Nessuno è mai sceso più in basso di Herbert Nitsch. Non trattenendo il respiro, almeno.
L’austriaco è infatti arrivato alla profondità di 214 metri, in apnea, riprendendo fiato solo quando è risalito in superficie: un record, nel 2007.
Ma non solo. Nitsch in seguito ci ha riprovato ed è sceso a -253,2 metri, anche se il primato non è stato convalidato da un organismo ufficiale. Pare davvero un’impresa impossibile, almeno a noi comuni mortali, che in genere riusciamo a stare senza respirare per pochi attimi…
Eppure, l’apnea non è solo uno sport in cui si mettono alla prova – e si superano – i limiti del corpo umano: oggi è diventata anche un allenamento per atleti che di norma gareggiano ben distanti dagli abissi.
Tanto che può capitare di vedere sciatori che si preparano a scendere sulle piste… in piscina, a vari metri di profondità, trattenendo il fiato, ma anche campioni di scherma o di triathlon.
Il loro obiettivo è migliorare le prestazioni e la respirazione, ma anche la capacità di gestire lo stress e la concentrazione. Ma in che modo l’apnea può allenare corpo e mente?
E che cosa succede nel nostro corpo quando ci muoviamo sott’acqua, restando a lungo senza respirare (il record è di ben 11 minuti e 35 secondi in apnea statica, cioè fermi sott’acqua)? Scopriamolo insieme.
1. Consumi ridotti e niente implosione
Per capirlo, cominciamo dall’inizio, scoprendo cosa succede quando smettiamo di inspirare e ci immergiamo.
Appena mettiamo il viso sott’acqua, scatta il “riflesso di immersione”: una serie di risposte che, in pratica, riducono il consumo di ossigeno.
È un riflesso fisiologico comune ai mammiferi, che condividiamo con animali marini come foche e delfini, anche se in questi si esprime in maniera ben più evidente.
A farlo scattare, per noi, è l’immersione del corpo in acqua in apnea, ma anche il fatto di sentire il freddo sulla faccia, rilevato da appositi recettori sul viso. Che reazioni fa partire?
Innanzitutto, la riduzione del battito cardiaco: si può passare da 70 battiti al minuto a una cinquantina; un apneista allenato, che di norma può avere 50/60 pulsazioni, scende a 35/40 e anche meno.
La riduzione del battito cardiaco (con altri fattori) diminuisce il consumo di ossigeno e compensa l’aumento della pressione sanguigna dovuto a un altro fenomeno che avviene con l’apnea: la vasocostrizione periferica.
I vasi di braccia e gambe si restringono, cioè, e alla “periferia” del corpo arriva meno sangue; questo deve infatti affluire soprattutto verso polmoni, cuore, e cervello, organi che non possono permettersi di non avere un apporto costante di ossigeno.
L’afflusso di sangue al torace, inoltre, ha un effetto importantissimo: è grazie a questo che gli apneisti riescono a scendere in profondità, contrastando la pressione esterna dell’acqua che tende invece a “schiacciare” le vie aeree e i polmoni come palloncini pieni di gas.
È il fenomeno dell’emocompensazione: il sangue che arriva al torace, essendo un liquido e quindi incomprimibile, lo protegge dalla pressione esterna.
Fino a metà del secolo scorso, i fisiologi ritenevano che, al di sotto dei 50 metri, l’uomo sarebbe “imploso” per la riduzione del volume dei polmoni e il collasso della cassa toracica. Poi, invece, si è visto che può arrivare molto più in basso.
2. Sempre più giù
Lo dimostrò per primo Enzo Maiorca (nella foto accanto), che nel 1962 scese a -51 metri.
Il limite poi continuò a essere abbassato, dallo stesso Maiorca, da un altro campione come Jacques Mayol – fu studiando le sue immersioni, tra l’altro, che i fisiologi identificarono il meccanismo dell’emocompensazione – e da altri ancora, come Umberto Pelizzari, fino ai record di Herbert Nitsch, sceso ben sotto i 200 metri, con cui è appunto iniziato il nostro viaggio sott’acqua.
Comunque, man mano che passano i minuti di apnea, che sia fatta in superficie o scendendo negli abissi, l’ossigeno in circolo viene consumato, mentre aumenta l’anidride carbonica, non più smaltita.
Ci sono tanti modi per tenere il fiato. Nell’apnea statica ci si immerge a pelo d’acqua in piscina, stando il più possibile; in quella dinamica si nuota in orizzontale, con o senza pinne.
C’è poi l’apnea in assetto costante: si va in profondità, con o senza pinne, scendendo e risalendo con una zavorra, per esempio alla cintura: il record è di 129 metri, omologato dall’Aida, una delle due organizzazioni che regolano questo sport (l’altra è la Cmas).
In assetto variabile, invece, si scende con una zavorra mobile di 30 kg chiamata “slitta” e si risale senza. E nell’assetto variabile non regolamentato si può scendere con ogni peso e risalire con palloni o verricelli; il record Aida, -214 metri, è di Herbert Nitsch.
In profondità c’è il vantaggio che la pressione dell’acqua esterna aumenta la pressione di un gas come l’ossigeno, che quindi “passa” meglio dai polmoni al sangue. Bisogna però stare attenti quando si risale, perché il poco ossigeno che in profondità era sufficiente non è più abbastanza e si può perdere conoscenza.
Il calo di ossigeno e l’aumento dell’anidride carbonica, comunque, sono stimoli potenti, che ci fanno sentire la necessità di riemergere per respirare. Con l’allenamento, il momento in cui il bisogno di respirare diventa irresistibile può però essere spostato un po’ più in là.
Per esempio con tecniche di ventilazione profonda e controllata, da fare prima dell’immersione, che permettono da un lato di riempire completamente i polmoni d’aria – cosa che di norma non facciamo – e dall’altro di fare anche il “pieno” di ossigeno presente nel sangue.
3. Questione di controllo
E poi c’è l’autocontrollo: fondamentale, per esempio, quando la “fame d’aria” ci porterebbe ad accelerare la risalita, facendoci però consumare troppa energia e rischiando così la perdita di coscienza prima della superficie.
Proprio il miglioramento della respirazione e il controllo mentale sono tra i fattori per cui l’apnea oggi è considerata un addestramento ideale per molti sport.
Usano l’apnea negli allenamenti, per esempio, gli atleti della nazionale spagnola di sci e snowboard, o anche la campionessa italiana di scherma Mara Navarria (nella foto).
Che cosa fanno, in una piscina, gli sportivi non “acquatici”? Possono fare esercizi per migliorare la respirazione: per esempio, buttando fuori l’aria e allenando il diaframma.
L’apnea rende infatti più elastici il diaframma e i muscoli del torace, sfrutta meglio il volume respiratorio, migliora la capacità di recupero dopo lo sforzo.
Sembra un paradosso, ma per stare senza respirare si deve imparare a farlo bene. L’apnea è però soprattutto una disciplina mentale: un altro beneficio è infatti imparare a controllare le reazioni nelle situazioni di stress, cioè come in gara.
Inoltre, si può fare anche un allenamento muscolare, utile per tutti gli sport: per questo gli atleti scendono anche a profondità di 15 o 20 metri, in differenti condizioni, per esempio con i polmoni pieni d’aria o vuoti, o a diverse velocità.
L’utilità? Quando ci si allena in apnea, i muscoli arrivano a lavorare in carenza di ossigeno: ovvero passano al metabolismo anaerobico, il sistema che permette al corpo di produrre energia con reazioni chimiche che non usano ossigeno.
Un esercizio anaerobico può servire ad aumentare la resistenza dei muscoli e a gestire la fatica: fatto in acqua, in apnea, fa ottenere gli stessi risultati in minor tempo ed è meno traumatico per le articolazioni.
4. In orbita
Trattenere il fiato, magari nel blu di una piscina per apneisti (in Italia c’è la più profonda al mondo, la Y-40 di Montegrotto Terme che tocca i -42,15 metri, qui nella foto a sinistra), aiuta perciò ad avere muscoli più efficienti e un ottimo controllo della mente e della respirazione.
Aspetti che servono non solo a chi fa un’immersione negli abissi, ma anche a chi si trova a lavorare in un luogo altrettanto inospitale come lo spazio: gli astronauti.
Per questo gli scienziati vogliono capire meglio quali sono le risposte del corpo durante le performance in ambienti estremi – in immersione o in assenza di gravità – e applicare poi i risultati di queste ricerche nelle future missioni spaziali.
È l’obiettivo del progetto SkiScubaSpace, una collaborazione tra Divers Alert Network Europe, fondazione che fa ricerche per rendere sicure le immersioni, e Altec (Aerospace logistics technology engineering company, società di Agenzia spaziale italiana e Thales Alenia Space).
I ricercatori stanno conducendo vari esperimenti – monitorando cuore e polmoni durante lo sforzo o misurando la risposta cerebrale, muscolare e ormonale all’esercizio – in tre condizioni: sott’acqua, in assenza di gravità e anche in alta montagna.
Sono situazioni molto diverse, ma con varie similitudini, come il galleggiamento nello spazio o nell’acqua, in cui si perdono i riferimenti della posizione del corpo. O i rapidi cambi di pressione a cui sono sottoposti astronauti, piloti, apneisti e sciatori estremi.
Lo studio ci darà indicazioni per migliorare le prestazioni umane e magari anche per superare un handicap: in orbita e in acqua non poter usare le gambe non è un limite, e l’addestramento in apnea nelle piscine può essere il primo passo per portare un disabile nello spazio.
E in ogni caso imparare a restare senza respirare in acqua potrà servire per restare senza fiato – metaforicamen- te – guardando la Terra dall’alto.
5. Il corpo in discesa
Ecco che cosa succede al corpo in una immersione in apnea in assetto costante: ovvero, si scende e si risale con la stessa zavorra. Nuotando con le pinne, si è arrivati a una profondità record di 129 metri.
- SUPERFICIE
Partono reazioni che fanno consumare meno ossigeno. Diminuisce il battito cardiaco; i vasi periferici si restringono, il sangue affluisce a polmoni, cuore, cervello.
- 10 METRI
La pressione (già a -10 metri è di due atmosfere) schiaccia polmoni e vie aeree. Agisce anche sul timpano: bisogna fare manovre di compensazione.
- 20-25 METRI
Gli apneisti, da questo punto, possono scendere lasciandosi “cadere”, quasi senza sforzo.
- 50 METRI
Si pensava fosse un limite: oltre, la pressione dell’acqua avrebbe fatto “implodere” il torace. Ma l’afflusso di sangue ai polmoni la compensa e permette di scendere ancora.
Serve massima concentrazione, per mantenere il corpo idrodinamico e continuare la compensazione per le orecchie.
- 60/50 METRI
Inizia la “fame d’aria”: si manifesta con contrazioni del diaframma, che l’atleta deve controllare.
L’ossigeno nel sangue diminuisce, l’anidride carbonica (non smaltita) sale sempre più.
- All’uscita, per recuperare, l’atleta deve inspirare al massimo delle possibilità, espirando invece fino a metà.
Curiosità:
- 11 MINUTI...e 35 secondi.
Record di Stéphane Mifsud (F) in apnea statica del 2009.
- 24 MINUTI...e 3 secondi.
Record di Aleix Segura (E) dopo aver respirato ossigeno puro.
- 8/10 LITRI
L’aria immessa nei polmoni di un apneista (la capacità media di un adulto è 6 litri).
- 300 METRI
Distanza massima percorsa nuotando in orizzontale (apnea dinamica).
- 5,6 BATTITI
Pulsazioni al minuto, 6 in apnea: il valore estremo registrato nel partecipante di un esperimento.
- 6 RESPIRI
La frequenza al minuto dei respiri di un apneista allenato: è più bassa della media.
- 214 METRI
Profondità raggiunta da Herbert Nitsch (A) nel 2007: è il record convalidato (dalla Aida).