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Agostino Chigi, il banchiere dei Papi

Aveva le amicizie giuste, una dialettica efficace, un padre che non perdeva il sonno per pagare l’affitto, una donna bellissima che prima fece rapire e poi sposò.

Se è vero che tanti storici hanno definito il Rinascimento “un dono avvelenato” (per il tramonto economico e politico che ne seguì) quello di Agostino Chigi, nato a Siena nel 1465, fu un dono e basta.

Geniale, un po’ spregiudicato, di cultura traballante (ma aperto a idee e suggerimenti) Agostino incarnò in modo impeccabile la finanza italiana del Cinquecento, ansiosa di arricchirsi e di nobilitarsi, un po’ meno di strapazzarsi di fatica.

Accorto, fortunato, ricchissimo: ai primi del ‘500, con il suo denaro, Agostino Chigi salvò dalla bancarotta anche la Santa Sede.

Ma chi era veramente Agostino Chigi, il banchiere dei Papi? Scopriamolo insieme.

1. Vivere di rendita

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Timorati di Dio, martoriati dalla peste, dall’XI secolo in poi i mercanti locali erano stati viaggiatori instancabili, inquieti, assillati dai guadagni e dal futuro.

La loro, aveva scritto Francesco Datini, grande imprenditore pratese di origini modeste, era stata “una vita da chani”.

Per Agostino non fu così: il senese (e tanti altri come lui) fu il prototipo di un’Italia sazia e sfarzosa, sempre più capitalista e munifica protettrice dell’arte, sempre meno “operaia”.

Le cronache di allora (facile che esagerassero) annotano che, al culmine della sua parabola, Chigi era diventato il più ricco banchiere d’Europa, con un patrimonio di 800 mila ducati (circa 100 milioni di euro di oggi) e una rendita annua di 70 mila.

La sua argenteria, si narra, era più consistente di quella di tutta la nobiltà romana.

Ma, come la maggior parte della classe dirigente dell’epoca, non si accorse delle secche verso cui stava navigando il Paese.

La rinuncia a investire in potenza per spendere in magnificenza fu una delle cause dell’indebolimento del nostro sistema economico e del fallimento degli Stati regionali (ricchi, straboccanti di quadri e sculture, ma disuniti).

 

2. Colpo di fortuna

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Agostino fece una carriera al fulmicotone.

Il padre Mariano, mercante, era stato consigliere della signoria di Siena e ambasciatore presso il papa. A Viterbo e nella città natale aveva fondato due piccoli banchi.

Fin dal Basso Medioevo le attività di mercante e di banchiere si confondevano: i banchieri prestavano denaro ai sovrani e, in cambio, ottenevano vantaggi fiscali e monopoli commerciali.

Compiuto l’apprendistato con il padre, Agostino venne mandato a Roma per lavorare al banco del conterraneo Ambrogio Spannocchi. Chigi aveva 22 anni e la provvidenza – è proprio il caso di dirlo – gli diede una mano.

Pochi anni dopo salì al soglio pontificio Alessandro VI, un Borgia che tolse ai Medici, banchieri fiorentini in odore di decadenza, la gestione della Camera apostolica, l’organo finanziario del Vaticano.

Al loro posto si fece avanti lo Spannocchi, e il papa lo accolse a braccia aperte. Agostino capì che quella era la sua occasione.

Bravo, ruffiano, rubò la scena al maestro: finanziò i capricci del pontefice, pagò le imprese belliche del figlio Cesare (il “duca Valentino”, nella foto in alto a sinistra) e, nei momenti di crisi, riempì i granai della Santa Sede.

 

3. Grande disponibilità

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Il papa Alessandro VI (nella foto a sinistra) ricambiò.

Agostino ottenne in concessione la direzione delle imposte e delle saline dello Stato Pontificio, e poi della dogana dei pascoli, che faceva pagare una gabella sulla transumanza del bestiame.

Il giovane Chigi, da un mese all’altro, si ritrovò con una montagna di soldi in tasca.

Quando, nel 1496, Piero de’ Medici gli chiese 4 mila ducati in prestito, Agostino non ci pensò due volte: sborsò il contante e in pegno si fece dare “167 cammei incastonati in tavolette d’argento e 15 balle di arazzi, stoffe e pietre preziose.

Tra il XV e il XVI secolo l’Italia era un Paese benestante: al centro delle principali rotte commerciali tra il Mediterraneo e il Mare del Nord, era divenuta, con la sua rete di banche, la cassaforte d’Europa.

Il problema è che a governarla, in un nepotismo dilagante, c’era una miriade di principi spendaccioni e con pochi liquidi. Le banconote ancora non esistevano e le monete erano scarse.

Chi, come Agostino, se lo poteva permettere, accorreva a sostegno del debito pubblico: i crediti rientravano con lauti interessi e, anche se non rientravano, servivano ad alimentare il potere personale di commercianti e finanzieri. Il senese lo aveva capito.

Nel 1502, con il padre e il fidato amico Francesco Tommasi, fondò a Roma il Banco Chigi. Neppure quarantenne, era uno degli uomini più ascoltati e rispettati della capitale.

L’anno prima aveva anche avuto dal papa l’appalto per l’estrazione di alunite dalle cave dei Monti della Tolfa.

L’alunite è un solfato da cui si ricavava una sostanza (l’allume) insostituibile nei processi di fissaggio dei colori, di produzione del vetro, di lavorazione della lana e di concia delle pelli.

Le cave rendevano ad Agostino cifre enormi: per conservare il minerale e avere uno sbocco diretto al mare, acquistò Porto Ercole (Gr) per 20 mila ducati, rocca e castello compresi.

La sede centrale del Banco Chigi fu aperta in via dei Banchi (l’attuale via romana del Banco di Santo Spirito) lungo la strada che si percorreva per entrare nella cittadella pontificia. Attigua all’ufficio, c’era l’abitazione di Agostino.

Con circa 20 mila dipendenti e cento navi, le sue attività erano arrivate dappertutto: controllava società e aveva decine di agenti a Londra, al Cairo, ad Anversa e a Costantinopoli.

 

4. Incontri da salotto

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È a questi anni che risale anche il suo mecenatismo. Stanco del trambusto di via dei Banchi, commissionò all’architetto Baldassarre Peruzzi una villa faraonica.

Chiamata in seguito Farnesina (perché acquistata dai Farnese nel 1577), venne costruita sulla riva destra del Tevere, ai margini della città abitata.

Gli affreschi al suo interno, ispirati alla mitologia classica, furono realizzati da Peruzzi e da artisti come Sebastiano del Piombo, il Sodoma e, soprattutto, Raffaello: suo è il celebre Trionfo di Galatea (una ninfa del mare).

Chigi fece della villa uno dei luoghi più incantevoli della Roma rinascimentale: vi incontrava letterati (come il Bembo e l’Aretino), artisti, cardinali.

Si racconta che i piatti d’oro e d’argento usati per i banchetti venissero alla fine gettati nelle acque del Tevere (dove però venivano recuperati da un invisibile sistema di reti).

Chigi, invischiato in un’aspra disputa con gli eredi Spannocchi, aveva conosciuto Raffaello nel 1510. Tra i due si era subito instaurata un’amicizia sincera. 

Insieme alla Galatea, Raffaello ricevette da Agostino anche l’incarico di decorare la cappella Chigi, nella chiesa di Santa Maria della Pace. Una seconda cappella, progettata dallo stesso urbinate, fu costruita a Santa Maria del Popolo e scelta da Chigi come luogo di sepoltura.

Quelle della cappella Chigi furono fra le prime opere pubbliche di Raffaello e vennero accolte con un entusiasmo straordinario (ricordato da Giorgio Vasari). A villa Farnesina (da non confondere con l’attuale sede del ministero degli Esteri) Chigi celebrò anche le nozze con Francesca Andreazza.

Il rapporto con la donna (seconda moglie dopo la senese Margherita Saracini) non fu facile: Agostino l’aveva fatta rapire sette anni prima, e solo nel 1519 si decise a sposarla. Il rito fu officiato dal papa Leone X, che aveva insistito perché Agostino regolarizzasse la sua posizione.

 





5. Denaro liquido

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Ma prima di Leone X, a segnare la biografia di Agostino era stato un altro pontefice: Giulio II. Nemico giurato dei Borgia, Giulio veniva dalla famiglia Della Rovere.

Agostino, che si era compromesso con Alessandro VI, sfoderò col nuovo papa abilità diplomatiche non indifferenti.

Il Borgia aveva lasciato le finanze vaticane sull’orlo del baratro e Giulio II, per risanarle, aveva urgente bisogno di liquidità. Il Chigi era uno dei pochissimi finanzieri “romani” in grado di soccorrerlo.

Il papa dimenticò il vecchio astio e accettò l’offerta. Agostino non si risparmiò e Giulio, in segno di riconoscenza, gli riconfermò tutti gli incarichi. Il prestito più cospicuo fu superiore ai 40 mila ducati (5 milioni di euro attuali).

Agostino, in quell’occasione, si fece dare in pegno la mitra di Paolo II. Ma, come con tutti i sovrani, fu sempre molto paziente nel chiedere i rimborsi, perché sapeva quanto contassero certe amicizie.

Al contrario, si dimostrò inflessibile con i privati. Agostino era un arrampicatore. Sfruttando anche meriti non propri divenne il banchiere ufficiale della Chiesa e, mentre lo Stato senese gli assegnava l’appellativo di Magnifico, dal papa ebbe la facoltà di inquartare lo stemma di famiglia con la quercia dei Della Rovere.

Meno di un anno dopo il matrimonio con Francesca Andreazza (foto sopra), Agostino morì: aveva 55 anni.

Ai funerali parteciparono più di 5 mila persone e al corteo funebre si unirono anche le 86 carrozze della famiglia pontificia.

Lasciò un’eredità di 400 mila ducati, tenute, castelli e una quantità immensa di sculture, pitture, tappeti, arazzi. Francesca fu avvelenata sette mesi dopo e fra gli eredi si scatenò una lotta accesissima. Nello stesso anno morì anche l’amico Raffaello.

Se per i Chigi si aprì una parentesi buia (ma passeggera), per l’Italia dei “principini” si chiuse l’età dell’oro: la scoperta dell’America stava cambiando il mondo.

Il Paese non resse il passo e il testimone della più grande potenza mercantile occidentale passò, alle soglie del XVII secolo, alle metropoli del Nord Europa.

 








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