All’inizio del XIX secolo il naturalista ed esploratore tedesco Alexander von Humboldt si era già reso conto che gli esseri umani avevano il potere di alterare il delicato equilibro della natura.
Un’idea che oggi ci è molto familiare ma che all’epoca appariva del tutto radicale, poiché per secoli si era continuato a credere che la natura stessa fosse stata creata a esplicito uso e consumo dell’uomo.
Attraversando le foreste pluviali del Sudamerica, Humboldt vide con i suoi occhi la devastazione potenzialmente irreversibile che l’intervento umano poteva infliggere agli ecosistemi, e fu proprio durante i suoi viaggi che imparò a riconoscere sia la meravigliosa interconnessione delle forme di vita sia la nostra capacità di distruggerla.
L’esploratore dichiarò che la natura aveva le proprie leggi e che era dovere e responsabilità dell’uomo comprenderle, perché in caso contrario il rischio di fare del male al mondo sarebbe divenuto catastroficamente reale.
Osservazioni profetiche per i tempi, che riecheggiano nei dibattiti odierni sulla deforestazione e i cambiamenti climatici. Eppure ben poche persone oggi conoscono il pensiero di Alexander von Humboldt.
Oggi vi raccontiamo la vita dello scienziato Alexander von Humboldt che predisse il mutamento climatico oltre 200 anni fa.
1. Osservazione e immaginazione
La storia di Humboldt sembra un libro di avventure: nelle sue esplorazioni delle savane e delle foreste sudamericane affrontò alligatori, ragni giganti, giaguari e insetti letali; scalò le Ande e scese nelle viscere delle miniere del Messico; attraversò a cavallo le steppe dell’Asia centrale fino al confine con la Mongolia in compagnia dei cosacchi; fece la conoscenza di Napoleone (che lo detestava); divenne amico di Thomas Jefferson e Simón Bolívar, il rivoluzionario venezuelano che liberò il Sudamerica settentrionale dal dominio spagnolo.
Ma la sua vita fu molto di più di un’avventura romanzesca. Humboldt voleva dare un senso a tutto quel che imparava nei suoi viaggi, e condivideva con un amico di lunga data, il poeta e filosofo naturale Johann Wolfgang von Goethe, la convinzione che la natura si dovesse considerare non un catalogo di bizzarre meraviglie, ma un puzzle del tutto coerente, che una combinazione di attenta osservazione, misurazione e immaginazione poteva arrivare a decodificare.
Il suo pensiero fu una delle fonti fondamentali d’ispirazione per Charles Darwin, che scrisse: “Nulla ha mai stimolato il mio zelo quanto leggere i resoconti di viaggio di Humboldt”. Il darwinismo finì poi per essere considerato una visione del mondo incentrata sulla competizione più feroce e sulla lotta per la sopravvivenza.
La concezione di Humboldt, al contrario, era improntata sull’equilibrio e l’armonia: la natura era un tutto perfettamente integrato, che nasceva dall’interscambio tra una infinità di elementi diversi e mondi sia viventi sia non viventi.
Questa immagine di mutua interazione concorda molto con il pensiero degli scienziati odierni che studiano il funzionamento del nostro Pianeta: uno scenario grandioso in cui l’atmosfera, gli oceani, le masse terrestri, le profondità dei vulcani, le piante, gli animali e le forme di vita microscopiche giocano tutti la propria parte.
Ma, come già avvertì Humboldt due secoli fa, questo equilibrio si può spezzare, e potremmo esserne noi la causa.
2. Uno strano nuovo mondo
Humboldt nacque nel 1769 in una famiglia aristocratica che possedeva una magione nei pressi di Berlino, in quello che all’epoca era lo Stato della Prussia.
Suo padre era un ufficiale dell’esercito e dell’amministrazione regia, e il suo padrino era nientemeno che il futuro re di Prussia, Federico Guglielmo II.
Pur avendo un bell’aspetto e nonostante godesse di condizioni agiate, Humboldt soffriva di malinconia. Era un giovane solitario, che sognava ardentemente di poter viaggiare e conoscere il mondo.
Studiò economia ad Amburgo e poi scienze minerarie a Freiberg: la sua famiglia avrebbe voluto che queste ultime diventassero la sua professione, ma lui insisteva per “sporcarsi le mani” in prima persona e aveva l’abitudine di scendere fisicamente nelle miniere per studiare i minerali e la geologia.
La sera, poi, si dedicava alle scienze naturali, alla botanica e all’elettricità. Il suo desiderio di vedere il mondo andò crescendo, e nel 1799 ottenne insieme a un amico, il naturalista francese Aimé Bonpland, il permesso di visitare le colonie spagnole nel Nuovo Mondo.
In giugno i due salparono dunque sulla fregata Pizarro, che portava il nome dello spietato conquistador che aveva distrutto l’impero degli Incas. Humboldt portò con sé una gran varietà di strumenti: telescopi, microscopi, orologi, bussole, tutti ordinatamente imballati in scatole imbottite. “Mi fischiano le orecchie dalla gioia” scrisse in quell’occasione.
Dopo una traversata dell’Atlantico durata sei settimane, i due sbarcarono in Nuova Andalusia (oggi parte del Venezuela) e per i successivi cinque anni Humboldt viaggiò per i territori degli attuali Stati di Colombia, Ecuador e Perù, poi seguiti dal Messico, da Cuba e dagli Stati Uniti.
Ai suoi occhi ogni cosa era strana, nuova ed emozionante: c’erano ragni che catturavano e mangiavano colibrì, serpenti giganti, anguille elettriche in grado di uccidere un essere umano, scimmie, tucani e ara macao dal piumaggio incredibile. Con Bonpland scalò le Ande, sfidando sentieri impervi, tremende tempeste e bufere di neve.
Nel 1802 salì fino alla vetta innevata del vulcano Chimborazo, che con i suoi 6.268 metri sul livello del mare è la montagna più alta dell’Ecuador, e lottando contro il mal di montagna e i gelidi venti dell’alta quota eseguì misurazioni della temperatura, della pressione dell’aria e dell’umidità.
Sulle Ande notò similitudini delle piante e delle rocce locali con quelle delle Alpi e, osservando il mondo dalle vette, cominciò a intuire gli schemi di interconnessione che formano la grande rete della vita sulla Terra. Nacquero così in lui i germi di una grandiosa visione, che lo avrebbe portato a dichiarare: “La natura è un tutto vivente”.
Nella foto sotto, il vulcano Chimborazo, scalato da Humboldt, è la montagna più alta del mondo se la si misura partendo dal centro della Terra anziché dal livello del mare.
3. Un arazzo meraviglioso
Il mondo delle cose viventi, concluse Humboldt, è una sorta di arazzo che include tutto, dal muschio ai pappagalli.
Ormai il naturalista era in grado di percepirlo anche solo nella cacofonia dei rumori animali che risuonavano nella notte delle foreste pluviali, che a sua volta era una reazione a catena fatta di cause ed effetti.
Ogni vita apparteneva a un contesto più grande, e aveva come scopo la propria sopravvivenza. Con questo suo pensiero Humboldt giunse a un passo dalla concezione che avrebbe poi formulato Darwin: l’idea che il cambiamento evolutivo è spinto e guidato dalla competizione tra le specie.
La natura dunque non era un Giardino dell’Eden minuziosamente progettato dalla mano di Dio, ma un luogo di estrema brutalità, senz’altro in equilibrio, ma mantenuto tale solo da una lotta spietata.
E, comprese Humboldt, tale equilibrio è anche precario: basterebbe tirare un singolo filo e l’intero arazzo può distruggersi. Si tratta senz’altro di fili intimamente intessuti, ma l’essere umano ha comunque la capacità di strapparli.
Humboldt se ne accorse soprattutto nelle piantagioni presso il lago Valencia, in quello che oggi è il Venezuela settentrionale, dove il disboscamento messo in atto dai coloni stava facendo ben più che spogliare il paesaggio.
“Quando si distruggono le foreste” scrisse il naturalista, “le fonti d’acqua inaridiscono. Poi i letti dei fiumi si trasformano in torrenti ogni volta che piove in abbondanza sulle alture... Le piene scorrono giù dalle colline, inondano la terra inaridita e provocano devastazioni in tutto il territorio”.
All’epoca l’idea che l’uomo potesse avere un impatto negativo sul Pianeta e sul suo clima era ben difficile da concepire: per la maggior parte della gente la diffusione delle coltivazioni, la colonizzazione e l’addomesticamento del “mondo selvaggio” erano attività positive, l’imposizione di un sano ordine al caos della natura incontrollata.
Ma nella pratica gli effetti potevano essere terribili: in Messico Humboldt vide con i suoi occhi in che misura l’irrigazione artificiale dei campi potesse prosciugare fiumi e laghi; sulle coste del Venezuela trovò la popolazione di ostriche decimata dalla pesca alle perle, e ovunque osservò i terreni devastati dalle miniere.
L’arrogante convinzione che la natura esistesse per essere sfruttata dall’uomo poteva trasformarsi nella fine della natura stessa.
Nella foto sotto, la deforestazione dell’Amazzonia desta molta preoccupazione, poiché la foresta pluviale ha un ruolo fondamentale nell’assorbimento dell’anidride carbonica. Nella foto si vede una sezione di foresta presso Santarém, in Brasile, deforestata per far posto a una piantagione di soia.
4. Una prospettiva più ampia
Era una responsabilità di portata cosmica.
Un giorno, speculava Humboldt nel 1801, saremo in grado di viaggiare fino a pianeti lontani, ma anche là “porteremo con noi la nostra letale miscela di vizio, arroganza e ignoranza”.
Anche in quei mondi, sospettava il naturalista, il nostro passaggio potrebbe portare quella desolazione che stiamo infliggendo alla Terra.
E forse si deve proprio al nostro primo passo nello Spazio il risveglio della coscienza umana di fronte agli avvertimenti di Humboldt: il suo biografo Andrea Wulf ritiene che il punto di svolta sia stata la missione sulla Luna dell’Apollo 8, che nel 1968 rientrò portando la fotografia – divenuta celeberrima – della Terra che sorge sopra l’orizzonte lunare, bianca e azzurra contro la nera vastità dello Spazio.
Per l’Umanità è stata una scoperta non dissimile a quella di Humboldt sulla vetta del Chimborazo, che ci ha fatto comprendere come il mondo vada considerato con diverse scale di grandezza: è giusto studiare i vegetali e il terreno con i nostri strumenti di misurazione, ma ci serve anche analizzare le cose con una visione molto più ampia. Oggi quella prospettiva ce la possono offrire i satelliti in orbita attorno alla Terra.
Grazie alle loro osservazioni e al lavoro degli scienziati sappiamo che le foreste pluviali, dentro e fuori dall’Amazzonia, sono tra gli ecosistemi più minacciati del mondo: solo negli ultimi venticinque anni il loro volume globale è diminuito del 10 per cento per cause umane.
E il pensiero va anche alle decine di migliaia di specie vegetali non ancora scoperte nel cuore di quelle foreste, alcune delle quali potrebbero nascondere il segreto di nuove preziose sostanze medicinali, se solo riuscissimo a trovarle prima di provocare la loro estinzione.
Insomma, ormai ci rendiamo conto di quanto sia stato profetico Humboldt, di fronte alla constatazione che la distruzione delle foreste ha conseguenze tanto sull’ambiente locale quanto su tutto il Pianeta.
Le foreste non solo contribuiscono a preservare il clima umido che rende possibile la loro straordinaria varietà biologica, ma sono fondamentali nel regolare l’intero clima terrestre.
Crescendo, esse assorbono dall’atmosfera enormi quantità del più pericoloso tra i “gas-serra”, l’anidride carbonica, nell’ordine dei 2,4 miliardi di tonnellate all’anno, un quarto dei quali a opera della sola foresta amazzonica.
Ma da una ricerca del 2015 è emerso che l’Amazzonia oggi assorbe solo due terzi dell’anidride carbonica rispetto a quanto faceva negli anni Novanta: la responsabile è verosimilmente la crescente moria degli alberi, in parte causata dalle grandi siccità del 2005 e del 2010 e in parte dalla stessa concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, che, essendo maggiore di prima, incoraggia negli alberi una crescita più rapida, ma anche una minore robustezza.
E tutto questo senza tener conto dell’impatto della deforestazione. In altre parole, se le foreste pluviali soffrono, soffriamo tutti.
Nella foto sotto, fotografia della “Terra che sorge” scattata la notte di natale del 1968 dalla prima missione senza equipaggio umano sulla Luna. Secondo il biografo di Humboldt andrea Wulf, è possibile che sia stata proprio questa immagine a farci riconoscere per la prima volta la vera fragilità del nostro Pianeta.
5. Un ultimo capitolo
E torniamo infine a Humboldt, che non limitò le sue esplorazioni alle Americhe.
Dopo essersi conquistato la fama di uno dei più importanti scienziati tedeschi della sua epoca, nel 1829 si imbarcò in un’altra ambiziosa spedizione: una traversata della Russia e dell’Asia centrale, fino ai confini della Mongolia.
Pur avendo ormai 59 anni, impressionò i compagni di viaggio con la sua vitalità, non esitando a scalare montagne e penetrare in caverne sotterranee. Da questo nuovo viaggio tornò
con altri campioni vegetali e minerali, altre misurazioni e nuove idee.
Negli ultimi anni della sua vita riunì tutto il suo lavoro in una vasta sintesi: una monumentale opera in cinque volumi intitolata Kosmos e dedicata a ogni singolo aspetto della creazione, dai corpi celesti ai vulcani, dall’aurora boreale alle rocce, dalle piante agli insetti alle alghe.
Mai prima di allora era stata realizzata un’opera simile, e il risultato divenne fonte d’ispirazione per intere generazioni di scienziati, artisti e scrittori.
Kosmos parla della natura come di un “tutto vivente” e di una “straordinaria rete di vita organica”, eppure in nessuna delle sue pagine – cosa stupefacente per l’epoca – Humboldt sentì la necessità di citare Dio.
Con tali e tante meraviglie da scoprire nella natura stessa, tutte parte di uno schema organizzato, razionale e comprensibile, forse cominciò a farsi strada l’idea che la creazione fosse più degna di ammirazione e di devozione che non la nozione di un creatore.
Quando Darwin scrisse “Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita”, non si riferiva solo all’evoluzione spinta dalla selezione naturale, ma anche a quella ricca interconnessione tra il Pianeta e i suoi abitanti che già Humboldt aveva identificato.
Preservare tale ricchezza ora è un compito che spetta a noi. Se non ci riusciremo, sarà un fallimento della nostra responsabilità planetaria e della nostra stessa razionale autoconservazione.
Nella foto sotto, ritratto di Humboldt seduto nella sua grande biblioteca, tra pile instabili di libri e documenti, dipinto da Eduard Hildebrandt nel 1856.
Note
I viaggi di Humboldt in Sudamerica, 1799-1803
- 1- Luglio 1799: arriva a Cumaná, in Venezuela, insieme ad Aimé Bonpland.
- 2- Novembre 1799: assiste a un terremoto a Cumaná.
- 3- Febbraio 1800: osserva come la deforestazione attorno al lago Valencia in Venezuela aumenta l’erosione del suolo da parte della pioggia e come gli alberi contribuiscano a conservare l’umidità.
- 4- Marzo 1800: osserva l’attacco delle anguille elettriche contro alcuni cavalli nelle praterie di Los Llanos e studia il loro sistema di generazione dell’elettricità.
- 5- Marzo-luglio 1800: discende il fiume Orinoco River. È il primo europeo a osservare e descrivere gli effetti del curaro, e rimane quasi ucciso quando lo tocca.
- 6-7- 8- Fine del 1800-1801: passando da Cuba arriva a Cartagena e a Bogotá in Nuova Granada.
- 9- Settembre 1801: passa da Bogotá a Quito attraversando le Ande nel pericoloso Passo Quindío, affrontando tempeste e bufere di neve.
- 10- Inizio del 1802: indaga su alcuni vulcani delle Ande, tra cui il Pichincha, nei pressi di Quito.
- 11- Giugno 1802: sale in vetta al Chimborazo, il più alto vulcano dell’Ecuador (6.268 metri), e al ritorno comincia a schizzare un disegno della sezione trasversale del vulcano stesso.
- 12- Ottobre 1802: arriva a Lima, in Perù. 13 Febbraio 1803: lascia il Sudamerica da Guayaquil, in Nuova Granada, diretto in Messico.