Qualche volta la Storia è scritta dagli uomini, spesso dal caso.
Se Camillo Benso, conte di Cavour, avesse messo in pratica il proposito di suicidarsi, come lasciava intuire in una lettera del 19 aprile 1859 al nipote Ainardo a causa del fallimento della sua strategia (concordata con Napoleone III) per trascinare in guerra l’Austria, ora l’Italia, forse, non esisterebbe.
Invece la guerra arrivò, in extremis. Mutuando dalla matematica, potremmo definire questo episodio “Primo paradosso di Cavour”.
Già: lui, lo scafato e illuminato statista, reso immortale dal pennello di Francesco Hayez che lo ritrasse in un austero completo scuro, lo sguardo torvo sotto gli occhialini ovali, in fondo era fragile. Tanto fragile.
Al punto da aver preso in considerazione, più di una volta nella vita, l’idea di compiere l’estremo gesto.
Ma chi era veramente Camillo Benso, conte di Cavour? Scopriamolo insieme.
1. I paradossi di Cavour
L’uomo-Cavour è interessante almeno quanto il politico, eppure infinitamente meno conosciuto.
Molti dei vizi e delle virtù di uno dei padri dell’Unità italiana emergono dalle migliaia di lettere e dalle memorie custodite presso gli archivi di Santena (residenza estiva dei Benso di Cavour), Torino e Roma, scritte per buona parte in francese, la sua lingua natia.
«Non è un mistero che Cavour si esprimesse meglio in francese» dice Frédéric Ieva, curatore della traduzione in italiano di alcune sue lettere. «In realtà è lui stesso che ne parla in una missiva del 1835 indirizzata allo scrittore e politico Cesare Balbo».
Le parole del conte sono inequivocabili: “La lingua italiana mi è rimasta, sino a oggi, completamente estranea. Non solo non saprei servirmene con eleganza, ma mi sarebbe impossibile evitare di commettere errori numerosi e grossolani”.
Ecco dunque il “Secondo paradosso di Cavour”: anelava a guidare un Paese di cui non conosceva bene neanche la grammatica.
E da qui si arriva diretti al “Terzo paradosso”: era stato a Parigi, Londra, Bruxelles e Ginevra (dove viveva parte della sua famiglia), ma non viaggiò mai nel resto dello Stivale.
Negli ultimi anni di vita fece una puntata a Firenze, però non visitò né Roma né il Mezzogiorno, sui cui abitanti nutriva peraltro parecchi pregiudizi. Bizzarro che uno così si fosse messo in testa di unificare l’Italia.
E in effetti la sua idea di Italia, una confederazione di tre regni (uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud), non era proprio quella che poi si realizzò. L’idea di partenza di Cavour era che gli Stati italiani fossero tutti mal governati.
Pensava che un buon governo liberale e la libertà di commercio potessero da soli cambiare il Paese. Insomma, era un visionario, uno a cui piaceva rischiare, che azzardava sullo scacchiere italico come su uno dei tavoli da gioco del suo amato whist.
Nella foto sotto a sinistra, Michele Giuseppe Francesco Antonio Benso di Cavour (1781-1850) padre di Camillo Benso conte di Cavour (a destra).
2. Sfida meridionale
Però rispetto al Mezzogiorno commise un errore, quello di avvalersi dei consigli di esuli come i politici napoletani Carlo Poerio e Pasquale Stanislao Mancini, che nel 1860-61, quando si realizzò l’Unità, erano fuori dalle loro realtà da una decina d’anni.
L’annessione del Regno delle Due Sicilie, profondamente diverso, sul piano economico e sociale, dal Centro-Nord della Penisola, era un’impresa colossale, della cui difficoltà neppure Cavour si rese conto.
Nacque così la questione meridionale. In effetti molte industrie del Mezzogiorno avrebbero avuto bisogno di un periodo di protezione, invece furono lasciate in balìa del mercato come quelle dell’ex regno sabaudo.
Che però erano state investite dalle vulcaniche politiche economiche cavouriane già da anni e ormai camminavano con le proprie gambe. Il germe più grave della disunità, il gap economico tra le dinamiche potenze produttive del Nord e le macchinose potenze “retrò” del Sud, sarebbe sopravvissuto fino a oggi.
Peccato, perché le idee di Cavour erano di respiro europeo. I contatti e le letture gli avevano suscitato una fremente voglia di portare l’Italia malheureuse, “infelice”, allo stesso livello di progresso degli Stati stranieri cui guardava con ammirazione, Francia e Inghilterra su tutti.
Questo era il suo sogno sin da giovane. Poiché la politica era la sola cosa che lo interessasse davvero. Il resto lo aveva sempre trovato noioso. Talvolta insopportabile. Era una testa calda, un insubordinato, solito a provocare i suoi superiori fin dai tempi dell’Accademia militare di Torino.
Arrivò al punto di rendersi sgradevole persino al re Carlo Alberto, alla cui corte rivestiva il ruolo di paggio. Una funzione umiliante, resa intollerabile dal fatto di doverla esercitare inguainato in un’uniforme rossa che lo faceva assomigliare “a un gambero”.
L’insofferenza verso l’ordine costituito gli avrebbe causato grane a non finire, è vero, ma anche il rispetto degli avversari politici.
3. Viveur di alta società
Camillo era nato a Torino il 10 agosto 1810, secondogenito del nobile piemontese Michele Benso e della ginevrina Adele di Sellon.
Il nome gli era stato dato per rendere omaggio a Camillo Borghese e Paolina Bonaparte (sorella di Napoleone) che lo tennero a battesimo.
Fin da subito mostrò di non avere grande propensione per lo studio, quanto piuttosto per la buona tavola, perciò la nonna paterna, Filippina de Sales, prese a chiamarlo le gros Camille, “il grosso Camillo”.
A lui però l’aspetto fisico non importava molto; quel che invece gli premeva era fare esperienze “sul campo”, in tutti i sensi.
L’11 maggio 1816 indirizzò, proprio alla nonna, una lettera nella quale confessava di aver conosciuto “una graziosa giovane, una dama piena di fascino che io chiamo cocotte, ma il suo nome è Giulietta ‘Barolina’”. Camillo aveva solo... 6 anni, ma come donnaiolo prometteva bene.
Dal 1820 al 1825 il giovane conte fu in Accademia, dove continuò a dare parecchi grattacapi ai genitori (“Non sei più un bambino e la tua condotta deve essere illuminata e diretta dai tuoi genitori, perché ora non si potrà più parlare con leggerezza dei tuoi atti sconsiderati” gli scrisse con durezza la madre).
Poi, diventato ufficiale del Genio, fu spedito in varie località a seguire lavori di fortificazione di presidi militari e, nel 1830, approdò a Genova, dove conobbe la marchesa Anna Giustiniani, donna sposata e con figli.
La loro liaison scandalosa durò qualche anno. Tempo dopo “Nina” si sarebbe suicidata, qualcuno dice per non aver mai potuto dimenticare il suo Camillo.
Lasciata la divisa, a 22 anni Cavour diventò sindaco di Grinzane, dove la famiglia aveva vari possedimenti, e a 25 prese a girare tra Parigi, Londra e Bruxelles per studiare la realtà economica e industriale di quei Paesi.
Godendone nel contempo anche la vita e i vizi. Chi s’immagina un conte bacchettone sbaglia di grosso. Dai conti dei ristoranti di Parigi e Londra, conservati nell'archivio dell'Associazione amici della Fondazione Cavour di Santena, si capisce che era un bon vivant.
Oltre ai vizi, però, c’erano le virtù. La prima era quella di saper cogliere le buone idee degli stranieri, come le macchine a vapore e le ferrovie. La seconda era quella di riuscire a metterle in pratica in casa propria. Così Cavour chiamò ingegneri inglesi a gestire le ferrovie italiane, che erano nate private e non pubbliche.
Il conte era uno che vedeva lontano. Si era fatto introdurre negli ambienti inglesi da lord William Brockedon, che cercava ossessivamente le prove del passaggio di Annibale al di qua delle Alpi. Lo aveva conosciuto nel 1831 a Bard, all’imboccatura della Valle d’Aosta, dove era stato mandato a seguire l’edificazione di un forte.
Camillo veniva spesso dileggiato per le sue frequentazioni (lo chiamavano “milord Camillo” ), fin quando i risultati ottenuti non mettevano a tacere gli spiritosi. Dagli inglesi imparò per esempio l’uso del guano per fertilizzare i terreni agricoli.
Il passo successivo fu farsi finanziare da una banca di Liverpool per acquistarne grandi quantitativi: una parte la destinava alla tenuta familiare di Leri, nel Vercellese, di cui era diventato amministratore nel 1835, un’altra la rivendeva.
Dopo qualche anno era diventato un businessman: “Cerco di organizzare una fabbrica di concimi, una specie di guano. In Inghilterra questo genere di stabilimenti ha avuto un gran successo. Perché esso sia completo occorre che una simile azienda sia unita a una fabbrica di prodotti chimici”, scriveva all’amico francese nel 1847.
Nella foto sotto, Cavour nei panni di Don Abbondio, in una parodia dei Promessi Sposi: il matrimonio fra il Piemonte (Renzo) e l’Italia (Lucia) è osteggiato da Napoleone III, che nel 1859 non volle proseguire la guerra contro l’Austria.
4. Responsabilità, amici e nemici
La svolta politica del conte era però vicina.
A mettergli la pulce nell’orecchio fu il padre, che nel 1840, dopo che Camillo aveva perso alla Borsa di Parigi la ragguardevole cifra di 45 mila franchi a causa di investimenti sbagliati, gli inviò soldi e una lettera illuminante. Gli scrisse che doveva smetterla di fare il contadino in città e l’elegantone in campagna.
Camillo era abituato a chiamare i dipendenti di Leri “sudditi” e decideva persino dei loro matrimoni, quasi fosse un signorotto feudale.
Ciò che invece il genitore gli raccomandò caldamente fu di imitare Cesare Alfieri, primo scudiero di Carlo Alberto e tra i futuri estensori dello Statuto Albertino: quello sì che era un uomo di peso!
Cavour soffrì per tutta la vita del fatto di essere sempre visto come il fratello cadetto (il legittimo erede delle fortune familiari era il fratello maggiore, Gustavo): la spinta all’autoaffermazione e all’imposizione di sé gli derivarono da lì.
Così nel 1847 il conte diventò direttore del periodico Il Risorgimento. Fu l’esordio sulla scena del Cavour politico, che per anni aveva messo a punto la sua dottrina moderata basata sul juste milieu, la giusta distanza da tutti gli estremismi.
L’anno dopo venne eletto deputato al parlamento del Regno di Sardegna e nell’ottobre del 1850 entrò a far parte del governo come pluriministro (agricoltura, commercio, marina e, qualche mese dopo, anche finanze).
In 15 anni di politica attiva Cavour strinse amicizie preziose, ma si creò anche inimicizie ostinate. Ecco alcuni Cavouriani amici fedelissimi e irriducibili nemici:
- AMICI
• Michelangelo Castelli, giornalista e senatore, fu fedelissimo di Cavour sin dalla fondazione del giornale Il Risorgimento. È probabile che sia stato lui a dissuaderlo dal suicidio nel 1859.
• Giuseppe Massari, esule pugliese del Regno delle Due Sicilie, ricevette da Cavour l’incarico di dirigere la Gazzetta piemontese, giornale ufficiale del Regno di Sardegna. Testimone dei momenti cruciali che precedettero la Seconda guerra d’indipendenza, scrisse con preoccupazione “Cavour è un uomo solo”.
• Costantino Nigra, segretario di fiducia di Cavour, introdusse alla corte francese la contessa di Castiglione.
- NEMICI
• Giorgio Asproni, canonico ma anticlericale, deputato e giornalista sardo di Bitti (Nuoro), anti-aristocratico, democratico radicale e mazziniano, riteneva Cavour, come tutti i piemontesi, “nemico della Sardegna”.
• Lorenzo Valerio, dirigente di setifici in Piemonte, fu a capo della sinistra parlamentare. Rimase sempre fieramente avverso a Cavour, che accusava di essere un aristocratico conservatore e un affarista. Nel 1859, però, diventò prefetto proprio quando presidente del Consiglio era Cavour.
• Angelo Brofferio, scrittore, giornalista e critico letterario, repubblicano e quindi ostile a tutti i governi moderati, contrastò Cavour fino alla fine.
5. Combattente e voci incontrollate
Massimo d’Azeglio si vantava di aver inserito nel suo Consiglio un vero “gallo da combattimento”, ma neanche due anni dopo Cavour si mise d’accordo col capo dell’opposizione di sinistra, Urbano Rattazzi, per rovesciare il governo D’Azeglio e prenderne il posto.
Da presidente del Consiglio i suoi dettami furono libertà commerciale a scapito di un retrogrado protezionismo, investimenti forti nelle infrastrutture (il Piemonte arrivò ad avere 807 chilometri di ferrovie) e tassazione diretta anziché indiretta, cioè sui beni e sui redditi invece che sui consumi.
Appena ne ebbe la possibilità, Cavour tagliò la tassa sul pane e diminuì quella sul sale, aumentando quella sugli atti pubblici, perché tanto la povera gente non faceva compravendite.
Ma è dalla politica estera che al conte derivò il merito più grande: riuscire a far sedere il Piemonte al tavolo delle potenze riunite al Congresso di Parigi nel 1856, al termine della Guerra di Crimea.
L’operazione era costata la vita a migliaia di giovani del Regno di Sardegna, sacrificati in un conflitto che riguardava altri purché in Europa si parlasse della situazione italiana e di quanto l’influenza austriaca fosse nefasta per il nostro Paese.
Cavour puntò le sue carte sull’intraprendente Napoleone III, confidando nel suo intervento una volta che l’Austria, stanca delle provocazioni, avesse mosso guerra al Piemonte.
Per convincere l’imperatore, Camillo non esitò a inviare a Parigi sua cugina Virginia Oldoini, l’avvenente contessa di Castiglione. Alla fine l’Austria fu cacciata dai possedimenti lombardi e la Francia, a saldo del suo impegno, ottenne (solo) Nizza e la Savoia.
Massimo risultato col minimo sforzo: fu il penultimo capolavoro di Cavour. L’ultimo sarebbe stato l’Unità d’Italia. Il conte morì inaspettatamente a soli 50 anni, il 6 giugno del 1861, meno di tre mesi dopo essere diventato il primo presidente del Consiglio del nuovo Regno d’Italia.
Immancabilmente la sua prematura dipartita alimentò qualche voce, compresa quella che lo voleva avvelenato da sicari inviati da Garibaldi, che non gli aveva perdonato la cessione di Nizza ai francesi.
Una tesi che gli storici però rigettano. Rimane invece in piedi un’altra ipotesi: che possa essere deceduto in un letto “sconveniente”. Magari quello di Bianca Ronzani, la sua ultima fiamma. La Ronzani era una ballerina di origine ungherese, già moglie separata di un impresario teatrale.
Di lei Cavour si innamorò. La manteneva, le pagava il teatro, i soggiorni estivi alle terme e le aveva anche comprato una villetta in collina. Il 29 maggio del 1861 andò a trovarla, ma arrivò da lei di cattivo umore. Quando tornò a casa ebbe una prima crisi e, non avendo fiducia nei medici, si curò con dei salassi.
Dopo circa una settimana sarebbe morto. Il referto medico parlò di febbri malariche contratte, pare, nel periodo di massima frequentazione delle risaie di Leri. Se ne andò così l’uomo che fino alla fine credette davvero di poter fare l’Italia.
Nella foto sotto, Cavour, a sinistra in piedi, alle trattative di pace seguite alla guerra di Crimea del 1854/55.