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Animali come imputati: alcuni casi che hanno fatto storia

Doveva esserci parecchia agitazione tra la folla nella piazza del mercato, quella mattina. Stavano per impiccare una pericolosa criminale: aveva massacrato un neonato facendogli a pezzi il volto e le braccia.

Il boia aveva dovuto trascinare la condannata fin sotto la forca poiché, per la legge del taglione, il giudice aveva stabilito che le fossero spezzati gli arti a bastonate prima dell’esecuzione.

Poi, finalmente, le aveva stretto il cappio intorno al collo, e aveva aperto la botola….

Siamo a Falaise (Bassa Normandia), nel 1386, e a penzolare dalla forca è un maiale vestito di tutto punto con abiti umani: una scrofa assassina, per la precisione!

Per secoli, gli animali che attaccavano o danneggiavano l’uomo sono stati processati. Un’assurdità? Non proprio.

1. Bruchi, venite in tribunale

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Bizzarrie medioevali? Mica tanto: i processi agli animali (e le eventuali esecuzioni) si sono celebrati un po’ ovunque in Europa, dal IX secolo fino alla metà dell’Ottocento.

Erano di due tipi: quello in cui un animale veniva condannato “di persona” come un normale criminale; e quello in cui un intero gruppo di bestiole nocive veniva accusato di costituire una molestia pubblica e di conseguenza processato.

I processi del primo tipo erano condotti da corti secolari, secondo le leggi in vigore. Quelli del secondo tipo, che diventarono numerosi solo nel XV secolo, venivano condotti dalla Chiesa o comunque con la supervisione di alti prelati.

Con risvolti paradossali: nel giugno del 1659, a Chiavenna, alcuni bruchi furono citati in giudizio e invitati a comparire in tribunale per aver distrutto le foglie degli alberi. Il proclama, affinché gli animaletti potessero vederlo, fu affisso sui tronchi degli alberi dei cinque boschi della zona.

Mentre nel processo che si svolse nel 1394 a Mortagne (Bassa Normandia) contro un altro maiale infanticida, il fatto che il suino si fosse cibato delle carni del piccolo, “nonostante fosse venerdì”, costituì un’aggravante a carico del reo.

Nel 1519 a Stelvio, in Alto Adige, le talpe colpevoli di scavare gallerie danneggiando le colture furono condannate a lasciare le loro tane, ma ottennero dal giudice un salvacondotto che consentiva loro protezione da cani, gatti e altri predatori

Inoltre, alle talpe con figli piccoli o in stato di gravidanza furono concesse due settimane in più per andarsene.

2. Se non ti uccido, ti maledico

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Nella regione di Požega, in Croazia, ancora nel 1866, in un processo contro le locuste che divoravano le colture delle zona, una delle più grosse fu catturata, giudicata in rappresentanza di tutte le altre e poi giustiziata per annegamento mentre contro le sue simili veniva scagliato un anatema (vedi sotto nel punto 5).

Se i singoli animali colpevoli di un delitto potevano essere giustiziati, infatti, per liberarsi di creature infestanti (soprattutto insetti o roditori) non restava che ricorrere agli anatemi o addirittura agli esorcismi.

Naturalmente, dopo aver condotto un regolare processo sotto l’autorità del vescovo locale o del suo vicario.

Con tanto di avvocato difensore, come nel caso delle mosche denunciate dai contadini dell’elettorato di Magonza in Germania, nel XIV secolo, che “in considerazione delle loro piccole dimensioni e del fatto che non avevano ancora raggiunto la maggiore età”, poterono evitare di comparire in tribunale per rispondere della loro condotta e delegare il difensore a far loro da portavoce.

Tra l’altro, in questo caso l’avvocato fu bravo: ottenne che alle mosche fosse concesso un pezzo di terra dove potersi ritirare in pace.

Trattandosi di processi condotti da tribunali ecclesiastici, il dibattito in aula tra accusa e difesa si trasformava di solito in una disputa teologica: l’avvocato difensore sosteneva che le creature infestanti avessero, fin dalla Creazione, il diritto di nutrirsi, quindi di vivere.

L’accusa ribatteva che gli animali sono, secondo gli insegnamenti dell’apostolo Paolo, per loro natura subordinati all’uomo e devono servirlo anziché danneggiarlo.

3. Il popolo contro le locuste

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Altre volte le argomentazioni delle parti erano di carattere più pratico.

Gaspard Bailly, giurista savoiardo, alla fine del Seicento lasciò un resoconto di alcune azioni penali contro gli animali infestanti.

Del processo, che chiamò “il popolo contro le locuste” (avvenuto a Mantova nella seconda metà del XV secolo), riporta la requisitoria del difensore:
“In difesa di questi infelici animali, dichiaro, in primo luogo, che le ingiunzioni a loro carico sono nulle, essendo state emesse a carico di bestie che non possono e non devono essere portate in giudizio davanti a questa corte, visto che questa procedura implica che le parti in causa siano dotate di ragione e capaci quindi di commettere un crimine”.

Esattamente l’argomento che useremmo anche oggi per scagionare un animale. Ma la giurisprudenza medioevale non si faceva ingannare da questi argomenti “razionali”.

L’accusa replicò che anche se la legge impedisce di punire chi non è responsabile, consente comunque di prevenire i crimini successivi e può quindi intervenire.

Alla fine, le locuste furono condannate a lasciare i campi che stavano devastando entro sei giorni, altrimenti avrebbero subìto l’anatema.

Nella sentenza si precisava inoltre che i cittadini avrebbero dovuto sostenere tale ingiunzione con preghiere e buone azioni, soprattutto quella di “pagare interamente le decime”.

Decisamente, anche allora non si lasciava nulla di intentato per convincere la gente a pagare le tasse...

4. Vivere più sicuri

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I processi contro gli animali, in ogni caso, costavano parecchio tempo e denaro.

Le cronache ci raccontano che, per la detenzione e l’esecuzione della scrofa di Falaise, per esempio, furono spesi “dieci soldi e dieci denari” e fu acquistato un nuovo paio di guanti per il boia.

Per non parlare dei dibattiti in aula, che potevano durare parecchi mesi, per stabilire se la misura più efficace contro gli animali infestanti fosse la cacciata o l’esorcismo.

In Francia esiste perfino un elenco dei procedimenti contro gli animali che si sono tenuti tra l’824 e il 1845 (tutti conclusi con l’esecuzione o un anatema contro i colpevoli): riporta 144 casi.

I nostri trisavoli, e gli uomini e le donne che li hanno preceduti, non erano certo impazziti: conoscevano bene la differenza tra una persona e un animale.

Ma c’era un certo gusto teatrale in questi rituali, una parvenza di farsa. I processi erano celebrati perché era consuetudine “mettere ordine nel mondo” attraverso l’applicazione della legge».

Nicholas Humphrey, antropologo e professore emerito di psicologia alla London School of Economics, ha però un’altra teoria.

«Spesso gli animali venivano anche flagellati o torturati prima di essere giustiziati. Ciò indica che non si voleva solo sbarazzarsi dell’animale, ma anche punirlo per le sue malefatte», afferma.
«Ma a che scopo? Di solito la punizione serve a far sì che altri non ripetano lo stesso crimine, ma non risulta che altri animali siano mai stati portati a “vedere” le esecuzioni».

Così, alcuni storici hanno ipotizzato che questi processi e le successive condanne avessero la funzione di far filare dritti gli uomini, secondo il principio che se “perfino i maiali (o i lupi, o i tori...) devono pagare per le malefatte commesse, allora ciò vale a maggior ragione per le persone”.

«Ma, a mio parere», conclude Humphrey, «il motivo va cercato a un altro livello: fino a un paio di secoli fa, l’umanità viveva sull’orlo di un abisso di fatti inspiegabili. I tribunali, che giudicassero persone o bestie, dovevano addomesticare il caos, dare un ordine agli avvenimenti inspiegabili, definendoli come crimini».



5. "Anatema su di te" e che cosa succede oggi agli animali pericolosi?

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Tecnicamente, gli animali non possono essere scomunicati, ma solo subire un anatema, dato che non possiedono l’anima e quindi non fanno parte della comunità cristiana.

Secondo alcuni filosofi dell’epoca, gli animali crudeli erano strumenti del demonio e quindi l’anatema non era tanto contro le creature, anch’esse figlie di Dio, ma contro il demonio che si era impossessato di loro.

Guillaume Bougeant, un gesuita vissuto tra ’600 e ’700, giunse a teorizzare che la progressiva cristianizzazione di molte popolazioni e il battesimo dei neonati aveva provocato una “penuria” di persone disposte a ospitare i demoni.

E, poiché questi ultimi erano moltissimi, dovevano accontentarsi di possedere gli animali. Se, dopo l’anatema, gli insetti scomparivano, la Chiesa se ne attribuiva il merito. Se restavano testardamente dov’erano, la colpa era da attribuire ai peccati della popolazione.

Che cosa succede oggi agli animali pericolosi? Un cane attacca un bimbo, un cinghiale carica un cacciatore... Anche oggi, le cronache riportano spesso episodi come questi.

Che cosa succede allora ai “colpevoli”? È diverso per gli animali domestici e per quelli selvatici. Per le specie protette (orsi, lupi...), i cui individui non possono essere uccisi, eventuali procedure di abbattimento sono molto lunghe e avvengono solo in casi eccezionali.

Sono autorizzate dall’Unione Europea e vagliate dai tecnici dell’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).

L’abbattimento degli animali “comuni” responsabili di aver gravemente ferito o ucciso una o più persone viene stabilita con un’ordinanza del sindaco, che può procedere abbastanza velocemente soprattutto in caso di animali domestici o da cortile.

Nel caso di fauna selvatica, la competenza è di Province o Regioni, che su segnalazione per esempio della Forestale possono stabilire l’abbattimento selettivo di animali pericolosi perché feriti o malati.

In tutti i casi, comunque, la legge consente l’uccisione di un animale per “legittima difesa” propria o altrui.






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