Mantenersi in buona salute è un obiettivo condiviso dalla maggior parte della popolazione, oggi come in passato.
Nel corso della storia, gli esseri umani hanno cercato di combattere le malattie, lenire il dolore e allontanare la morte.
La storia della medicina ci lega alle esperienze dei nostri predecessori, che a volte sono grandi scoperte e a volte ci fanno sorridere.
Oggi abbiamo raccolto sette incredibili curiosità estratte dalla storia lunga – e a volte sconvolgente – della medicina. Ecco un piccolo assaggio…
1. I primi dottori di cui si conosce il nome erano delle donne e l’Albero della Vita che curò lo scorbuto
- I primi dottori di cui si conosce il nome erano delle donne
Saqqara (foto a sinistra) è un immenso sito archeologico a sud del Cairo.
Cinquemila anni fa era la necropoli dell’antica città egizia di Menfi e lì si trova uno degli edifici più antichi al mondo, la piramide a terrazze di Djoser.
Una tomba vicina presenta l’immagine di Merit Ptah, la prima dottoressa di cui conosciamo il nome. Visse intorno al 2700 a.C. e il geroglifico sulla sua tomba la descrive come “capo medico”.
È praticamente tutto quel che sappiamo di lei, ma l’iscrizione svela che era possibile per le donne arrivare ad avere un ruolo di primo piano nell’antico mondo medico egiziano.
Circa 200 anni dopo, Peseshet, un’altra dottoressa, fu immortalata nella tomba di suo figlio Akhet-Hetep, un alto sacerdote.
Peseshet aveva il titolo di “supervisore delle dottoresse donne”, suggerendo che le dottoresse non fossero una scelta occasionale. Peseshet era un medico o forse la direttrice responsabile dell’addestramento e dell’organizzazione delle allieve.
Anche se il tempo e la difficoltà d’interpretazione rende difficile ricostruire il lavoro di tutti i giorni di Merit Ptah e di Peseshet, i medici donna sembrano essere stati membri rispettati nella società dell’antico Egitto.
Nella foto sotto, Merit Ptah, la prima dottoressa di cui conosciamo il nome!
- L’Albero della Vita che curò lo scorbuto
Canada, 1536. Le navi di Jacques Cartier erano bloccate nel ghiaccio vicino a Stadacona (oggi Québec City).
L’equipaggio, raccolto in un forte costruito alla meglio, senza cibo fresco, rimase vittima di una malattia orribile:“le bocche marcivano, le gengive si ritraevano e i denti cadevano”.
Era lo scorbuto. Oggi si sa che dipende dalla mancanza di vitamina C, ma all’epoca nessuno sapeva cosa fosse.
Nel corso del suo primo viaggio a Stadacona, nel 1534, Cartier aveva rapito due giovani nativi, Domagaya e Taignoagny, portandoli in Francia come prova della scoperta di una nuova terra.
Ora che erano tornati le varie tribù non si fidavano di lui, ma malgrado queste tensioni, Domagaya mostrò a Cartier come preparare un decotto da un albero chiamato Annedda.
I francesi all’inizio credettero fosse una mossa per avvelenarli, ma un paio di loro lo provarono e in pochi giorni guarirono. A questo punto, ci fu una tale frenesia per questa cura miracolosa che i marinai “erano pronti a uccidersi a vicenda”.
Che albero fosse non si è mai saputo con certezza, forse un Cedro bianco orientale o un Abete bianco. Comunque, a prescindere da che albero fosse, i marinai guarirono tutti. Cartier ripagò Domagaya rapendolo di nuovo, assieme ad altri nove indigeni.
Quando tornò in Canada, nel 1541, la maggior parte degli indigeni rapiti era morta, anche se Cartier raccontò ai parenti che vivevano in Francia, negli agi e nel lusso. Questa cura non prese mai piede e lo scorbuto continuò a mietere vittime tra i marinai per oltre 200 anni.
Nella foto sotto, l’abete bianco. Forse fu questo l’albero che curò lo scorbuto che aveva colpito l’equipaggio di Jacques Cartier.
2. Un’operazione di cataratta
Uno dei testi medici più antichi è il Sushruta Samhita, scritto in sanscrito e diffuso in India (foto sotto).
La data precisa della sua redazione è ipotetica, perché non se ne conoscono manoscritti originali, ma solo copie più tarde.
L’opinione generale, però, è che sia stato scritto attorno al 600 a.C.. Probabilmente Sushruta era un medico e un insegnante che operava nella città di Benares nel nord dell’India (ora Varanasi, nello stato dell’Uttar Pradesh).
Il suo Samhita – compendio di conoscenze – fornisce informazioni dettagliate di medicina, chirurgia, farmacologia e gestione dei pazienti.
Sushruta consiglia i suoi studenti che, per quanto possano aver studiato, in realtà finché non avranno avuto esperienze pratiche non saranno in grado di curare i loro pazienti.
Le incisioni chirurgiche vanno provate sulla buccia dei frutti e l’esercizio di estrarre semi dalla polpa dei frutti aiuterà gli studenti a far pratica per rimuovere corpi estranei dalla carne.
I suoi studenti dovevano esercitarsi anche su animali morti e sacchi di pelle ripieni di acqua, prima di poter mettere le mani sui veri pazienti. Tra le molte procedure chirurgiche descritte nel Sushruta Samhita, si trova la chirurgia della cataratta.
Il paziente doveva fissare la punta del proprio naso, mentre il chirurgo, tenendogli le palpebre spalancate con pollice e indice, usava uno strumento sottile come un ago per fendere il globo oculare da un lato.
Nell’incisione veniva colato latte umano e l’esterno dell’occhio veniva bagnato con una medicazione a base di erbe. Il chirurgo usava lo strumento ad ago per grattate il cristallino offuscato finché l’occhio non “assumeva la trasparenza di un cielo splendente e senza nuvole”.
Durante la convalescenza, era importante che il paziente non tossisse, starnutisse, ruttasse o facesse altri movimenti bruschi che potevano aumentare pericolosamente la pressione nell’occhio. Se l’operazione aveva successo, il paziente avrebbe riottenuto la vista, anche se un po’ sfocata.
3. L’anestesia totale nella chirurgia anticancro in Giappone agli inizi del XIX secolo
Nel 1804 Kan Aiya aveva 60 anni e aveva perso molte persone che amava a causa del cancro al seno.
Le sue sorelle erano morte per questo male crudele, per cui quando il tumore toccò anche lei alla mammella sinistra, sapeva che stava rischiando la vita.
Ma per lei c’era una possibilità, un’operazione. E lei si trovava nel miglior luogo possibile per quel genere di intervento: il Giappone. Seishu Hanaoka (1760-1835) aveva studiato medicina a Kyoto e aveva uno studio nella sua città natale di Hirayama.
Si era interessato all’idea dell’anestesia, avendo letto storie di un farmaco sviluppato tra la fine del II secolo e l’inizio del III da un chirurgo cinese, Hua T’o, che permetteva ai pazienti di dormire evitando di soffrire.
Hanaoka sperimentò una formula simile e realizzò la mafutsusan, un potente anestetico. Tra i vari ingredienti vegetali, conteneva la Tromba del diavolo (Datura Metel o Datura alba), Aconito e Angelica, tutti e tre contenenti sostante psicotrope.
Il mafutsusan era molto forte. Se se ne assumeva una dose senza controllo, si rischiava di morire, ma se somministrato con il corretto dosaggio, rendeva il paziente inconscio dalle sei alle 24 ore, dando così al chirurgo il tempo per operare.
Il 13 ottobre del 1804, Hanaoka operò il tumore di Ken Aiya mentre lei era sotto l’effetto dell’anestesia totale. In seguito, con questa tecnica, Hanaoka effettuò almeno altre 150 operazioni, su diversi tipi di pazienti.
Per quello che riguarda Kan Aiya, si pensa sia poi morta di cancro l’anno seguente, ma almeno le fu risparmiata l’agonia che nello stesso periodo era la norma nella chirurgia occidentale.
Nella foto sotto, Seishu Hanaoka opera un paziente anestetizzato in un’illustrazione dei primi anni del XIX secolo.
4. La mummia come medicina e la mania delle sanguisughe
- La mummia ritorna... come medicina
“Il liquido dei morti” è una sostanza descritta nei testi di un traduttore del XIII secolo, Gerard de Sabloneta.
Si tratta di una sostanza simile al bitume che trasuda dai corpi imbalsamati. Questo liquido divenne popolare come farmaco per i graffi e le perdite di sangue.
Nei testi medici greci e romani si parlava di un particolare tipo di bitume chiamato pissasphalt. In seguito fu scoperta, vicino a Darabjerd, in Persia, una versione particolarmente ricercata di questo medicamento, che era chiamato con la parola locale mumiya, che ne descriveva la consistenza cerosa.
Altre notizie furono raccolte nei testi medievali persiani e arabi, ma quando arrivarono in Europa, qualcosa si perse nella traduzione.
Influenzati dalla credenza che gli antichi egizi usassero il bitume nell’imbalsamazione, i medici iniziarono a vedere le mummie come fonte alternativa della medicina, che era stata ribattezzata mumia.
I mercanti che operavano vicino agli antichi sepolcri egiziani fiutarono l’affare e la carne essiccata divenne un sostituto della sostanza essudata.
Ai primi del XVI secolo, gli standard erano scesi talmente in basso che ciò che era venduto come mumia poteva provenire da un cadavere qualsiasi. Era un mercato disgustoso, per un farmaco che non serviva a nulla.
La sua popolarità declinò negli anni successivi anche se, sporadicamente, la mumia fu ancora utilizzata addirittura fino al XX secolo.
- La mania delle sanguisughe nell’Europa del XIX secolo
Le sanguisughe sono state usate in medicina per migliaia di anni e anche oggi servono a ripristinare la circolazione venosa dopo un intervento di chirurgia ricostruttiva. Ma fu solo agli inizi del XIX secolo che andarono davvero di moda.
L’artefice di questa popolarità fu il medico francese François Joseph Victor Broussais (1772-1838), la cui tesi era che tutte le malattie derivassero da infiammazioni locali e che potessero essere curate con i salassi.
La “mania delle sanguisughe” vide barili e barili di queste creature spedite via nave in giro per il globo, la popolazione delle sanguisughe selvatiche fu quasi estinta e per questo nacquero allevamenti specifici.
Le sanguisughe offrivano chiari vantaggi rispetto alla pratica di salassare usando lame o bisturi. La perdita di sangue era più graduale e lo shock per chi aveva una costituzione delicata era minore.
Siccome i seguaci di Broussais usavano le sanguisughe al posto degli altri rimedi, ai pazienti erano risparmiate cure a volte talmente crude che li facevano stare anche peggio.
Nel 1922, un chirurgo britannico chiamato Rees Price coniò il termine sangui-suzione per la terapia a base di sanguisughe.
Nella foto sotto, François Joseph Victor Broussais ordina a una suora infermiera di continuare a salassare il paziente, in una litografia dei primi del XIX secolo.
5. La tecnica del parto cesareo fu sviluppata da chirurghi ugandesi
Nel 1884, il parto cesareo non era una novità. Risaliva al tempo dei cesari, quando la legge romana prescriveva la procedura nel caso di una donna morta di parto.
Nel corso dei secoli, occasionalmente si sentirono esempi di parti cesarei usati per salvare la vita sia della madre che del neonato, ma anche dopo l’introduzione dei metodi antisettici e dell’anestesia, rimaneva una procedura molto pericolosa, da usare solo come ultima risorsa.
Per cui, i chirurghi di Edimburgo rimasero molto sorpresi ascoltando una testimonianza da parte di Robert Felkin, un medico missionario, riguardo un’operazione di successo di cui era stato testimone cinque anni prima nel regno africano di Bunyoro Kitara.
L’intervento, come riportò Felkin, aveva come obiettivo quello di salvare entrambe le vite. La madre fu parzialmente anestetizzata con succo fermentato di banana, che venne utilizzato anche per disinfettare la zona da operare.
E questo ci suggerisce che esisteva già una certa conoscenza delle misure da prendere contro le infezioni. Il chirurgo fece un’incisione verticale, tagliando le pareti addominali e l’utero, per poi praticare un’apertura da cui estrarre il neonato.
L’operazione prevedeva anche la rimozione della placenta e la stimolazione dell’utero così da aiutare le contrazioni. Il procedimento di sutura dell’incisione era molto sofisticato: il chirurgo usava sette aghi di ferro per accostare i lembi della ferita e usava un filo di cotone per suturare.
Applicava poi uno spesso strato di pasta di natura vegetale e copriva tutto con una foglia calda di banano, tenuta sulla ferita da un bendaggio. Secondo Felkin, la madre e il bambino stavano ancora bene quando lasciò il villaggio 11 giorni dopo.
Anche se prima di questa data, erano stati effettuati parti cesarei da chirurghi bianchi, questa procedura sembra essere stata sviluppata in modo indipendente dalla popolazione ugandese. Il pubblico dell’Inghilterra coloniale però non gradì la storia, perché preferì mantenere la raffigurazione classica dei neri come ‘selvaggi’.
Nella foto sotto, disegno di Robert Felkin che mostra un parto cesareo in Uganda.