La canapa indiana (cannabis indica) è una pianta dell’Asia Centrale, delle zone tropicali e temperate, ormai coltivata in tutto il pianeta. Dalla canapa indiana si estraggono la marijuana e l’hashish che hanno una blanda azione euforizzante ed allucinogena.
Si tratta di una pianta erbacea, a ciclo annuale, originaria dell'Asia centro-meridionale anche se oramai è una specie diffusa in tutto il mondo nelle zone a clima temperato.
L' uso cerimoniale, magico e misterico della Cannabis è attestato già nell'Egitto faraonico, nella Cina del II millennio a.C., nell'India vedica a nell'Impero assiro, come risulta da una tavoletta di Assurbanipal dell'VIII secolo, dove la pianta droga è denominate Qunnapu.
Erodoto nel IV libro delle Storie racconta che gli Sciti, nomadi del Mar Nero, usavano le fumigazioni prodotte dai semi di Cannabis, gettati su appositi bracieri, per raggiungere stati di ebbrezza e voluttà e per purificare il corpo.
Gli Esseni ( un gruppo ebraico) fecero ampio uso di Canapa in medicina ed in cerimonie religiose, seguendo le pratiche dei persiani seguaci di Zoroastro (VII – IV secolo a. C.), ed i Sufi, sacerdoti mistici dell'Islam, hanno ereditato l'uso rituale della pianta dalle tradizioni zoroastriane sopravvisute alle conquiste musulmane.
Nel Medioevo l'uso medico e ricreativo della Cannabis era giunto in Europa dal Medio Oriente attraverso la mediazione dei crociati a probabilmente in forza di quella strana forma di "alleanza virtuale" che, secondo alcuni storici, sembra aver collegato l'eretico ordine dei Templari con la setta iniziatica islamica degli Hashishin (o mangiatori di haschish), fondata e guidata nel XII-XIII secolo dallo sceicco fatimide Hassan ben Sabbah.
Nella prima metà del XVI secolo il medico e libero pensatore François Rabelais nei suoi romanzi ermetici, nascosti sotto il velo della satira, cantò per primo in Occidente le lodi della Canapa Indiana e dei suoi effetti, celandola sotto il nome di erba Pantagruélion. Le prime ricerche scientifiche e mediche sulla Cannabis iniziarono soltanto alla fine del Settecento, quando i medici di Napoleone la riportarono in Francia dopo la Campagna d'Egitto.
La Canapa ha carattere prevalente allucinogeno, ma vi si può aggiungere un effetto parallelo euforico, con la variante predominante e pericolosa del sentimento di voluttà e di beatitudine.
Ultimamente, nuove ricerche scientifiche hanno dimostrato che la canapa indiana può essere un potente ed efficace antinfiammatorio, antidolorifico in patologie il cui decorso è doloroso e antibiotico contro il Staphylococcus aureus che è notoriamente resistente alla maggior parte degli antibiotici. Può altresì risultare molto utile nella cura del glaucoma.
Oggi presentiamo 5 testimonianze di personaggi famosi, avvenute in diversi momenti storici, ed aventi come oggetto questa pianta antica dalla nomea molto controversa. Vediamole insieme.
1. La storia della canapa indiana comincia con Erodoto (V secolo a.C.)
Nell’ottavo secolo prima di Cristo un gruppo di tribù nomadi indo-iraniche provenienti dalla Transoxiana penetrò in Europa orientale, stabilendosi a sud della Russia bianca, tra la catena montagnosa dei Carpazi e il fiume Boristene (Dnepr), scacciandone le popolazioni indigene o sottomettendole.
Abili cavalieri, guerrieri feroci e ricchi pastori, quegli emigranti non tardarono a entrare in contatto con gli avamposti commerciali fondati sulle coste del Mar Nero dalle città mercantili greche. Erodoto d’Alicarnasso, grande viaggiatore e storico delle guerre persiane, tramanda che il loro nome era scoloti, ma che i greci li chiamavano sciti.
Il passo che proponiamo, preso dal IV libro delle "Storie", descrive appunto uno di quei riti, fornendoci così la più antica testimonianza europea sull’uso psicotropo della canapa indiana:
“... Dopo un funerale, gli sciti si purificano in questo modo. Si spalmano il capo con un unguento, che poi lavano via. Per il corpo invece fanno così. Innalzano tre pali, inclinati l’uno verso l’altro, e vi stendono sopra delle coperte di feltro, che uniscono l’una all’altra il più strettamente possibile. Poi, in un vaso posto al centro dei pali e delle coperte, pongono delle pietre arroventate al fuoco. Cresce nelle loro terre una canapa (kannabis) che assomiglia in tutto al lino, salvo per altezza e larghezza, che sono molto maggiori. Questa canapa cresce sia spontaneamente che coltivata. Anche i traci ne fanno dei vestiti simili ai vestiti di lino, e chi non l’ha mai vista non sarebbe capace di dire se sono fatti di lino o di canapa; e chi non conosce la tela di canapa crederebbe che si tratti di lino. Di questa canapa,dunque, gli sciti prendono il seme e, entrati sotto le coperte, lo gettano sulle pietre arroventate al fuoco; allora il seme libera un fumo odoroso e produce un vapore tale che nessuna stufa greca potrebbe farne altrettanto; inebriati da questa sauna, gli sciti lanciano urla di gioia...”.
Il passo è celebre, la sua veridicità è confermata dai ritrovamenti archeologici, e la sua interpretazione generalmente accettata spiega che il rito funebre raccontato da Erodoto è una variazione su un tema religioso antichissimo, quello del viaggio estatico nel mondo dei morti. Inalando il fumo di cannabis, i parenti del defunto convenuti al suo funerale credono che le loro anime si stacchino dal proprio involucro corporeo e accompagnino il morto alla sua nuova dimora.
2. Hildegarda di Bingen, "La medicina semplice"
“La canapa è calda, e cresce quando l’aria non è né molto calda né molto fredda, e anche la sua natura è così, e il suo seme è salutare, e mangiarlo fa bene alle persone sane, ed è leggero per lo stomaco e utile, perché ne scaccia lo slim ed è digeribile, e diminuisce i cattivi umori e rafforza i buoni umori.Tuttavia, chi ha testa malata e cervello vuoto (cerebrum vacuum) se mangia della canapa avrà facilmente dei dolori di testa. Chi invece ha la testa sana e il cervello pieno non riceverà male. Ma chi invece è molto malato avrà anche mal di stomaco. Se invece è poco malato, non ne riceverà male.”
Che la canapa rafforzi il buon umore, sono ancora oggi in tanti a crederlo, ma invece di essere santificati, come accadde a Hildegarda di Bingen, vengono processati per direttissima.
È vero che i tempi sono cambiati: le visioni estatiche di Hildegarda di Bingen, ineffabili per bellezza e luminosità e tuttavia da lei così magistralmente descritte nel Liber divinorum operum (terminato nel 1174) e nello Scivias (terminato nel 1151), sono attribuite dalla medicina moderna a quella particolare condizione, nota col nome di “aura”, che accompagna gli attacchi di emicrania ed epilessia.
Un altro segno dell’inesorabile mutare dei tempi è che, durante quei secoli bui, neppure le altissime sfere ecclesiastiche erano immuni da certe esperienze. Eccone un esempio: il Pontefice Giovanni XXI, al secolo Pietro Ispano, oltre ad avere composto le dodici "Summulae logicales" che Dante mostra di apprezzare, è stato l’autore di un fortunatissimo trattatello di medicina pratica intitolato "Il tesoro dei poveri" (Thesaurus pauperum), un condensato di varie autorità mediche antiche e tardoantiche accessibile non già ai poveri, che naturalmente non sapevano né leggere né scrivere, ma a quei monaci che della salute corporale dei poveri si occupavano.
La ricetta che segue prescrive il cascame della pettinatura della cannabis come antidolorifico nelle otiti: un impiego che potrebbe avere la sua base razionale nell’effetto analgesico del delta-9-tetraidrocannabinolo e di altri cannabinoli, e che era già stato suggerito da Dioscoride, Plinio e Marcello di Bordeaux.
3. Andrés Laguna de Segovia, “Commento a Dioscoride - I materiali della medicina"
Il passo che proponiamo è tratto dal libro “Commento a Dioscoride - I materiali della medicina" di Andrés Laguna de Segovia (1499-1559), medico, umanista e farmacologo spagnolo, dedito specialmente alla farmacologia e alla botanica medica:
“... Tra le cose che trovarono nella capanna di quelle streghe, c’era un vaso mezzo pieno di un certo unguento verde, come il populeone (pomata medievale che conteneva, tra l’altro, foglie di papavero e germogli di pioppo) con il quale si ungevano, il cui odore era così grave e pesante che mostrava d’essere composto da erbe fredde e soporifere in ultimo grado, come la cicuta, la belladonna, il giusquiamo o la mandragora; del quale unguento, grazie al bargello (alguazil) che mi era amico, ho fatto in modo d’ottenere un buon barattolo. Con questo, ritornato nella città di Metz, ho unto dalla testa ai piedi la moglie del boia che, a causa delle infedeltà del marito, aveva perso completamente il sonno, ed era diventata quasi furiosa... Questa, appena fu unta, con gli occhi spalancati come quelli di un coniglio, e sembrando anzi essa stessa una lepre cotta, piombò in un sonno talmente profondo, che pensai di non riuscire più a svegliarla. (Quando poi, dopo trentasei ore di sonno, finalmente fu svegliata)... le sue prime parole furono: "Perché in mal punto mi svegliasti, ora che ero circondata da tutti i piaceri e diletti del mondo?" – e rivolti gli occhi al marito gli disse sorridendo: "E tu, pitocco, sappi che ti ho messo le corna, e con un galante più giovane e più bello di te".
L’unguento delle streghe intorno a cui affabulavano teologi e inquisitori era,dunque,un linimento a base di piante psicotrope nostrane, che un buon erborista campagnolo (cioè “strega”) poteva raccogliere e preparare con una certa facilità: la belladonna, il giusquiamo, l’aconito napello.
Vegetali associati fin dall’antichità al mondo dei morti, come la cannabis presso gli sciti, e che non erano probabilmente mai usati a casaccio o per scopi ricreativi, ma in un contesto di magia e di religione popolare dai contorni estatici.
Cose queste abbastanza chiare a noi – soprattutto grazie agli studi di G. Bonomo, J.B. Russell e C. Ginzburg che hanno pazientemente ricostruito il profilo della stregoneria medievale – ma che in fondo erano già evidenti agli intellettuali di allora.
Al punto che, quando questi vengono a sapere dei bizzarri rituali religiosi degli indiani d’America – quando,per esempio, apprendono da Francisco Hernandez che i sacerdoti aztechi usano la pianta ololiuhqui (Rivea corymbosa L.) per comunicare con i loro dèi –, non esitano a stabilire un parallelo illuminante con le “streghe” di casa nostra.
4. Jacques Joseph Moreau, "L’hashish e l’alienazione mentale"
“Gli effetti psicologici della cannabis includono euforia, stati oniroidi, calma e sonnolenza. ... L’intossicazione accresce la sensibilità agli stimoli esterni, svela dettagli che sarebbero ordinariamente ignorati, fa apparire più ricchi e brillanti i colori e aumenta la sensibilità soggettiva alla musica e all’arte. Il tempo sembra rallentare, e una quantità maggiore di cose sembra avvenire in un tempo dato. Altri sintomi sono: aumento dell’appetito, secchezza delle fauci e tachicardia. Stranamente, si prova spesso una separazione della personalità: mentre ci si sente euforici, si è anche osservatori obiettivi della propria intossicazione. Si possono sviluppare sintomi di paranoia e si può, nello stesso tempo, riderci sopra. Si possono inoltre produrre depersonalizzazione e derealizzazione”.
Al di là dell’esattezza puntigliosa delle sue descrizioni, Moreau propone un’interpretazione neuropsichiatrica degli effetti dell’hashish che corrisponde, in sostanza, all’interpretazione “morale” che ne dà Baudelaire nelle ultime pagine di "Les Paradis artificiels".
Secondo Moreau,noi viviamo nel presente grazie a un atto della volontà che dirige la nostra attenzione verso tutti quegli oggetti e quei fenomeni che hanno per noi un interesse attuale; è un concetto che sarà in parte ripreso da Henri Bergson in "Matière et mémoire" (1896). Attraverso la memoria viviamo nel passato, e attraverso l’immaginazione, nell’avvenire.
L’hashish, indebolendo la volontà, cioè riducendo quella «forza intellettuale che domina le idee,le associa e le lega tra loro»,lascia campo libero alla memoria e all’immaginazione: passato e avvenire prendono così il sopravvento e causano uno stato di dissociazione delle idee che, per Moreau, non è soltanto sintomo primario dell’intossicazione da hashish, ma anche modificazione, «fatto primordiale» (fait primordial), alla base sia dello stato di sonno sia delle più diverse forme di alienazione mentale.
5. Charles Baudelaire, "Del vino e dell'hashish (Du vin et du haschisch, 1851)”
Il passo che proponiamo è tratto dal libro "Del vino e dell'hashish (Du vin et du haschisch, 1851)" di Charles Baudelaire:
“Durante la mietitura della canapa, avvengono talvolta degli strani fenomeni a quelli che, maschi o femmine, vi lavorano. Si direbbe che si alzino dalla messe non so quali spiriti vertiginosi che circolano intorno alle gambe e salgono maliziosamente fino al cervello. La testa del mietitore è ora piena di turbinii, ora carica di fantasticherie. Le membra si indeboliscono e si rifiutano di rendere servizio”.
La fitochimica moderna ha dato ragione a Baudelaire: anche se più povera in derivati cannabinolici, la cannabis delle nostre regioni non è priva di effetti psicotropi.
Riprendendo il filo cronologico del nostro discorso, viene da domandarsi se nelle città marinare del Mediterraneo la medicina e la cultura dell’Islam non avessero lasciato qualche segno più esplicito delle azioni psicotrope della cannabis.
La cosa può sorprendere, ma sembra proprio di no: uno dei testi più autorevoli della Scuola di Salerno, "Le medicine semplici" di Matteo Plateario, praticamente la ignora, tranne una brevissima menzione fra certe «cure aggiuntive delle ferite». Lo stesso vale per la "Pratica" di Serapione (ibn Sarabiyun), medico arabo del IX-X secolo e per altri testi arabi coevi.
Come spiegarci questo silenzio? Forse bisogna ricordare che la cannabis è pianta dai forti effetti disinibitori sul sistema nervoso centrale: si pensi agli «spiriti vertiginosi» di Baudelaire che «salgono maliziosamente fino al cervello», o all’impiego afrodisiaco che ne ha fatto per secoli, in India, la medicina ayurvedica.
Ebbene, per tutte le religioni di un solo libro l’eresia è, come sosteneva a ragion veduta san Paolo, opera dei sensi. La disinibizione diventa facilmente sensualità, e quest’ultima ancora più facilmente eresia (soprattutto se l’azione fisiologica di una pianta è figura, secondo lo spirito di Agostino, di realtà trascendenti).
Un buon esempio di questo sillogismo, in campo musulmano, ce lo offre un mercante dell’epoca; anzi, il mercante per antonomasia: Marco, figlio di Niccolò Polo,Veneziano.