Dove ci ritrovermo dopo la fine della nostra vita?
Tutte le religioni descrivono luoghi di pace illuminati dalla luce di Dio.
Un tunnel di luce, un intenso senso di pace, il distacco dal corpo, il tuffo in una piscina profonda.
Quelli che hanno fatto sfiorato la morte e ne sono tornati indietro, così descrivono il momento del trapasso all’Aldilà.
Al cinema è stato spesso rappresentato come una luce accecante e la più celebre è quella di Hereafter di Clint Eastwood. Lo stesso bagliore avvolgente compare nell’iconografia attraverso i secoli.
La scienza attribuisce queste sensazioni extrasensoriali vissute dai fortunati che possono parlarne – quelli che la porta luminosa l’hanno appena intravista attraverso una morte cerebrale virtuale e poi sono rientrati nella dimensione terrena – al rilascio di endorfine nel cervello.
Una recente ricerca dell’Università di Southampton, dal titolo Resuscitation, condotta su oltre duemila persone che hanno subìto un arresto cardiaco, ha rivelato la consapevolezza dello stato del trapasso nei pazienti in stato di premorte.
Ma se questa dimensione trascendentale esiste davvero, che cos’è esattamente? Dove è collocata?
Se la scienza continua a studiare cause chimiche e biologiche alla base della percezione dell’Aldilà, le religioni ne hanno avuto da sempre un’idea chiara e consapevole, connotandone l’ubicazione, attribuendole un significato e stabilendo quando e come vi si accede.
Di sicuro il bagliore che le persone in stato di premorte riferiscono ha molto a che fare con la dimensione paradisiaca descritta dalle religioni.
Per la maggioranza dei credo religiosi, soprattutto monoteisti, il paradiso è un luogo luminoso, celeste, in cui si ritiene che le anime giuste vadano dopo la morte in eterno riposo; una dimensione che ricompensa le virtù dei buoni.
Deriverebbe da una parola sanscrita, paradésha, che si riferisce a un Paese supremo, trasformato poi in armeno in pardez, in ebreo e in persiano in pardes e in greco in paradeisos, il cui significato sarebbe indistintamente quello di magnifico giardino, costellato d’alberi e irrigato da acque pure.
Ma vediamo come le principali religioni esistenti descrivono il Paradiso.
1. Il giardino delle delizie ebraico
Per l’ebraismo un corpo senz’anima non esiste.
Dalle antiche scritture ebraiche, la dimensione post-mortem è stata considerata un’esistenza depauperata della gioia.
Al momento del trapasso, il soffio divino, il rouah, che muove corpo e anima, ritorna da Dio.
L’anima, d’altra parte sopravvive in un luogo, chiamato shéol, che non è esattamente un paradiso. Il motivo per il quale non si approfondiva il tema della sopravvivenza nell’oltretomba sta nel fatto che si voleva evitare un’idolatria dei morti.
Ma se è vero che nell’Antico Testamento l’ebraismo non si sbilancia sul paradiso, lo fa invece nel Talmud (che significa insegnamento ed è la raccolta colta e rielaborazione della Legge, la torah orale, trasmessa da Dio a Mosè sul Monte Sinai), messo per iscritto dopo la distruzione del secondo tempio d’Israele nel 70 a.C. per opera dei Romani.
In questa sede appare una descrizione più ampia del paradiso, che non è il paradiso terrestre, ma il giardino dell’Eden, Gad Eden, alla lettera “giardino delle delizie”, una dimora di beatitudine.
Gli ebrei talmudisti (quelli che seguono le integrazioni del Talmud) affermano che questo giardino dell’Eden è ben sessanta volte più ampio dell’Egitto ed è collocato nella settima sfera del firmamento.
È circoscritto da due porte da cui entrano sessanta miriadi di angeli e dalle quali filtra una luce che illumina le figure come stelle nel firmamento.
Il giusto che vi mette piede viene svestito e incoronato con due corone (una d’oro e l’altra di pietre preziose), gli viene offerto un ramo di mirto e davanti a lui si aprono le danze degli angeli, che poi lo conducono in un luogo circondato da quattro fiumi: uno di miele, uno di latte, uno di vino e l’altro di incenso.
Qui ottanta miriadi di alberi si elevano in ogni angolo, in ciascuno dei quali siedono sessanta miriadi di angeli: esseri la cui sostanza è per metà fuoco e metà acqua, che cantano gradevolmente per dare il benvenuto.
Al centro del giardino si innalza il grande albero della vita, grazie al quale tutto il paradiso gode di una piacevole ombra.
2. Tutti in bianco nei cieli cristiani
Nel Nuovo Testamento la parola greca Paradeisos è utilizzata tre volte (nel Vangelo secondo Luca XXIII, 43; nella lettera di S. Paolo ai Corinzi XII, 1-4 e nell’Apocalisse), ma non viene definito il suo significato.
Il paradiso viene indicato come cielo, dimensione celeste.
Nel cristianesimo, però, il paradiso è stato a lungo descritto, soprattutto in epoca medievale, come un luogo chiuso da tre porte difese da angeli e delle quali San Pietro è il custode; una dimensione celeste allietata dalle voci dei cherubini e dei serafini, che cantano dolci canzoni al Signore.
Qui i fortunati, tutti vestiti di tuniche bianche, sono collocati su troni aurei, tempestati di pietre preziose. Di quest’immagine sono rimaste diverse testimonianze in tanti bassorilievi.
Con il passare del tempo, invece, il paradiso è stato indicato dai cristiani non tanto come un luogo definito, ma piuttosto come uno stato di benessere e di beatitudine, dove si gode della pienezza dell’amore di Dio.
In questo contesto sono ammesse alla gioia suprema solo le anime pure, morte nella grazia del Signore oppure che si sono riscattate nella dimensione del purgatorio. Dopo la resurrezione, gli eletti potranno gioire sia in corpo sia in spirito.
Per i testimoni di Geova, invece, la “terra paradisiaca” si trova sul nostro pianeta. Non per tutti i cristiani il paradiso è una dimensione ultraterrena. Per i mormoni, gli avventisti e anche per i testimoni di Geova non esistono né paradiso né inferno.
In particolare questi ultimi ritengono che coloro che sono stati retti nella vita un giorno ricominceranno a vivere in una terra paradisiaca, che però si troverebbe sul nostro stesso pianeta.
È qui infatti che avverrà il Giudizio universale e le anime potranno rivivere con o senza il loro corpo. Qui si attuerà anche la scissione tra bene e male: il bene rimarrà sulla Terra, mentre il male sarà accolto dal diavolo.
3. I 70 padiglioni d’oro islamici e la morte per gli atei
Anche per gli islamici il paradiso è il luogo deputato alla felicità eterna e vi accedono quelle anime (che secondo i musulmani si separano dai corpi al momento della morte) che in vita hanno vissuto da credenti, rimanendovi in perpetuità (Corano, 2:82).
Il paradiso è conosciuto come Janna ed è un rigoglioso giardino disseminato di fontane e bagnato da fiumi, sempre di miele, latte, vino e acqua pura.
È destinato ai timorati di Dio e ai beati. Solo i martiri e i profeti beneficiano di un accesso diretto al paradiso, ricevendo in pieno l’immensità della luce.
A ciascuno di loro vengono offerti settanta padiglioni d’oro e pietre preziose, dove si posano settecento letti luminosi che sono attorniati da altrettante creature celesti.
Una delle particolarità del paradiso islamico sta nel fatto che anche alcuni animali sono ammessi. Quali? Il cammello del Profeta Elia, l’ariete di Abramo, il cane dei sette dormienti, la balena di Giona, la giumenta Borac, la formica e l’upupa di Salomone.
Come i cristiani, i musulmani credono che la vita terrena sia solo un periodo di passaggio e preparazione in vista di questo mondo trascendentale lieto ed eterno, che è il paradiso.
Un giorno verrà in cui l’universo intero sarà distrutto e i morti risorgeranno per l’intervento di Dio. Questo giorno (il giorno del giudizio universale) sarà l’inizio di una vita eterna.
Gli atei, cioè coloro che non credono nell’esistenza di Dio, affermano che l’uomo è fatto di carne, negando l’esistenza di un’anima che sopravvive al corpo. Quindi rifiutano anche la dimensione trascendentale dell’oltretomba.
La morte rappresenta la linea di demarcazione della vita, oltre la quale c’è il nulla. Con la morte l’attività elettrica dei neuroni cessa e con essa finisce la nostra vita.
La morte rappresenta dunque la fine irrimediabile dell’individuo, laddove, per il credente, la vita sulla Terra è soltanto un passaggio in vista dell’eternità celeste. In questi termini, la vita per gli atei va vissuta per il piacere che arreca all’uomo fintanto che dura.
4. Il Nirvana per i buddisti e il regno taoista di Giada
I buddisti tibetani hanno molta più facilità a decifrare il significato e le fattezze del regno ultraterreno perché dispongono del cosiddetto libro dei morti, il Bardo Thodol, che è una sorta di manuale che descrive nei dettagli la vita dopo la morte e tutte le modalità di accesso al paradiso buddista, il Nirvana.
Un luogo, o piuttosto uno stato, dove l’estinzione della sofferenza e al tempo stesso la contemplazione della Luce assicurano beatitudine eterna.
I buddisti riconoscono ventotto cieli o paradisi, che sono la conseguenza del loro sistema cosmologico. Il passaggio da un cielo all’altro avviene per merito.
La sfera più alta dell’Olimpo buddista è rappresentata dal Monte Meru, tempestato d’oro, argento, zaffiri e cristalli. È diviso in più piani, abitati dagli dei.
Dal quarto, inizia la serie di sei cieli a strati, che costituiscono quello che viene chiamato il “mondo dei desideri” perché tutti gli esseri che lo abitano sono soggetti agli effetti della lussuria.
Per i taoisti cinesi tutto è materia, una materia che si assottiglia sempre più, fino a sparire. Non c’è quindi un reale bisogno di morire per ascendere ad una dimensione immortale.
Ciò avviene grazie a una speciale ascesi, dal sapore quasi alchemico, e a una condotta di vita virtuosa. Nel momento del trapasso, i resti del corpo si dissolvono ed è allora che il nuovo corpo immortale prende il sopravvento e si eleva a una dimensione d’immortalità, il regno di Giada, fitto di alberi d’oro.
L’imperatore di Giada è considerato il sovrano del paradiso cinese. Non tutti naturalmente possono beneficiare di questo passaggio. È un’opzione riservata a pochi e meritevoli, dotati di saggezza e conoscenza.
5. Di passaggio nel pantheon indù
Per gli induisti l’anima del defunto migra attraverso il pantheon, fatto di diverse sfere.
Anche gli induisti infatti ammettono l’esistenza di più cieli o paradisi per gli eletti.
Chi dimora in uno di questi non vi resta perennemente, come succede nel paradiso dei credo monoteisti, ma dopo l’espiazione fa ritorno sulla Terra per condurre una nuova vita.
Gli induisti insomma si fermano solo di passaggio nei cieli dove si rifocillano in attesa di reincarnarsi in una vita superiore per arrivare a raggiungere l’ideale di felicità, identificabile nell’accesso alla verità assoluta.
I paradisi induisti sono: l’lndra-Loka o Swarga; quello di Shiva, chiamato Kailasa; quello di Vishnou, Vaikountha; quello di Brahma, Brahma-loka; e il Déva-loka. Tutti circondano la cima del Monte Meru:
- L’Indra-Loka, che significa cielo, è il primo ed è quello più vicino alla Terra. È destinato a quelle anime che devono espiare qualcosa; la strada per arrivarvi è spaziosa e costellata di magnifici palazzi, fioriture colorate e grandi alberi, dove si ascoltano i canti armoniosi delle divinità celesti maschili, i gandharva, e si assiste alle danze voluttuose delle divinità femminili, le apsara.
- La sfera successiva è la Kailasa, uno spazio destinato a chi nella vita è morto per una grande causa. Si trova in corrispondenza del monte Kailash Parbat, in Tibet. Qui vive Shiva (nella foto), in compagnia del Dio della ricchezza, Kouvéra.
- Il Vaikuntha è invece il paradiso di Vishnu; si trova sul versante meridionale del Monte Meru ed è pieno di oggetti d’oro e preziosi scintillanti. Nel mezzo di questo girone sorge un magnifico palazzo abitato da Vishnu e Lakshmi, sua moglie. In questo regno, in particolare, ma anche in tutti gli altri regni celesti, ci si imbatte in fiori, alberi, animali, uccelli, soprattutto pavoni.
- C’è poi il Satyaloka, il cosiddetto mondo della verità chiamato anche Brahmaloka, il quarto cielo, in cui vive il dio Brahma con la moglie Saraswati. Qui il fiume Gange ha una funzione purificatrice. I destinatari di questo processo di purificazione sono soprattutto le persone che appartengono a una casta inferiore.
- Infine, in cima a questa ideale piramide c’è il Deva-loka (alla lettera “il più alto dei cieli”, dove risiede il dio più importante) ed è qui che le anime, una volta purificate, dopo il passaggio nei vari gironi, finalmente approdano. È sempre qui che si trova la città santa, dove a regnare è l’intelligenza universale.