Molti luoghi dell’Italia antica sono famosi nel mondo e accolgono migliaia di visitatori ogni anno.
Tra le Alpi e il Mediterraneo, però, si nascondono centinaia di mete affascinanti e spesso pressoché sconosciute.
Templi greci e santuari sanniti, strade romane e nuraghi, approdi fenici e incisioni rupestri, piccoli e grandi musei offrono molte sorprese a chi vuole scoprire il passato.
Noi oggi vi offriamo 5 mete nazionali molto affascinanti e importanti (ma poco conosciute) da visitare assolutamente.
Chi, invece, vuole scoprire tantissimi altri posti simili e (perché no!) organizzare un viaggio per esplorarli (non perdete tempo…siamo vicinissimi alle vacanze estive!), vi consigliamo la lettura del libro "101 luoghi archeologici d'Italia dove andare almeno una volta nella vita" di Stefano Ardito. Buona lettura.
1. Oplonti, la vittima sconosciuta del Vesuvio
La più terribile eruzione del Vesuvio non ha sepolto soltanto Ercolano e Pompei.
Le ceneri e i lapilli del 79 d.C., fatali per le due celebri città vesuviane, hanno cancellato anche centri minori, ville agricole, strade, oggi difficili da rintracciare a causa del fittissimo tessuto urbano moderno.
La violenza dell’eruzione e l’intensa presenza di case e strade moderne sono evidenti a Oplonti, un piccolo centro antico che è stato sepolto dal Vesuvio, ha iniziato a tornare alla luce sotto Torre Annunziata al tempo dei Borboni ed è stato scavato in maniera sistematica dal 1964.
Il nome dell’antico insediamento è arrivato fino ai nostri giorni grazie alla Tabula Peutingeriana, una copia del XIII secolo di una antica mappa che raffigurava la rete viaria dell’impero romano. Nella zona di Oplontis, tra Pompei ed Ercolano, sono tornati alla luce la cosiddetta Villa di Poppea, una villa rustica dedita alla produzione di olio e vino e che ha restituito notevoli monili, e uno stabilimento termale a Punta Oncino. Dei tre edifici la Villa di Poppea, scavata tra il 1964 e il 1984, è l’unico aperto al pubblico.
Si tratta di un bell’esempio di complesso residenziale romano, risalente alla metà del secolo I d.C. e poi ampliato, che è probabilmente appartenuto a Poppea Sabina, seconda moglie dell’imperatore Nerone. Se il collegamento tra l’edificio e Poppea è tenue, non c’è dubbio che la villa appartenesse alla famiglia imperiale, che frequentava la costa vesuviana per il suo clima salubre.
L’edificio, tuttora in corso di scavo, è una abitazione dedicata al riposo, in contrapposizione con le ville agricole, che avevano finalità produttive. Dopo la morte di Nerone è passata a un nuovo proprietario, che prima dell’eruzione del 79 d.C. l’ha fatta ristrutturare. L’ingresso offre un bel colpo d’occhio sulla villa, preceduta dal viridarium, un giardino che era probabilmente circondato da platani.
Oltre il complesso antico sono la Circumvesuviana e gli edifici moderni di Torre Annunziata. Superato un portico a colonne si entra in un primo salone, seguito da una cucina, un calidarium, un tepidarium, un piccolo triclinio e un salone. Più avanti si entra nell’atrium, l’ingresso principale della villa, aperto verso la strada e il mare, che ha al centro una vasca di raccolta dell’acqua piovana ed è decorato da affreschi. Tra l’atrium e il primo salone vi è un porticato con colonne bianche e pareti rosse.
Più avanti sono il larario, dov’erano collocate le immagini delle divinità protettrici della famiglia, e un peristilio circondato da locali utilizzati dalla servitù. Un lungo corridoio con stucchi e affreschi, e un altro grande viridarium affiancato da tre porticati nel quale sono stati piantati degli alberi di alloro, conducono alla piscina.
Questa, lunga ben 61 metri, era affiancata da un lato da un colonnato e dall’altro da fitta vegetazione, in mezzo alla quale comparivano copie in marmo di statue greche. Sul lato ovest della piscina sono degli hospitalia (camere per gli ospiti) e un piccolo viridarium le cui piante sono state bruciate dall’eruzione del Vesuvio. Gli affreschi che ne decorano le pareti fanno rivivere, a quasi venti secoli di distanza, quella vegetazione esotica e perfettamente curata.
2. Grotta del Romito, il capolavoro della preistoria
Uno dei capolavori della Preistoria europea impreziosisce le rocce della Valle del Lao, il fiume che scende dagli altopiani del Pollino verso la costa del Tirreno.
Aperta ai piedi di una rupe calcarea a poca distanza dal fiume, una piccola grotta ha ospitato per secoli una comunità preistorica.
È stato uno straordinario artista del Paleolitico (circa 12.000 anni fa) a scolpire su un masso la figura di un Bos primigenius, una delle prede più ambite per quei tenaci cacciatori che affidavano la loro sopravvivenza a misere armi di legno e selce.
La Grotta del Romito è divisa in due parti. La caverna vera e propria, profonda una ventina di metri, e un riparo poco profondo protetto da uno strapiombo roccioso. L’Uomo di Cro-Magnon e poi l’Homo sapiens hanno abitato per millenni la grotta, lasciando numerose testimonianze del loro passaggio.
Oltre al graffito, gli archeologi hanno riportato alla luce strumenti litici e ossei, e i resti di alcuni scheletri. L’analisi al carbonio 14 ha datato gli oggetti del Neolitico intorno al 4.470 a.C. Risalgono a quest’epoca dei cocci di ceramica e molti frammenti di ossidiana, la tagliente pietra di origine vulcanica utilizzata per plasmare lame e raschiatoi, che arrivava in Calabria dalle isole Eolie.
Gli strati del Paleolitico superiore, i più antichi ai quali si sia riusciti a dare una data, risalgono circa al 16.800 a.C. L’artista del Bos primigenius del Romito era un Uomo di Cro-Magnon, che come i suoi simili non conosceva l’allevamento, la lavorazione della ceramica o l’agricoltura, ma sopravviveva grazie alla caccia e alla raccolta di piante spontanee.
La figura dell’animale, lunga 120 centimetri, è incisa su un masso di quasi due metri e mezzo di larghezza. Il disegno, di proporzioni perfette, è stato eseguito da una mano esperta. Oltre alle corna, sono stati raffigurati con precisione particolari come le narici, la bocca, l’occhio (che è appena accennato) e l’orecchio. Si vedono le pieghe del collo, e sono disegnati con precisione gli zoccoli.
Una linea attraversa l’animale in corrispondenza delle reni. Sotto al Bos primigenius è stata incisa, in maniera molto più superficiale, un’altra figura di bovide, del quale compaiono solo il petto, la testa e una parte della schiena. Su un altro masso spiccano dei segni lineari che non si è riusciti a decifrare.
Nella grotta sono state sistemate le riproduzioni di due sepolture del X millennio a.C., ognuna delle quali conteneva due scheletri. Due degli scheletri sono conservati nel Museo Archeologico di Reggio Calabria, altri sono esposti nel Museo Fiorentino di Preistoria, insieme a circa 300 schegge di pietra rinvenute nel riparo e nella grotta. Una terza coppia, la cui tomba non è stata ricostruita, è ancora oggetto di studio da parte degli archeologi fiorentini.
Scavi recenti hanno portato alla luce una quarta sepoltura, ancora più antica delle precedenti. A poca distanza dalla grotta merita una sosta Papasidero, l’antica Scidro, dove le chiese di San Costantino e della Madonna di Costantinopoli conservano affreschi in stile bizantino.
Un lungo sentiero (tre ore, più altrettante al ritorno) consente di arrivare a piedi dal paese fino alla grotta.
3. Isola di Mozia, la Sicilia Fenicia
La Sicilia dei fenici offre dei paesaggi molto vari. L’estremità occidentale dell’isola, protesa verso il settore del Mediterraneo dove s’incrociavano le rotte da e per Cartagine, l’Etruria e le città della Magna Grecia della Sicilia, della Penisola e della Francia, è sorvegliata dalle rocce di Erice, una montagna affacciata sul mare dove i fenici veneravano Astarte, i greci Afrodite e i romani Venere.
Ai suoi piedi, un promontorio delimitato da una distesa scintillante di saline ospita Trapani, la Drepanon degli antichi, che era uno degli approdi più importanti per le navi da guerra che arrivavano da Tiro e Sidone. La stessa funzione, trenta chilometri più a sud, era svolta dal Capo Lilibeo, l’odierna Marsala, che per un contrappasso della storia divenne più tardi il principale porto di Roma nelle guerre contro Cartagine.
Al largo, si alzano i profili rocciosi delle Egadi: Favignana, Levanzo, l’aspra e montuosa Marettimo. Mozia, la più importante città fenicia della Sicilia, sorgeva invece sulla piatta isola di San Pantaleo, al centro della laguna dello Stagnone. Nata nell’VIII secolo, diventata un fiorente emporio commerciale, è stata distrutta nel 397 a.C. dalle truppe di Dionisio II, tiranno di Siracusa.
Anche se il sito è noto già nel Seicento, Mozia è una delle ultime città antiche della Sicilia a essere esplorata dagli archeologi. Il primo ritrovamento, una stele con un’iscrizione riferita a “Matar il Vasaio”, torna alla luce nel 1779; scavi senza particolari risultati si svolgono poco dopo l’Unità d’Italia. Anche Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, sosta a Mozia. La mancanza di edifici monumentali, però, lo fa ripartire deluso.
Il merito dell’esplorazione sistematica di Mozia spetta a Joseph (italianizzato in Giuseppe) Whitaker, membro di una delle ricche famiglie britanniche insediate a Marsala per il commercio del vino. Tra il 1906 e il 1927 questo appassionato archeologo dilettante esplora a fondo la città, riportando alla luce gli edifici antichi, le mura e numerose opere d’arte. L’archeologia ufficiale sbarca a Mozia solo nel secondo dopoguerra, con una serie di missioni prima inglesi e poi italiane.
Nel VI secolo a.C. Mozia era collegata alla costa da un terrapieno accessibile ai pedoni e ai carri; oggi dev’essere raggiunta in battello. Le rovine, non sempre di facile lettura, la occupano quasi per intero e offrono una piacevole passeggiata. Dalla Casa dei Mosaici, vicina all’imbarcadero, si raggiungono un tratto ben conservato delle mura, una grande scalinata e la necropoli utilizzata dall’VIII al VI secolo con le sue tombe a pozzetto scavate nella roccia.
Traversata l’area sacra del Cappidazzu, utilizzata anche durante la dominazione araba, si raggiunge il tophet, il santuario fenicio dove si praticavano anche sacrifici di bambini. Nel piccolo ma affascinante museo allestito da Whitaker si possono ammirare stele in pietra con raffigurazioni antropomorfe e simboliche, armi in bronzo e in ferro e splendide maschere femminili in terracotta.
Molti reperti testimoniano dei rapporti commerciali tra i fenici di Mozia e i greci delle vicine colonie. Una scultura in pietra calcarea con due leoni che attaccano un toro è una delle testimonianze più preziose dell’arte fenicia. Ha origine greca, invece, la statua marmorea del Giovane di Mozia, del V secolo a.C., scoperta nel 1979.
Non è possibile, però, sapere se si tratta di una preda di guerra o di un’opera commissionata da un cittadino di Mozia a un artista greco.
4. Ostia antica, il porto di Roma
Oggi il litorale di Roma è molto diverso da duemila anni fa. Ostia, rinata negli anni Trenta come località balneare, è oggi un affollato quartiere con quasi 100.000 abitanti, che raddoppiano se si includono i centri vicini.
In estate si aggiungono loro decine di migliaia di bagnanti e i frequentatori dei locali della “movida” notturna. Più a nord, oltre l’Isola Sacra, la foce del Tevere e i suoi cantieri specializzati in barche da diporto, è l’aeroporto di Fiumicino. Dai finestrini degli aerei che scendono verso le sue piste da sud, lo sguardo spazia su una straordinaria città antica. La foce (ostium) del Tevere è servita come approdo per Roma fin dai suoi primi anni.
Mentre le navi più leggere risalivano il fiume fino all’Isola Tiberina, quelle più grandi gettavano l’ancora alla foce. Le prime strutture portuali risalgono al IV secolo a.C., l’epoca del re Anco Marzio. Di un ampliamento si inizia a parlare al tempo di Giulio Cesare. È l’imperatore Claudio a far costruire dal 42 d.C. un nuovo porto, collegato al Tevere da un canale. Lo protegge una diga di 700 metri, su cui sorge un faro analogo a quello di Alessandria d’Egitto.
I lavori durano vent’anni e vedono all’opera 30.000 operai. Il porto viene inaugurato da Nerone, e la vicina città cresce fino a circa 75.000 abitanti. Passano altri quarant’anni, il traffico aumenta ancora e Traiano, su progetto di Apollodoro di Damasco, fa costruire un nuovo porto esagonale, collegato al mare aperto da un canale. Anche questo bacino si vede bene dall’aereo. La caduta dell’impero segna l’abbandono di Ostia.
Qui, nell’848, l’esercito di papa Leone IV mette in rotta i saraceni. Nel Medioevo le navi risalgono il Tevere per attraccare a Ripa Grande, accanto a Porta Portese; più tardi si sviluppano i porti di Civitavecchia e di Anzio. Ostia rimane abbandonata, e la campagna tra la città e il Tirreno ridiventa paludosa. Fitte foreste di querce ospitano le battute di caccia dei nobili e dei papi.
Solo alla fine del Quattrocento papa Giulio II fa costruire un castello accanto ai resti di Ostia Antica. La bonifica della campagna romana viene avviata nel 1884 e conclusa negli anni Trenta, quando la ricerca di nuove terre agricole si sposta verso le paludi pontine. È il Castello di Giulio II, costruito tra il 1483 e il 1486, ad accogliere oggi i visitatori degli scavi.
Superata la Porta Romana si segue il decumano massimo, che conserva il suo basolato antico, fino alle Terme di Nettuno e al teatro, costruito ai tempi di Agrippa, restaurato sotto Settimio Severo e Caracalla e utilizzato per spettacoli anche oggi.
Di fronte si apre il piazzale delle Corporazioni, che ospitava rappresentanze commerciali di tutto il mondo romano, da Cagliari ad Alessandria e da Narbona a Cartagine. I mosaici del pavimento raffigurano navi, marinai, pescatori e animali.
Non lontano dal teatro è il Mitreo, uno dei diciotto santuari di Ostia dedicati a questa divinità orientale. Più avanti il decumano sbocca nella piazza del Foro, sul quale si affacciano il Capitolium (il Tempio della Triade Capitolina), la basilica, il Tempio di Roma e Augusto e le imponenti Terme del Foro, del II secolo d.C. e ampliate due secoli dopo.
Passeggiando sulle antiche vie cittadine si raggiunge il Museo Ostiense, con le sue raccolte di statue, sarcofagi e frammenti architettonici provenienti dagli scavi. Tra i suoi capolavori la cosiddetta Venere marina, grandi statue di origine greca o ellenistica come l’Eros che incorda l’arco, opera di Lisippo, e affreschi provenienti da Ostia Antica o dalla necropoli dell’Isola Sacra.
Intorno alla Porta Marina sono delle abitazioni ben conservate, il Tempio di Ercole e le Terme dei Sette Sapienti con uno splendido pavimento a mosaico. Fuori dalle mura sono la necropoli, in uso dal II secolo a.C., e la Sinagoga di Ostia, la più antica rinvenuta in Europa. Oltre al dio-toro Mitra, le navi che approdavano a Ostia hanno portato a Roma il dio degli ebrei e dei cristiani.
5. Pitigliano e Sovana, tombe Etrusche e "vie cave"
“Una strada che scende e sale nei burroni, lunga quasi tre miglia". Così George Dennis, console britannico a Roma e grande appassionato dell’Etruria, descriveva nel 1844 la strada etrusca che va da Pitigliano a Sovana attraverso una serie di canyon artificiali nel tufo, le “vie cave”.
Abbandonata dopo la costruzione della carrozzabile, l’antica strada è stata ripulita di recente dai rovi e segnalata da cartelli. Si lascia Pitigliano per la Porta di Sovana, si attraversa la via Cava di Poggio Cani, si supera un ponte sul Lente, si risale per la via Cava dell’Annunziata, poi si traversa il Piano Conati in direzione del monte Amiata.
Un altro tracciato scavato nel tufo scende al fosso del Puzzone, lo supera su un ponte antico e risale al pianoro delle Chiuse. Poi una stradina porta a Sovana. Nell’angolo più meridionale della Toscana, sul confine con la Tuscia Viterbese, più vicine al lago di Bolsena che alle spiagge dell’Argentario e Capalbio, Pitigliano e Sovana sorgono in una zona ricca di boschi di querce e di canyon incisi nel tufo.
Frequentato fin dalla Preistoria, come dimostrano i villaggi del Roppozzo e della Nova, appena al di là del confine con il Lazio, questo angolo speciale della Maremma ha visto sorgere dall’VIII secolo a.C. dei centri etruschi che dovevano la loro prosperità all’agricoltura, alle miniere e alla posizione sulla via Clodia.
Suana, oggi Sovana, come testimoniano le ricche tombe dei dintorni, era uno dei centri più importanti. Le si affiancava Statonia, città etrusca forse distrutta da Porsenna re di Chiusi, le cui tombe compaiono nei valloni intorno al Poggio Buco. Un altro insediamento etrusco sorgeva sulla rupe di Pitigliano, abitata fin dal Neolitico (VI millennio a.C.). Accanto alla Porta di Sovana restano imponenti resti delle fortificazioni etrusche.
Oggi Pitigliano e Sovana hanno aspetto medievale. La prima è dominata dal Palazzo Orsini, sistemato nel Cinquecento da Antonio da Sangallo e che ospita il Museo Diocesano e il Museo Civico della Civiltà Etrusca. Una sinagoga testimonia che qui, nel Cinquecento, si insediarono gli ebrei allontanati dallo Stato della Chiesa. A Sovana, sorvegliata dalla Rocca Aldobrandesca, spiccano la Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, il Palazzo Pretorio e il seicentesco Palazzo Bourbon del Monte.
Tra Sovana e la Fiora, tra fitti boschi di querce, compaiono tombe etrusche di eccezionale fascino. La più spettacolare, grazie a un portico con colonne scavate nella roccia, è la Tomba Ildebranda, attribuita dalla fantasia popolare a Ildebrando di Sovana, papa Gregorio VII, il più illustre personaggio della storia locale.
In realtà la sepoltura, del III secolo a.C., risale a quindici secoli prima del papa, nato nel 1020, e ospitava i resti di un sovrano etrusco. Aveva struttura analoga la Tomba Pola, della quale resta solo una colonna. La Tomba del
Tifone, del II secolo a.C., deve il suo nome al frontone in cui campeggia una testa umana.
Nella via cava del Cavone, tra le tombe a camera, appare una croce uncinata, simbolo del sole e della vita. Tra le sepolture a semidado, analoghe a quelle del Viterbese, spiccano la Tomba Folonia e la Tomba del Sileno, che deve il nome al ritrovamento di una testa barbuta.
Completa l’elenco la Tomba della Sirena, nella necropoli di Sopraripa. A farla battezzare così è stato il rilievo di una sirena a due code, probabilmente una divinità marina, affiancata da due geni alati. Ai lati dell’ingresso, vegliavano sul defunto due divinità infernali. Avevano la stessa funzione i rilievi della Tomba dei Demoni Alati, scoperta solo nel 2004.