Eccole, le mura dell’eterna nemica. Alle spalle i Colli Albani, di fronte la grande rivale, l’odiata Roma.
Quasi non poteva credere di essere arrivato davvero fin là dopo una marcia titanica e un’impressionante serie di vittorie travolgenti.
Eppure, l’Urbe non voleva cedere, anzi aveva rinsaldato lo spirito dei suoi cittadini e rinforzato quelle mura, che ora apparivano imprendibili. Intanto, gli ostinati popoli dell’Italia centrale non volevano unirsi a lui, rifiutando di ribellarsi a chi li teneva sotto il suo giogo.
Non capivano il suo grande sogno, il suo desiderio di liberare il Mediterraneo occidentale dalla prepotenza romana. Nel futuro immaginato da Annibale, Cartagine avrebbe avuto un ruolo egemone, ma niente a che vedere con un impero.
Egli offriva alle genti d’Italia la straordinaria occasione di prosperare in un mondo in cui ciascuno avrebbe mantenuto la propria autonomia.
Se lui avesse vinto, non ci sarebbe stata l’unificazione politica e culturale del Mediterraneo sotto l’egida di Roma, ma sarebbero rimaste vive e attive molte diverse culture e potenze regionali: Cartagine certamente, ma anche l’Egitto, la Siria, la Macedonia, le città greche affacciate sul mar Ionio, l’Etruria, i territori dei Galli, le terre dei Sanniti e degli Umbri.
I popoli italici, però, non se la sentivano di condividere il sogno di Annibale. Il condottiero cartaginese contemplò quei Sette Colli, tanto vicini che parevano a portata di mano.
Decise però di ritirarsi: tornare nel Sud della penisola per consolidare le sue vittorie, attendere rinforzi e sperare che altri cocciuti alleati dei Romani comprendessero finalmente che il futuro di libertà e autonomia delle genti italiche passava attraverso la distruzione di Roma.
Assediare la città era troppo difficile, e non valeva la pena rischiare tutto in un unico colpo di mano: i Romani, che non avevano ceduto neanche dopo la disfatta di Canne, non lo avrebbero di certo fatto ora, quando una sola, estrema linea di difesa separava la furia dell’esercito punico dalle loro case.
Meglio logorare il nemico erodendone le piazzeforti e i centri di rifornimento sparsi per l’Italia, sperando che un giorno anche l’Urbe sarebbe caduta da sola nelle sue mani come un frutto maturo. Quel progetto strategico fu l’unico grande errore della sua vita.
Ma chi era veramente Annibale? Scopriamolo insieme.
Nella foto sotto, busto marmoreo di Annibale conservato al Museo del Prado di Madrid.
1. La famiglia che giurò odio a Roma
Annibale era nato a Cartagine, verso il 247 a.C., dal condottiero Amilcare, protagonista della Prima guerra punica, nel corso della quale si era guadagnato il soprannome di Barca (da barak, “fulmine”), poi passato a tutti i suoi discendenti.
Al termine del conflitto, conclusosi con la sconfitta dei Cartaginesi, Amilcare domò la rivolta dei mercenari che si erano ribellati contro di lui, poi partì alla conquista dell’odierna Spagna, portando con sé i tre figli: Annibale, di appena 9 anni, e i fratellini Asdrubale e Magone.
A tutti loro Amilcare impose un solenne giuramento di odio eterno contro Roma. I giovani Barca crebbero negli accampamenti militari, sempre al fianco del padre.
Alla morte di Amilcare gli succedette il genero, e quando anche costui rimase ucciso, le truppe cartaginesi acclamarono comandante supremo il figlio maggiore ed erede del vecchio Barca, Annibale.
Il giovane aveva solo 26 anni, ma aveva già condiviso con loro molte imprese, imponendosi per avvedutezza e coraggio.
Come scrive Livio: «I veterani credevano nel vedere Annibale che fosse stato loro restituito Amilcare giovane, notando identica energia nel volto e identica fierezza negli occhi, nella fisionomia del suo viso».
Non avevano torto: il giovane condottiero applicò con successo quanto aveva appreso dal padre e proseguì nella conquista della penisola. Nel 219 era alle porte di Sagunto, una città della Spagna nordoccidentale alleata dei Romani e pomo della discordia con i rivali cartaginesi, che allungavano fin laggiù i loro tentacoli.
Al termine del precedente conflitto, Cartagine e Roma avevano stipulato un trattato che stabiliva le reciproche sfere d’influenza, divise dal fiume Ebro.
Secondo una versione, Sagunto rientrava sotto la protezione di Roma, e Annibale la attaccò volutamente per provocare gli antichi nemici e adempiere così il giuramento fatto al padre; secondo altri storici, invece, la città era sì alleata dei Romani, ma rientrava geograficamente nella sfera punica, e sarebbe stato questo a generare i contrasti.
Fatto sta che, come scrissero gli storici antichi, «mentre a Roma si discute, Sagunto cade». Il Senato dell’Urbe, infatti, si dilungò esageratamente sulla questione e, quando si decise a intervenire, Annibale aveva già preso l’iniziativa.
Nella foto sotto, il piccolo Annibale giura odio eterno a Roma in un dipinto di Jacopo Amigoni (XVIII secolo).
2. La minaccia viene dal Nord
Le guerre fra Roma e Cartagine si erano sempre combattute al Sud, sul mare e nelle regioni intermedie fra le due capitali.
Annibale, invece, decise di portare la guerra al Nord, partendo dal suo caposaldo in Spagna. Già la traversata dei Pirenei, con un esercito composto da africani e ispanici, elefanti e cavalli, fu una grande impresa.
Ma a quel punto i Romani si aspettavano un confronto nell’attuale Provenza: Marsiglia, storica colonia greca e stretta alleata di Roma, era la città chiave di tutta la regione, e poteva essere un probabile bersaglio dei Punici.
I Romani si regolarono di conseguenza, preparandosi a difendere la città e il fiume Rodano, immaginando che se il condottiero punico avesse poi voluto minacciare l’Italia lo avrebbe fatto imbarcando l’esercito per trasportarlo in Liguria o in Etruria.
Ma questo piano era troppo scontato per un genio della strategia come Annibale, il quale, d’altro canto, non disponeva di una flotta all’altezza di quella romana.
Così, il giovane condottiero si consegnò alla Storia con un’impresa che per secoli avrebbe destato l’ammirazione di tutti: attraversare le Alpi e portare le sue macchine da guerra, gli elefanti, nella Pianura Padana.
Dei 60 mila uomini che avevano affrontato i Pirenei, 38 mila sfidarono le Alpi con 37 elefanti e 15 mila cavalli. L’ambiente e il clima erano la scommessa più ardua, ma anche le popolazioni locali tormentarono i Punici con continue imboscate: lungo la marcia, agguati, valanghe e burroni mieterono migliaia di vittime.
Annibale riuscì comunque a raggiungere il valico, che una recente ricerca ha ipotizzato essere quello delle Traversette, nei pressi del Monviso, a ben 3.000 m di quota.
Sorpreso dalla neve, il condottiero dovette poi affrontare la discesa, molto più difficile della salita perché il versante italico delle Alpi si presenta più aspro e scosceso di quello francese.
A un certo punto il sentiero scomparve, portato via da una frana, e non esistevano percorsi alternativi. Accampato sulla cresta, Annibale dovette aprire una nuova via lungo l’orlo del precipizio, sfidando il gelo.
I Cartaginesi si misero al lavoro, usando enormi quantità di aceto per corrodere e scavare la roccia (recenti esperimenti hanno confermato la validità di questo metodo), e dopo quattro giorni di sforzi la discesa poté riprendere.
L’esercito di Annibale, ormai dimezzato, calò sulla Pianura Padana: 20 mila fanti, 6.000 cavalieri e 21 elefanti, sopravvissuti a una delle imprese militari più memorabili del mondo antico, furono sufficienti a gettare nel panico i Romani, che si erano preparati a difendere Marsiglia, mentre molte popolazioni galliche del Nord Italia, in particolare i Boi e gli Insubri, si affrettarono a sposare la causa di Annibale; altri, come i Taurini, si opposero ai Cartaginesi e furono sterminati.
Il console Publio Cornelio Scipione (padre del futuro Scipione Africano) dovette ritirarsi in tutta fretta, mentre Annibale dimostrava di che pasta era fatto il suo esercito, ottenendo una netta vittoria sul fiume Ticino.
Da lì puntò a sud, tra lo sgomento crescente dei Romani, che tentarono di resistere presso Piacenza, ma invano: l’esercito del console Tiberio Sempronio Longo fu schiacciato sul Trebbia dalla carica degli elefanti, partiti tanti anni prima dai monti dell’Atlante, in Nord Africa, e giunti ora in Italia dopo aver attraversato mezza Europa per terrorizzare i legionari.
Ancora una volta fu la natura, più che l’esercito romano, a costituire la sfida maggiore per l’armata cartaginese, che nel frattempo si era arricchita di guerrieri gallici. L’attraversamento degli Appennini, l’inverno e le paludi dell’Arno mieterono numerose vittime: solo uno degli elefanti sopravvisse, il tenace Surus, mentre lo stesso Annibale perse un occhio.
Nella foto sotto, la discesa in Italia attraverso le Alpi (così immaginata da Jacopo Ripanda nel XVI secolo) è la più straordinaria impresa militare di Annibale e una delle più grandiose di tutta la storia antica.
3. Di vittoria in vittoria
Raggiunto il lago Trasimeno, in Umbria, ormai a un passo da Roma, il condottiero punico colse l’ennesima grande vittoria, sterminando 15 mila Romani.
Sentendosi in pericolo come mai prima di allora, Roma si affrettò a nominare un dittatore, Quinto Fabio Massimo, che si guadagnò il soprannome di “temporeggiatore” per la scelta tattica di non affrontare direttamente Annibale, ma di logorarlo con finte e contromosse.
Intanto, il condottiero africano preferì non attaccare subito l’Urbe, ma puntò verso sud: sperava di sollevare i popoli italici contro Roma e voleva appostarsi in un luogo dove i collegamenti con Cartagine erano via mare e sarebbero stati più rapidi e sicuri. Inoltre, le regioni meridionali erano ricchissime di rifornimenti, che Annibale sperava di razziare per sé, privandone al contempo Roma.
Il confronto decisivo si consumò nelle pianure pugliesi. Presso Canne, il console Terenzio Varrone, che non apprezzava l’attendismo di Quinto Fabio Massimo, decise di schierare in battaglia il più folto esercito che Roma avesse mai messo in campo, formato da ben 80 mila legionari.
Annibale non aspettava altro. A Canne, il suo genio tattico brillò come non mai, infliggendo ai Romani la più cocente disfatta della loro storia. Con la fanteria leggera creò un centro flessibile nel suo schieramento: la formazione non doveva resistere, come ci si aspettava, bensì arretrare e attirare in una trappola le legioni romane.
Annibale dispose i suoi guerrieri secondo uno schieramento convesso: al centro, in posizione più avanzata, vi erano i fanti gallici e ispanici; ai lati, più arretrati, pose i Cartaginesi e gli altri africani.
Sulle ali, infine, c’era la cavalleria, con l’ala sinistra molto rinforzata per numero e qualità dei componenti, allo scopo di lanciare un attacco decisivo, mentre l’ala destra doveva limitarsi a operazioni di contenimento.
Il generale punico sapeva che il centro del suo schieramento non avrebbe resistito al violento urto dei Romani, e anzi contava proprio su questo. Infatti, al primo segnale di cedimento delle schiere cartaginesi, i legionari di Varrone si gettarono in avanti con grande impeto, ma in questo modo si incunearono tra le truppe nemiche collocate alle estremità.
Pensando di andare incontro a una splendida vittoria, i Romani furono dapprima attaccati sui fianchi e successivamente finirono per essere colpiti alle spalle dalla cavalleria numida, che nel frattempo aveva sbaragliato quella romana.
La battaglia si trasformò in un massacro: le otto legioni furono completamente circondate, e nello scontro morirono il console Emilio Paolo, quasi 45 mila soldati, 90 senatori e 30 tra ex consoli, pretori ed edili.
Nella foto sotto, Annibale, simbolo di perseveranza, compare nel mausoleo di Engelbert II di Nassau.
4. Braccato dal nemico
Con il trionfo di Canne, Annibale riuscì a ottenere che molte importanti località del Mezzogiorno abbandonassero l’alleanza con Roma per passare al suo fianco: tra queste Capua, che era la seconda città d’Italia.
Il condottiero punico restò, praticamente invitto, nell’Italia del Sud per più di dieci anni, durante i quali i Romani evitarono altri confronti diretti.
Nel 211, Annibale osò finalmente puntare su Roma, giungendo ad appena 3 km dall’Urbe. Ma poi decise di non cingerla d’assedio, e tornò alla sua guerra di logoramento nel Mezzogiorno.
Nel 203 fu richiamato a Cartagine, perché nel frattempo i Romani, guidati da Publio Cornelio Scipione, erano sbarcati in Africa. L’anno seguente, a Zama, ci fu lo scontro decisivo, nel corso del quale Annibale fu ancora in grado di applicare il suo genio tattico, ma Scipione lo superò, prevenendone le mosse.
Per Cartagine non c’era più niente da fare: il sogno dei Barca era svanito, e la Seconda guerra punica era definitivamente persa. Annibale, però, non aveva finito di mostrare le sue qualità al servizio della patria.
Dopo la sconfitta, il condottiero si trasformò in governante, avviando proficue riforme istituzionali ed economiche che rilanciarono Cartagine. Roma aveva un motivo in più per temere una rinascita del suo nemico più pericoloso. Così, nel 195, i Romani e gli stessi nobili punici avversari dei Barca costrinsero Annibale all’esilio.
Egli si rifugiò dal re seleucide Antioco III, tra la Siria e l’Asia Minore, e grazie al suo prestigio promosse una nuova guerra contro Roma, suggerendo al sovrano che lo ospitava di inviare un esercito nell’Italia del Sud, offrendosi di prenderne la guida.
Divenuto comandante della flotta siriana, nel 190 fu sconfitto dai Romani in una battaglia navale. L’anno seguente Antioco III venne definitivamente battuto, e Annibale dovette fuggire ancora. Giunto in Armenia e ottenuta l’ospitalità del re Prusia I di Bitinia, mostrò doti di abile urbanista, dirigendo i lavori per la nuova capitale Artaxana.
Ma i Romani non intendevano lasciare che l’indomito nemico di un tempo ordisse nuove trame contro di loro: nel 183 chiesero a Prusia di consegnarglielo. Piuttosto che entrare a Roma da prigioniero, Annibale scelse il suicidio.
A Libyssa, presso Bisanzio, sulle spiagge orientali del Mar di Marmara, bevve il veleno che aveva a lungo conservato in un anello. Nella foto sotto, la battaglia di Zama, ricostruita dal pittore barocco Bernardino Cesari.
5. Un leader per cento popoli. Difetti e pregi
- Un leader per cento popoli
Quello di Annibale era un esercito multietnico, che riuniva volontari e mercenari provenienti da tutto il Mediterraneo occidentale.
Gli elementi cartaginesi erano pochi: un pugno di fedelissimi che costituivano la base di una sorta di falange (e che finirono per combattere “alla romana”, spesso anche con equipaggiamenti nemici).
Molto più numerosi erano gli Iberici o Celtiberi (i Celti di Spagna) e i Nordafricani. Tra questi si distinguevano gli agili cavalieri numidi, arma formidabile di ogni esercito punico.
Annibale accolse nella sua armata molti Galli, dalla Francia ma soprattutto dalla Pianura Padana: furono loro i primi e più entusiasti ribelli contro Roma, che li aveva appena soggiogati.
Anche l’Italia del Sud fornì le sue reclute, come i guerrieri ellenici della Magna Grecia (ma anche qualcuno della madrepatria), quelli campani, osci, bruzi e lucani.
Un esercito composito per tradizioni, tattiche ed equipaggiamenti, molto difficile da gestire: ma Annibale vi riuscì alla perfezione, sfruttando al meglio, come avvenne a Canne, le caratteristiche specifiche dei vari contingenti nazionali.
- Annibale era una personalità complessa. Ecco i suoi pregi e difetti.
Pregi:
Tattica: le sue manovre in battaglia restano insuperate per l’abilità nel prevedere il nemico, attuando contromosse sorprendenti.
Strategia: la marcia dalla Spagna alla Pianura Padana attraverso le Alpi colse di sorpresa gli italici e li terrorizzò.
Diplomazia: creò armate eterogenee, come quelle di Alessandro Magno, integrando mercenari e alleati con abilità. Conosceva molte lingue.
Politica: chiamato a reggere Cartagine dopo la guerra, combatté malversazioni e frodi, riformò l’agricoltura e fu un abile economista.
Prestigio: era adorato dai suoi soldati, con i quali condivideva le fatiche, ed era meno feroce e crudele di tanti altri comandanti del suo tempo.
Tolleranza: non mirava a imporre il suo predominio né ai concittadini né ai popoli alleati di Cartagine.
Difetti:
Odio: il giuramento di vendetta fatto al padre da bambino non gli consentì di operare in piena lucidità e di capire le ragioni dei popoli amici di Roma.
Sottovalutazione: non seppe prevedere le capacità militari, morali e di rinnovamento di Roma, che in breve tempo padroneggiò le tattiche militari nemiche.
Superbia: riteneva di essere il miglior stratega della Storia, dopo Alessandro Magno. Aveva ragione, ma a volte ciò lo indusse a osare troppo.
Azzardo: non si accontentò di consolidare l’impero che aveva ereditato in Spagna, affrontando una velleitaria marcia sull’Italia partendo dalle Alpi.
Avversari: trascurò i problemi che minavano la sua forza alle spalle, ovvero i politici cartaginesi, restii ad appoggiarlo in una guerra lunga e dispendiosa.
Isolamento: rimase troppo a lungo in Italia ad aspettare una svolta, mentre la vera guerra si sarebbe condotta in Spagna, e poi in Africa, dove arrivò dopo Scipione.
Note
MOLTI TRIONFI, QUALCHE SCONFITTA
1. Sagunto - 219 a.C.
Dopo un lungo assedio, Annibale espugna la città iberica alleata dei Romani, provocando il casus belli con l’Urbe.
2. Ticino - 218 a.C.
Una volta soggiogate le tribù galliche, Annibale affronta una prima volta il console Publio Cornelio Scipione presso Victimulae, lungo il Ticino: il console rischia la vita e le legioni si ritirano, costrette a evacuare buona parte della Pianura Padana.
3. Trebbia - 218 a.C.
Annibale schiera una riserva nascosta nella prima grande battaglia della Seconda guerra punica, sul fiume Trebbia. Impegna i Romani frontalmente con gli elefanti e il grosso dell’esercito, ma intanto mille cavalieri e mille fanti prendono il nemico alle spalle, annientandolo.
4. Trasimeno - 217 a.C.
Approfittando della nebbia, in un’imboscata lungo le rive del lago, Annibale sorprende l’esercito romano comandato dal console Gaio Flaminio, che muore in battaglia.
5. Canne - 216 a.C.
Nelle pianure di Puglia, Annibale compie il suo capolavoro tattico. Organizza il cedimento e la ritirata del suo centro, composto di fanti gallici e iberici, e con i veterani accerchia le legioni romane avanzanti, avvolgendole.
La cavalleria punica, sopraggiunta alle spalle dei nemici, completa l’opera. Restano sul campo 80 mila avversari, un console e molti senatori: la peggiore catastrofe della storia romana.
6. Grumento - 207 a.C. Annibale rischia grosso, attaccato frontalmente dal console romano Nerone, che ha disposto alcune truppe alle spalle dei nemici. Il condottiero punico salva il proprio esercito grazie a prudenza e preveggenza, tenendolo vicino all’accampamento per lasciarsi aperta una via di fuga, che alla fine è costretto a usare.
7. Zama - 202 a.C. Nelle pianure presso Cartagine, Annibale affronta la sfida finale con il giovane generale romano Publio Cornelio Scipione, che con il suo sbarco imprevisto ha messo alle corde i Cartaginesi. Il romano ha studiato e imparato le tattiche di Annibale, ma costui, prevedendo il tentativo di accerchiamento, schiera una riserva strategica, portandosi vicino alla vittoria. La resistenza delle legioni (le stesse che erano state sconfitte a Canne) e il ritorno della cavalleria romana hanno infine la meglio.