In genere pensiamo che le persone ridano per una battuta, un gioco di parole o qualche situazione comica.
Ma la risata non serve affatto a manifestare il proprio senso dell’umorismo.
Lo dimostrano i neonati, che iniziano a ridere già a 3 mesi di vita, prima cioè di acquisire il linguaggio.
Raramente lo facciamo in risposta a una battuta: il più delle volte usiamo la risata per entrare in comunicazione con chi ci circonda (e non importa se non c’è nulla di divertente).
1. MI SEI SIMPATICO
Lo scopo della risata è soprattutto quello di entrare in comunicazione con gli altri.
Secondo Robin Dunbar, antropologo dell’Università di Oxford, nella nostra specie ha la stessa funzione della “toelettatura”, ossia l’atto di spulciarsi a vicenda che i primati effettuano anche per manifestarsi fiducia e vicinanza.
Man mano che le comunità preumane si allargavano, la risata sarebbe servita per cementare i legami tra i membri di un gruppo, che non avevano più abbastanza tempo per la toelettatura.
Il fatto che questo atto presupponga la fiducia negli altri spiegherebbe perché nei bambini il solletico provoca risate solo se a toccarli è qualcuno che conoscono. Al contrario, se sollecitato da un estraneo, un bambino urla di paura.
In effetti la risata si manifesta soprattutto in compagnia: gli studi attestano che davanti a un cartone animato i bambini tra 2 anni e mezzo e 4 anni ridono 8 volte di più quando sono con un coetaneo anziché soli.
E gli adulti arrivano fino addirittura a 30 volte di più. E la natura sociale della risata trova conferma nella costanza delle sue caratteristiche: quasi sempre una risata inizia con uno “scoppio” per poi calare d’intensità, probabilmente per il venir meno della riserva d’aria nei polmoni.
L’ipotesi è che la ripetitività di questo schema acustico sia necessaria per far decifrare il segnale: se ognuno ridesse in un modo diverso, gli altri non sarebbero in grado di riconoscere il significato pacifico di questa emissione sonora.
2. NON SONO IMPORTANTE
Secondo i biologi evoluzionisti David Sloan Wilson e Matthew Gervais dell’Università dello Stato di New York, esistono in realtà due tipi di risate, ognuna con un ruolo specifico nell’evoluzione.
Una è quella spontanea, che indica una situazione non pericolosa o di gioco, che è simile alle vocalizzazioni degli animali e che viene detta “risata di Duchenne”, dal neurologo ottocentesco Guillaume-Benjamin-Amand Duchenne che per primo la descrisse.
L’altra risata invece sarebbe nata come evoluzione della prima, circa 2 milioni di anni fa, quando i nostri antenati acquisirono capacità cognitive più complesse.
Fu allora che la risata sarebbe diventata parte di una strategia sociale: si sarebbe trasformata cioè in un gesto che comunica amicizia e appartenenza, ma che viene usato pure per manipolare gli altri o per denigrare sé stessi in modo da farsi accettare.
Il comico americano Rodney Dangerfield ha costruito la sua intera carriera su questo meccanismo di autosvalutazione, con battute come: “La settimana scorsa ho detto al mio psichiatra: ‘Continuo a pensare al suicidio’. Mi ha risposto che d’ora in poi devo pagare in anticipo”.
Il risultato più sorprendente emerso dagli studi sulla risata, però, è che essa in realtà si verifica molto di rado in reazione a un contesto di comicità, come una barzelletta. Lo dimostra l’analisi di migliaia di risate prodotte da vari gruppi di persone che ha condotto Robert Provine, uno psicologo dell’Università del Maryland.
Le statistiche indicano che la maggior parte degli scoppi di ilarità si registra in risposta a frasi banali come “Ehi, dove sei stato?”, “Eccola qui!”. Più precisamente ridiamo nell’84% dei casi dopo un’affermazione; nel 16% dopo una domanda.
Il “dopo” è rilevante perché una risata “cade” come un punto in una frase: è qualcosa, cioè, che succede in una pausa di uno scambio verbale mentre quasi mai ridiamo mentre l’altro sta ancora parlando.
Tuttavia, rispetto a una conversazione, spontanea, in cui il numero ottimale di persone che possono interagire è di 4 individui, secondo gli studiosi il numero ottimale di persone per condividere una risata è leggermente inferiore, con una media di 3,35 individui.
Ha senso perché, per ridere, le persone hanno bisogno di capire una battuta e in un gruppo numeroso questo è un compito più difficile.
3. SOLO UNA BATTUTA?
La risata, dunque, è più di una semplice risposta a qualcosa percepito come umoristico.
Come ha notato lo sceneggiatore Jacopo Cirillo, autore di L’animale che ride (Harper Collins), il riso è “l’unica manifestazione incontrollata del nostro corpo che vuol sempre dire qualcosa”.
Questa forma di comunicazione, tuttavia, presenta una certa ambiguità. Infatti, come detto più sopra, una risata può promuovere i legami sociali, ma anche escludere ferocemente coloro che vengono denigrati.
Che pensare di una battuta come “Tua mamma è così grassa che se ti passa davanti mentre guardi un telefilm ne perdi 5 puntate”? Molto divertente, ma ride solo chi non ne è il bersaglio.
Ancora: un motto di spirito può rafforzare le regole interne a un gruppo, ironizzando su chi si discosta dalla norma, ma anche sovvertire le gerarchie bersagliando i potenti.
Basta pensare a Renzie, per un Matteo Renzi vestito da Fonzie. Una risata può ribadire la situazione esistente, ma anche provare a scardinare le norme affermando le divergenze in modo indiretto, evitando ai “ribelli” gli scontri, e pure di esporsi troppo.
“Nella risata”, riassume il critico letterario inglese Terry Eagleton in Breve storia della risata (Il Saggiatore), “possiamo cogliere i piaceri della ribellione e al tempo stesso rinnegarli”: dopo tutto si tratta solo di una battuta. E così se l’altro esprime una resistenza, basta dire: “Scherzavo!”.
4. TIPI DI UMORISMO
Il contenuto della comunicazione “risata” dipende anche dagli stadi di crescita: un bambino si diverte per concetti brevi e semplici, come una barzelletta, per le sorprese e per battute in cui sono presenti le funzioni corporee (come fare la cacca) che per lui sono mezzi di esplorare l’ambiente.
Gli adolescenti ridono più spesso delle battute incentrate su sesso, cibo e temi che gli adulti con loro di solito considerano off limits, il cui contenuto trasgressivo rafforza l’unione tra coetanei.
Una battuta di questo tipo, peculiare per il linguaggio da lezione di geometria, è “La donna è un insieme di curve che fanno raddrizzare un segmento” del comico Raul Cremona.
L’umorismo degli adulti, invece, è solitamente più sottile e incentrato sui problemi quotidiani, come se ridere fosse una sorta di “integratore” per resistere alle difficoltà.
Ad esempio, chi ogni giorno deve vedersela con le pastoie della burocrazia può trovare una parziale “consolazione” in un lazzo del regista Woody Allen: “La Mafia ha questo vantaggio: che ha pochissime spese di cancelleria”.
Entro questi confini comuni, però, incidono le distinzioni di genere: la psicologa Mary Crawford dell’Università del Connecticut ritiene che l’umorismo femminile serva a creare solidarietà e intimità e quello maschile sia utilizzato come forma di competizione.
Le donne, insomma, preferiscono scherzare coinvolgendo piccoli gruppi di amici, mentre gli uomini tendono a farlo con un pubblico più ampio. Inoltre, gli uomini raccontano spesso storielle oscene o a sfondo razzista, mentre le donne preferiscono battute o giochi di parole.
5. CULTURA COMICA E LE PRIME TEORIE SULL’ILARITÀ
«In ogni caso, più risate facciamo con altri, più si rafforzano i legami all’interno del gruppo», afferma l’antropologo culturale Mahadev Apte dell’Università di Valencia.
Il nesso tra la coesione di gruppo e la risata spiega perché essa sia spesso contagiosa, come se derivasse da uno sforzo comune.
Man mano poi che i membri di un gruppo si abituano a un certo tipo di umorismo, questo spirito ne diviene un elemento caratterizzante, un segno distintivo.
Ne consegue la creazione di una “cultura comica”, ossia di un set di riferimenti umoristici condivisi come base per future interazioni. Basta pensare allo humour degli inglesi, abbastanza diverso dal nostro, o a certe sitcom americane che in Usa spopolano ma a noi sembrano eccessive e annoiano.
A prescindere dalla cultura di appartenenza, comunque, come dimostrato da uno studio del 2016, le persone sono in grado di distinguere una risata spontanea da una finta dal solo suono.
Davanti a questi risultati l’ipotesi è che l’istinto di ridere appartenga a una sfera molto precoce dell’evoluzione umana, quando per sopravvivere era essenziale saper rilevare se qualcuno stava autenticamente vivendo un’emozione positiva, e quindi era innocuo, o fingeva.
Quando non sappiamo chi ci troviamo di fronte, la reazione a una battuta fa capire come l’altro la pensi. In fondo, sosteneva il comico danese Victor Borge, “una risata è la distanza più breve tra due persone”.
Nel corso dei secoli vari pensatori hanno formulato più teorie per spiegare che cosa troviamo divertente. La più antica di esse, elaborata da filosofi come Platone e Aristotele, spiega la risata con la percezione della propria superiorità rispetto alle debolezze degli altri. È il meccanismo per cui ridiamo, per esempio, quando qualcuno inciampa e cade.
Ma come spiegare allora i casi in cui la caduta di un altro ci provoca pena? Un’altra teoria è stata avanzata da Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, per cui la risata è una sorta di liberazione dell’energia usata per sopprimere emozioni inammissibili nel contesto sociale, come l’odio o l’invidia.
La terza teoria è detta “dell’incongruenza”, in cui qualcosa percepito in un senso viene improvvisamente visto sotto una luce completamente diversa. Per esempio: “Un uomo suona alla porta di casa del suo medico e sussurra alla moglie del dottore: ‘è in casa suo marito?’. La moglie risponde: ‘No, ma si sbrighi a entrare’”. In questo caso l’integrazione tra informazioni contraddittorie è all’origine della risata.