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A caccia di altri mondi: alla scoperta di oltre 4.000 pianeti fuori dal Sistema solare

Orbita intorno a una stella nella costellazione del Cancro. Si chiama Janssen: è largo il doppio della Terra, e per un terzo è fatto di diamanti.

Merito del suo clima estremo: ha molti vulcani attivi, e ruota così vicino al suo sole da avere una temperatura di 2.300°C. Abbastanza per fondere il ferro.

Nella costellazione del Centauro, poi, c’è il più spettacolare, J1407b: è circondato da una fascia di anelli larga 120 milioni di km, 400 volte più ampi di quelli di Saturno.

Per vedere un pianeta blu come la Terra, invece, c’è HD 189773 b, nella costellazione della Volpetta: ma è l’unica somiglianza, perché qui i venti soffiano fino a 8.700 km orari, e sono composti da particelle di silicati roventi. In pratica, piove vetro fuso.

Oltre il Sistema solare sono stati scoperti più di 4mila pianeti. Stanno svelando scenari inimmaginabili, rivoluzionando le conoscenze astronomiche. Ospiteranno anche la vita?

 

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1. UN BISCOTTO A DUE CAMPI DA CALCIO

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Sembrano mondi usciti dagli episodi di Star Trek. Ma esistono davvero: sono tre dei pianeti scoperti fuori dal Sistema solare grazie ai più potenti telescopi.

Sono 4.296 e sono solo un piccolo assaggio: secondo gli scienziati, c’è almeno un esopianeta (così si chiamano i mondi esterni al Sistema solare) intorno a ciascuna dei 200 miliardi di stelle della nostra galassia, la Via Lattea.

Fra loro, gli esopianeti di tipo terrestre sarebbero uno su cinque: 40 miliardi. Senza contare quelli certamente presenti in tutte le altre galassie.

Questo zoo cosmico, che si arricchisce ogni settimana, svela mondi che superano l’immaginazione non solo della fantascienza, ma anche della scienza: le loro caratteristiche inattese stanno sgretolando molte certezze. E forse potrebbero aiutarci a rispondere a una domanda millenaria: siamo soli nell’universo?

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Una sfida epocale, che porta all’estremo le tecnologie di oggi. Perché stiamo parlando di distanze difficili anche solo da immaginare.

«Se tutto il Sistema solare si riducesse alle dimensioni di un biscotto, la stella più vicina, Proxima Centauri, starebbe a due campi da calcio di distanza», spiega Lisa Kaltenegger, direttrice del Carl Sagan Institute alla Cornell University, Usa.

A quelle distanze, vedere un pianeta che riflette la luce della sua stella è come «distinguere una lucciola vicino a un faro acceso, stando a 10 km di distanza», aggiunge Yamila Miguel, astronoma all’osservatorio di Leiden (Paesi Bassi).

Come fare? Per vederli, i telescopi oscurano le stelle con un filtro, per annullarne i bagliori. Così si evidenziano minuscoli puntini: sono i pianeti che riflettono la luce della loro stella o quelli incandescenti perché ancora in formazione. Una missione difficile: basti dire che la Terra riflette solo un miliardesimo della luce del Sole.

Gli esopianeti, quindi, si possono vedere se sono lontani dalla loro stella (per poterli distinguere), massicci e giovani. E non troppo distanti da noi, visto che la loro luce, soprattutto infrarossa, è molto debole rispetto a una stella. Per questo ne sono stati fotografati solo 44.

Qua sotto, ricostruzione del pianeta Proxima b, un po’ più massiccio della Terra. Nel suo cielo ci sono due soli, e potrebbe ospitare acqua liquida.

 

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2. LUCI E DEVIAZIONI DELL’ORBITA

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Gli esopianeti, quindi, si scoprono per lo più in modi indiretti: cercando gli effetti della loro presenza sugli astri attorno a cui ruotano.

Ad esempio misurando i cali di luminosità delle stelle quando un pianeta vi transita davanti.

Sono eclissi quasi impercettibili: se un alieno vedesse il nostro Sole al telescopio, il transito della Terra ne ridurrebbe la luce dello 0,01%. 

E la nostra atmosfera crea turbolenze che rendono più difficili le osservazioni: per questo sono più efficaci i telescopi spaziali.

Quelli terrestri di grandi dimensioni – come il Vlt (Very Large Telescope, Cile), con specchi larghi 8 metri – sono invece fondamentali per raccogliere più fotoni emessi dalle stelle e poter misurare così anche altri effetti di un pianeta sulla sua stella: quelli gravitazionali.

La massa di un pianeta, infatti, modifica la velocità di una stella: a causa della Terra, il Sole varia la propria velocità di 9 cm al secondo (cm/s) nel corso di un anno.

Questa variazione si può registrare con gli spettrometri, che misurano la lunghezza d’onda della luce di una stella: si sposta verso il blu quando si avvicina alla Terra, e verso il rosso quando si allontana. È l’effetto Doppler.

«I fotoni emessi da una stella arrivano su un rilevatore di luce (ccd, charge-coupled device), che li trasforma in cariche elettriche. Sul sensore, il moto indotto dalla Terra sul Sole corrisponde alla distanza fra due atomi di silicio: è al limite della rilevabilità», dice Francesco Pepe, direttore del Dipartimento di astronomia all’Università di Ginevra, che è responsabile di Espresso, uno degli spettrografi più potenti al mondo montato sul Vlt.

 

«Un pianeta massiccio come Giove (foto sopra), invece, provoca un moto con velocità di 13 m/s. Oggi la precisione dei migliori spettrografi è di 0,5-1 m/s: con Espresso ci spingiamo fino a 10 cm/s su stelle brillanti e vicine».

Insomma, per percepire questi mondi lontani siamo limitati dalle enormi distanze in gioco: «I limiti della tecnologia ci impongono di puntare su pianeti di grandi dimensioni, e su astri non troppo lontani (qualche centinaio di anni luce), grandi e caldi. Ma i più diffusi nel cosmo sono le nane rosse, molto meno luminose del Sole», precisa Pepe.

Dunque, una rete a maglie larghe. Ecco perché gran parte dei pianeti scoperti sono giganti (e gassosi): hanno un diametro da 2 a 6 volte quello terrestre, e masse fino a 300 volte superiori.

Il primo esopianeta trovato, 51 Pegasi b, ha metà della massa di Giove e orbita vicinissimo alla sua stella: il suo anno dura solo 4 giorni. Già nel 1584, il filosofo Giordano Bruno aveva immaginato “un’infinità di mondi simili al nostro”.

Ma solo nel 1995 gli astronomi svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz riuscirono a rilevare 51 Pegasi b grazie allo spettrografo, Elodie, montato all’osservatorio dell’Alta Provenza, capace di captare spostamenti stellari di 7 m/s.

Qua sotto, gli astronomi svizzeri Didier Patrick Queloz (a sinistra) e Michel Mayor, premi Nobel per la fisica. Nel 1995 hanno scoperto 51 Pegasi b, il primo pianeta extrasolare in orbita attorno a una stella simile al Sole, misurandone l’effetto gravitazionale sul movimento dell’astro. Il pianeta è un gigante gioviano caldo: ha una temperatura di 1.000 °C. Ruota vicino alla propria stella: il suo anno, infatti, dura 4 giorni.

 

Queloz e Mayor

3. UN MODELLO IN FRANTUMI

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Una scoperta premiata con un Nobel ai due astronomi nel 2019. Ci sono voluti più di 20 anni, infatti, per riconoscere che 51 Pegasi b aveva sgretolato un paradigma considerato incrollabile: che il Sistema solare fosse l’unico modello per i sistemi planetari, con i pianeti piccoli e rocciosi vicini al loro sole, e quelli grandi e gassosi più lontani.

Invece, il primo esopianeta destò incredulità: come può formarsi un gigante gassoso vicino a una stella? Il suo calore dovrebbe impedire ai gas di congelarsi addensandosi.

Eppure c’era, e non era l’unico. Oggi pensiamo che questi pianeti si formino in periferia per poi avvicinarsi alle loro stelle. Sono i gioviani caldi, una nuova categoria di pianeti insieme ai nettuniani e alle superterre.

Gli esopianeti ci permettono di capire come si evolve un sistema planetario: possiamo osservare mondi appena nati o antichi quanto la nostra galassia. Si è aperta una finestra straordinaria sul cosmo.

Con una varietà così ampia, la Terra diventa solo uno dei tanti esemplari di questo smisurato zoo astronomico. Possibile che sia l’unico pianeta abitato? C’è vita in questi strani mondi? Per rispondere, dovremmo sapere cosa sia la vita. Qua sotto, 51 Pegasi b.

 

«Ne esistono 70 diverse definizioni, e sono tutte valide. Ma nessuna mette d’accordo tutti gli scienziati», premette John Brucato, docente di astrobiologia all’Università di Firenze.

«La Nasa definisce la vita “un processo chimico che evolve e si autosostiene”, ovvero è capace di nutrirsi e duplicarsi. Ma questa definizione esclude altre possibili forme di vita. Perché conosciamo una sola biologia: quella terrestre. D’altra parte, essendosi evoluta in 4 miliardi di anni, è ragionevole che sia anche il miglior modo possibile di funzionare».

Per gli esopianeti, poi, c’è il solito ostacolo: le distanze. Se in un altro mondo si fossero sviluppati microrganismi, non potremmo vederli da qui: possiamo cercare solo macro indizi di vita. Partendo da una condizione di base: «La presenza di acqua allo stato liquido: è il solvente che utilizza la vita», precisa Brucato.

Per avere acqua liquida, l’esopianeta non deve essere troppo freddo o caldo: deve orbitare alla giusta distanza rispetto alla propria stella. È la “fascia di abitabilità”: lontana per le stelle più calde, vicina per quelle più fredde. La vita, infatti, può fiorire solo fra -20 e 120 °C di temperatura.

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Ma da sola non basta: nel Sistema solare, la fascia abitabile è compresa fra Venere e Marte, oggi privi di vita. Per questo, fra i 60 pianeti considerati “abitabili” dal Planetary Habitability Laboratory dell’Università di Porto Rico ad Arecibo (l’1,2% del totale), ben pochi hanno le carte in regola per ospitare forme di vita.

Bisogna valutare infatti anche altri parametri geofisici: il raggio del pianeta (fino a 1,5 volte quello terrestre, altrimenti è un gigante gassoso) e la densità (alta per i pianeti rocciosi).

«Un pianeta deve avere abbastanza gravità per trattenere l’atmosfera, che filtra i raggi ultravioletti e protegge la vita, e mantiene la giusta quantità di effetto serra», aggiunge Dirk Schulze-Makuch, docente di astrobiologia all’Università di Berlino.

«E occorre un campo magnetico per proteggere il pianeta dalle particelle cariche del vento solare. Un pianeta deve avere pure un’attività tettonica e vulcanica, per regolare i cicli di azoto e carbonio». Anche avere una luna potrebbe contare, visto che la nostra rende più stabile l’asse di rotazione della Terra e quindi le stagioni, e attiva le maree.

Qua sotto, il telescopio spaziale Plato dell’Esa: sarà lanciato nel 2026. Avrà 26 camere per cercare esopianeti: equivalgono a un telescopio di 1 m di diametro con grandangolo.

 

telescopio Plato

4. IN CERCA DELLA VITA

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Per quanto riguarda i tipi di stelle, finora le ricerche hanno privilegiato quelle simili al Sole, le nane gialle, con temperature fra i 4.300 e 5.400°C.

Ma diversi pianeti sono stati scoperti vicino a soli più caldi o più freddi.

Secondo Schulze-Makuch, bisognerebbe puntare su questi ultimi, in particolare le nane arancioni: meno calde (2.900-4.300 °C), meno massicce e meno luminose del Sole: «I mondi abitabili potrebbero orbitare più vicini al loro astro. Le nane arancioni si stima durino anche 20 miliardi di anni (contro i 10 del Sole), e hanno più tempo per far sviluppare la vita».

Questo tipo di pianeti, un po’ più vecchi, più grandi e più caldi della Terra sono definiti “superabitabili”. Ma finora non ne è stato trovato nessuno.  Oltre ai requisiti geofisici, gli astronomi cercano segni di vita, i biomarcatori.

Gli spettrometri, infatti, riescono a captare la luce emessa dall’atmosfera di un pianeta quando transita di fronte alla propria stella. Dato che ogni gas assorbe una lunghezza d’onda diversa, è possibile capire quali molecole ci siano nella loro aria. E quali sostanze indicano la vita?

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«Sulla Terra, gli organismi usano 6 elementi: carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo e zolfo. Sono i mattoni di base della vita», spiega Brucato.

Questi mattoni, peraltro, reagiscono da soli nello spazio per formare molecole complesse: sul meteorite di Murchison, vecchio di 4,6 miliardi di anni e caduto in Australia nel 1969, sono stati trovati oltre 100 diversi amminoacidi, composti organici complessi.

«Ancor più importante sarebbe trovare nelle atmosfere degli esopianeti ozono, metano o ossido di azoto: sono prodotti dai batteri. Questi elementi sono indizi di vita, ma non prove inconfutabili come sarebbe la presenza di acidi nucleici (DNA, RNA), indispensabili per trasmettere l’informazione genetica, di ATP (adenosina trifosfato), capace di immagazzinare l’energia, o di clorofilla, indizio di vita vegetale».

Finora su alcuni esopianeti è stata accertata la presenza di atmosfera, nuvole e acqua, ma non basta: «Acqua e atmosfera ci sono anche su Marte, che è deserto. Sugli esopianeti non si è trovato ancora un vero biomarcatore», conclude Brucato.

 

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5. VIAGGI E MESSAGGI

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Ma la ricerca è infinita: le stelle della Via Lattea che potrebbero ospitare un pianeta terrestre sono 40 miliardi.

Di queste, ne possiamo osservare circa 1 milione. Ma occorrono settimane, talora anni per identificare un esopianeta.

Oggi se ne scoprono 4 nuovi al mese: con questo ritmo, occorrerebbero 20mila anni per studiare quel milione di stelle. L’obiettivo raggiungibile è approfondire com’è fatta l’atmosfera dei pianeti già scoperti, in cerca di segnali di vita.

Quand’anche la trovassimo, però, resta il problema della distanza. Se fosse sul pianeta più vicino, Proxima Centauri b (costellazione del Centauro, a 4,2 anni luce), e volessimo andare a vederla usando la navicella spaziale più veloce mai costruita, il Voyager 2 (61.000 km/h), il viaggio durerebbe 75.000 anni. Decisamente troppo lungo.

Ma un nuovo studio ribalta la prospettiva: un’ipotetica civiltà intelligente di un altro pianeta potrebbe vederci?

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Lisa Kaltenegger ha individuato un centinaio di pianeti rocciosi da cui si potrebbero rilevare i biomarcatori della nostra atmosfera quando la Terra passa di fronte al Sole: fra loro c’è Teegarden b, il pianeta considerato più adatto a ospitare la vita.

La Terra, vista da lì, si allineerà con il Sole a partire dal 2044. Se i suoi ipotetici abitanti ci vedranno subito, un loro messaggio radio impiegherebbe 12 anni per arrivarci. Quindi, dal 2056 ogni momento è buono. Basta avere pazienza.

Curiosità: qual'è il pianeta più abitabile? Fra i 60 esopianeti potenzialmente abitabili, quello col più alto indice di abitabilità, 0,95 (il massimo è 1, la Terra) è Teegarden b: è a 12 anni luce da noi, nella costellazione dell’Ariete. Teegarden b è 40 volte più vicino alla sua stella rispetto noi al Sole, e il suo anno dura meno di 5 giorni.

La sua stella ha solo il 9% della massa del Sole: è una nana rossa con temperatura di 2.600 °C (contro i 5.400 °C del Sole, una nana gialla). La temperatura superficiale del pianeta sarebbe vicina a 28 °C. La sua massa è poco superiore a quella terrestre: dovrebbe essere roccioso e potrebbe avere un oceano sulla sua superficie.

 

Teegarden Terra






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