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Adriano Olivetti: l’italiano che ha conquistato l’America dei computer

Fra le molte cose di cui l’Italia può essere orgogliosa, ci sono personaggi e imprese del mondo dell’industria, in un Paese povero di risorse e penalizzato dalla burocrazia.

Uomini che hanno vinto la sfida.

Tra questi, Adriano Olivetti, l’ingegnere di Ivrea che ha conquistato l’America dei computer. Ecco la sua storia straordinaria.

 

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1. I primi passi

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È il 27 febbraio 1960 quando Adriano Olivetti muore a seguito di una trombosi cerebrale che lo colpisce mentre viaggia in treno da Milano a Losanna.

La sua scomparsa arresta il naturale sviluppo dell’informatica italiana, che aveva appena conquistato gli Stati Uniti d’America.

Quella morte improvvisa chiudeva una vita avventurosa e ricca di conquiste. Con Olivetti spariva uno dei più geniali imprenditori italiani, orgoglio del nostro Paese. È una vita che vale la pena di conoscere. Adriano Olivetti è nato a Ivrea, in provincia di Torino, l’11 aprile 1901.

Il suo arco di vita coincide esattamente con i sessant’anni che trasformano l’Italia da un Paese agricolo ad una delle principali potenze economiche del mondo, ossia dal decollo industriale di inizio Novecento al “miracolo economico”.

Per parte paterna, Adriano discende da una famiglia di origine ebraica giunta probabilmente dalla Spagna nel Seicento. Si tratta di proprietari terrieri e commercianti.

Il papà Camillo fonda la Ing. C. Olivetti & C. di Ivrea nel 1908, al ritorno da un lungo soggiorno negli Stati Uniti, iniziato per accompagnare il maestro Galileo Ferraris al congresso di elettricità di Chicago del 1893 e terminato svolgendo l’attività di assistente presso la facoltà di Ingegneria elettrica alla neonata Stanford University.

Il “core business” della Olivetti è inizialmente la produzione di macchine per scrivere, un settore d’avanguardia dominato dai colossi statunitensi, prima tra tutte la Underwood, che nel 1896 aveva varato il prototipo delle macchine dattilografiche, monopolizzandone poi la produzione mondiale.

In fila dietro la Underwood ci sono Remington, Royal, Corona, l’inglese Imperial, le tedesche Mercedes, Olympia, Continental, Triumph.

Il confronto tra la Olivetti e questi colossi è davvero impari, così come del resto, in quegli anni, è ancora impari il confronto tra l’Italia industriale e gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania.

La Olivetti di metà anni Venti è un’azienda che produce 4.000 macchine per scrivere e impiega 400 dipendenti: 10 macchine all’anno per addetto, una produttività piuttosto scarsa.

Nella foto di famiglia, sotto: in piedi, Massimo, Lalla, Elena e Adriano; seduti, Dino, Luisa, Camillo e Silvia Olivetti.

 

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2. Un “pigmeo” sfida i giganti delle macchine per scrivere

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Dopo la laurea al Politecnico di Torino nel 1924, Adriano è immatricolato come operaio nello stabilimento paterno.

È in questa fabbrica e in quest’Italia ancora adolescente sotto il profilo industriale, che avviene la sua formazione tecnica e imprenditoriale.

Adriano capisce immediatamente che è necessario allargare gli orizzonti della sua piccola industria. Nell’agosto del 1925 segue le orme del padre e salpa da Liverpool per New York. Negli Stati Uniti si trattiene sei mesi, quanto basta per capire dove sono arrivati gli americani in fatto di tecnologia della scrittura a macchina.

Vede dal vivo la Monroe, il primo modello di calcolatrice matematica, di cui si innamora. Si accampa per qualche giorno ad Hartford, capitale del Connecticut e delle macchine per scrivere, nel vano tentativo di incontrare Mr. Underwood, che rifiuta il contatto con il piccolo concorrente italiano.

Intanto Adriano studia le nuove forme di organizzazione del lavoro. Visita gli stabilimenti di Highland Park dove sta prendendo forma il fordismo (“un uomo, un’operazione”, principio che lui rifiuterà) e capisce che il segreto del successo, in una società di massa, dove i consumi sono in crescita e la concorrenza si fa più serrata, è la crescita della produttività.

Nel 1927 prosegue l’apprendistato iscrivendosi all’Università di Londra per studiare economia e metodo scientifico. Poi torna ad impegnarsi nell’azienda paterna, di cui nel 1932 diviene direttore generale. Il suo compito è innovare, e Adriano innova.

Mette in produzione la macchina per scrivere portatile, la macchina contabile e un nuovo ritrovato della tecnica: gli schedari visibili. Poi innova anche i servizi sociali dell’azienda, con la costituzione del servizio sanitario complementare alle mutue nazionali, e crea il primo asilo nido.

Ma non trascura certo la formazione tecnica delle maestranze e istituisce il Centro di formazione meccanici. Innovazioni che si accompagnano alla riflessione scientifica intorno alle migliori forme di organizzazione del lavoro, che prendono forma nella rivista “Tecnica e organizzazione”.

Nel 1938 Adriano succede al padre come presidente dell’azienda, che cresce e si espande anche fuori dall’Italia, in Europa e Sud America, nonostante le difficoltà del periodo bellico, assai poco propizio alle esportazioni, così come alle importazioni, di materie prime.

Nonostante l’autarchia proclamata nel 1936, la Olivetti si sviluppa ulteriormente fino a raggiungere una condizione di quasi monopolio del mercato italiano: nel 1942 i dipendenti della Olivetti superano i 3.000.

 

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3. Gli orrori della guerra lo spingono a dare un nuovo senso alla vita

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Ma sono anni difficili, soprattutto per chi, come lui, viene da una famiglia di origine ebraica e vicina agli ambienti antifascisti.

La promulgazione delle leggi razziali del 1938 ha acuito la sua opposizione al fascismo, ormai nota: una vera spada di Damocle sospesa sulla sua testa.

La questura di Aosta (nel 1939 Ivrea passa sotto la provincia di Aosta) ha un dossier che lo classifica come “sovversivo”, anche se per fortuna la polizia ignora il ruolo giocato da Adriano Olivetti nel dicembre 1926, quando aveva guidato, al fianco di Ferruccio Parri, l’automobile che precedeva quella di Carlo Rosselli e Filippo Turati in fuga verso la Francia.

Ma le pressioni politiche non lasciano scampo e nel 1933 ad Adriano non resta che iscriversi al Partito Nazionale Fascista per garantire la sopravvivenza della propria azienda.

Tuttavia, nel 1944 è costretto ad abbandonare l’Italia perché nel Paese divampa la guerra civile e il Nord è controllato dall’esercito nazista: nessun ebreo può più scampare ai campi di sterminio.

Per Olivetti è un periodo traumatico. Un esilio in Svizzera, lontano dall’azienda e dagli operai, che conosceva uno per uno, lontano dagli affetti e dal lavoro, che lo segna profondamente, anche dal punto di vista spirituale. L’atrocità della guerra lo spinge a dare un nuovo senso alla vita.

Come antidoto all’orrore del mondo che lo circonda, avverte il bisogno di dedicarsi a una missione più alta, che probabilmente gli deriva dalla originaria fede ebraica, da quel messianesimo secondo cui l’azione dell’uomo è il proseguimento della Creazione di Dio.

Proprio durante l’esilio svizzero, immaginando il mondo che dovrà seguire alla fine della guerra, scrive “L’ordine politico della Comunità”, la cui prima edizione è del 1945.

È un progetto che risente molto anche della sua progressiva conversione al Cattolicesimo, che si completa nel 1949. La sua tensione è volta a riconciliare uomini, natura, habitat, cultura e sistemi produttivi.

Nella foto sotto, Adriano Olivetti insieme alla figlia Laura, presidente della Fondazione Olivetti, dal 1997 fino al 2015, anno della prematura scomparsa a 67 anni.

 

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4. La Olivetti è una delle grandi protagoniste del “miracolo economico”

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Al centro della sua visione, Olivetti colloca la Comunità, che è comunità di persone, non un aggregato casuale di individui.

La Comunità dovrebbe proteggere e accompagnare la persona durante tutto il suo percorso di vita (professione, affetti, relazioni, pratiche di fede).

Essa dovrebbe gestire i servizi sociali e possedere almeno parte delle quote azionarie delle fabbriche locali.

Nell’architettura istituzionale immaginata da Olivetti, sopra le singole comunità si sarebbero collocate le comunità riunite a livello regionale, quindi lo Stato federale (in quanto federazione di Comunità) e più in alto la federazione degli Stati.

La sua proposta è una “terza via” tra il socialismo di Stato, che considera già fallito, e il liberismo economico, che inaridisce l’animo in nome del profitto. Il suo progetto sociale e filosofico è volto anche a modificare il rapporto tra uomo e ambiente, dunque l’urbanistica.

La sua idea di città e di fabbrica è opposta al modello fordista. Al “muro compatto di edifici” contrappone una visione integrata tra città e campagna.

Per alimentare tale visione fonda una casa editrice, le Edizioni di Comunità (i cui interessi spaziano dalla politica alla religione, dall’economia alla filosofia fino all’urbanistica) e, nel giugno 1947, un movimento che entrerà nell’agone politico: il Movimento Comunità, di cui nel 1958 diventerà deputato nel Parlamento italiano.

La sua nuova visione del mondo non gli impedisce di perseguire i suoi obiettivi imprenditoriali. Dopo il rientro in Italia dall’esilio svizzero, ha ripreso anche la sua scalata di industriale innovatore.

È un atto di fede nel futuro dell’Italia che non verrà tradito. Nell’arco di un decennio il Paese entra nel “miracolo economico” e la Olivetti è una delle grandi protagoniste di questa trasformazione.

Adriano punta sul design, la qualità, l’organizzazione aziendale, la produttività. Introduce nuovi prodotti. Nel 1948 è il momento della Divisumma, inventata da Natalino Capellaro, che si presenta come la più veloce calcolatrice al mondo nelle moltiplicazioni.

Nel 1950 arriva la celebre Lettera 22, progettata dall’architetto e designer Marcello Nizzoli: una macchina per scrivere portatile tanto bella da ricevere il Compasso d’Oro nel 1954 ed essere giudicata il miglior prodotto di design del secolo secondo l’Illinois Institute of Technology nel 1959. Indro Montanelli, che la usava portandola in giro per il mondo, l’ha resa immortale parlandone in molti suoi scritti.

Nella foto sotto, la macchina da scrivere Lettera 22, regalata da Adriano Olivetti al papa Giovanni XXIII.
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Applicando i principi della Comunità all’interno dei suoi stabilimenti, Adriano Olivetti cerca di realizzare una democrazia industriale ed economica, istituendo un Consiglio di Gestione con poteri nella ripartizione dei finanziamenti destinati ai servizi e all’assistenza.

È una sorta di laboratorio i cui risultati potrebbero essere di esempio per altre industrie. Olivetti punta sull’espansione nei mercati internazionali: in Sud Africa, Austria, Australia e negli Stati Uniti.

Concorre alla politica di sviluppo del Mezzogiorno, aprendo uno stabilimento a Pozzuoli nel 1952, all’indomani dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.

Nella foto sotto, Adriano Olivett nel 1954 quando vinse il Compasso d’Oro per la macchina per scrivere Lettera 22, progettata da Marcello Nizzoli.

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5. Un ingegnere italo-cinese diventa il suo braccio destro

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Olivetti è tra i primi a capire che il futuro è nell’elettronica, sviluppando il comparto informatico della Olivetti.

Tra le sue tante doti, vi è quella di scegliere gli uomini giusti da mettere al posto giusto.

Affida la ricerca della nuova frontiera a Mario Tchou, un giovane di 28 anni nato a Roma dall’incaricato d’affari della Cina nazionalista presso il Vaticano, poi emigrato negli Usa, dove è diventato professore di ingegneria elettronica alla Columbia University e direttore del Marcellus Hartley Laboratory per la ricerca nel settore dell’ingegneria elettrica ed elettronica.

Adriano lo assume nel 1954 con l’incarico di dirigere un progetto finalizzato alla costruzione di un calcolatore elettronico. Tre anni dopo vede la luce la Macchina Zero (Elea 9001) e un anno più tardi, nel 1958, si passa già alla Elea 9003, la prima calcolatrice a transistor, che entra in competizione con i prodotti dell’americana Ibm.

Tramite la Olivetti, l’Italia lancia così la sua sfida agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna in un settore, quello dell’informatica, che nasce per scopi militari legati alla Guerra Fredda e che è dunque considerato strategico da Washington e Londra.

Una sfida all’America che raggiunge l’apoteosi nel settembre 1959, quando la Olivetti acquisisce il controllo della Underwood. È un’operazione dai molteplici significati. È il raggiungimento del miraggio di papà Camillo, ma anche una sorta di rivincita su Mr. Underwood, che non lo aveva giudicato degno nemmeno di un incontro.

Inoltre, è la prima volta che un’azienda italiana rileva il controllo di una grande azienda statunitense: un evento storico di grande significato. Purtroppo questo slancio verso il futuro ha il respiro breve.

La scomparsa di Adriano nel 1960 è seguita dalla morte precoce di Mario Tchou, il 9 novembre 1961, a soli 37 anni, a causa di un incidente stradale. Una doppia sciagura di incalcolabile portata.

Nel 1964 la Olivetti è presente in 117 Paesi, conta 54.600 dipendenti e vende all’estero il 77% della sua produzione, ma l’uomo che l’ha inventata non c’è più, qualcun altro deve mettersi al timone e così la rileva un gruppo di intervento formato da Fiat, Pirelli, Imi, Mediobanca e Centrale.

I nuovi azionisti ritengono eccessivi gli investimenti necessari per la divisione elettronica e decidono di cederne il 75% all’americana General Electric (che poi l’avrebbe venduta alla Honeywell).

Si salva solo un gruppo di progetto che nel 1965 dà vita al Programma 101, un calcolatore considerato il precursore del moderno personal computer.

Ma le risorse a disposizione non sono sufficienti per mantenere quelle posizioni di avanguardia, in un settore vitale per i destini dell’umanità, che erano state conquistate con tanta tenacia da Adriano Olivetti.

Rimane il ricordo di uomo che è stato capace di sognare l’impossibile e lo ha realizzato, portando prestigio all’industria italiana in tutto il mondo.

(Nella foto sotto, del 1959, l’ingegner Roberto Olivetti, primogenito di Adriano, con l’ingegner Mario Tchou, nato in Italia, ma di origine cinese).

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