anni dopo con i suoi risparmi comprò la terra, per iniziare nel 1900 gli scavi, grazie all’aiuto di centinaia di sterratori.

Ci mise tre anni e portò alla luce il suggestivo palazzo.

Privo di qualsiasi competenza tecnico-scientifica, Evans si dedicò in prima persona anche al restauro del sito.

Adottò infatti tecniche scorrette e bizzarre: ricostruì ampie parti del palazzo in cemento armato.

Dipinse in giallo le zone che nell’antichità erano in legno e sostituì molte opere con copie. Nonostante questi scempi, il suo contributo fu decisivo.

È anche grazie a lui se oggi conosciamo la cultura minoica e la sua scrittura.

Evans identificò infatti anche tavolette scritte in Lineare A e B ancora in uso intorno al 1400 a.C., quando la città di Cnosso fu distrutta, forse da un maremoto.

4. Raimondi, l’esule archeologo

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A volte i destini degli “Indiana Jones” si incrociano.

È il caso di Bingham e dell’italiano Antonio Raimondi.

Se l’americano arrivò a Machu Picchu lo si deve infatti anche a lui. Raimondi era nato a Milano, nel 1826.

Dopo i moti del ’48 fu costretto, come altri connazionali, a rifugiarsi in Sud America. Da esule raggiunse il Perù.

Lo scelse perché da giovane aveva visto abbattere un grande cactus peruviano allo zoo di Milano: da allora decise di dedicarsi allo studio di quella terra remota.

Raimondi era un eclettico: botanico, zoologo, cartografo, etnografo e geologo, fu anche archeologo.

Dilettante più o meno in tutti questi campi, percorse il Perù in lungo e in largo, catalogandone la natura lussureggiante e facendo qualche scoperta archeologica, senza più lasciarlo.

Vi morirà nel 1890, dopo essere diventato, un po’ per i suoi trascorsi libertari, un po’ per i suoi meriti scientifici, consulente del governo peruviano e professore onorario.

Fu proprio durante le sue peregrinazioni che venne a sapere dell’esistenza di Machu Picchu. Provò anche a cercare quel luogo semileggendario, senza raggiungerlo.

Sulle sue carte, però, il luogo era indicato con precisione. Seguendo quelle indicazioni una spedizione francese mancò di un soffio la città perduta degli Inca.

E anche Bingham, che poté studiare le mappe di Raimondi, fu aiutato dal “pioniere” italiano.



5. Carter, nella tomba violata

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Trovarsi davanti alla tomba di Tutankhamon: un sogno che l’inglese Howard Carter (1874-1939) non osava fare.

Fin da giovane aveva dimostrato talento per il disegno e passione per l’archeologia.

Adolescente, fu assistente dell’egittologo Percy Newberry e partecipò a una spedizione nella necropoli di Beni Hasan: doveva ricopiare e catalogare le decorazioni e i geroglifici rinvenuti.

L’impresa lo rese famoso, tanto da diventare ispettore capo del Consiglio supremo delle antichità dal ministero della Cultura egiziano e coordinatore degli scavi a Luxor.

L’anno decisivo fu per lui il 1922. La guerra era ormai conclusa e lui poté dedicarsi agli scavi nella Valle dei Re.

Il 4 novembre di quell’anno i suoi collaboratori rinvennero dei gradini che portavano a un ipogeo.

Carter aprì una breccia e capì che conducevano a una tomba, intatta: il corredo si trovava come era stato lasciato migliaia di anni prima.

Non sapeva fosse quello del faraone Tutankhamon, ma i reperti erano stupefacenti.

Il suo sarcofago lo trovò qualche mese dopo, a fine febbraio del 1923, proseguendo le ricerche in una stanza attigua.

Gli anni seguenti catalogò gli oltre 2.000 reperti rinvenuti e tuttora in mostra al Museo Egizio del Cairo.






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