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Cani a catena: è ora di dire basta

“Vedere cani o al­tri animali legati a una catena o a una corda ci crea imbarazzo, soprattutto perché lo facciamo nei confronti di creatu­re con le quali condividiamo la nostra vita”, scrive Àdàm Miklósi, professore di Etologia presso l’U­niversità Eötvös Loránd di Buda­pest.

“Nella maggior parte dei ca­si, si tratta di amici, non soltanto in senso generale (‘i migliori ami­ci dell’uomo’), ma in senso lette­rale, perché questi cani sono ef­fettivamente membri di un dato gruppo di esseri umani. Non chia­merei questo gruppo ‘famiglia’, perché non ridurremmo mai in ca­tene un membro della nostra fa­miglia”.

Eppure, tenere il proprio cane alla catena è una consuetu­dine ancora fortemente radicata. Anche nel nostro Paese.

Green Impact e Save the Dogs and Other Animals hanno promosso il primo Rapporto sui “cani a catena”: un’analisi della normativa vigente ma anche delle attuali conoscenze etologiche, affinché questa barbarie possa essere bandita per sempre.

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1. I promotori. Scopo: attivare azioni concrete

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Green Impact, startup non lucrativa che promuove pratiche trasformative eco­logiche ed economiche, in colla­borazione con Save the Dogs and Other Animals, associazione italia­na impegnata nella lotta al randa­gismo e nella tutela degli animali, hanno deciso di elaborare un Rap­porto che potesse fare luce sulla questione dei cani tenuti alla cate­na, pratica incivile e orribile che, però, è tutt'altro che rara e non so­lo in Italia.

Intitolato Verso il divie­to di tenere i cani legati alla cate­na, è la prima indagine del genere mai realizzata e si pro­pone di essere non solo un'analisi delle normati­ve attualmente vigenti ma anche uno strumento per la promozione di azioni concrete che possano portare al divieto as­soluto dell'uso della catena.

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«L'obiettivo», conferma Gaia Angelini, presi­dente di Green Im­pact, «è individuare modelli posi­tivi, buone pratiche all'interno del­le legislazioni in vigore, affinché le amministrazioni possano fare un passo in avanti. Le normative so­no spesso incoerenti, poco chia­re, mancano gli strumenti per far­le applicare. Confidiamo che i ri­sultati emersi da questo report possano offrire alle autorità politiche gli strumenti necessari per adotta­re provvedimenti incisivi guardan­do ai migliori esempi di leggi esi­stenti».

Le fa eco Sara Turetta, pre­sidente di Save the Dogs and Other Animals:
«Il Rapporto vuole essere uno strumento vivo, la nostra azio­ne proseguirà nel tempo. Abbiamo voluto fare il punto della situazio­ne, disegnare un quadro di riferi­mento per gli interventi successi­vi. Per esempio, abbiamo già dato il via a una raccolta firme per chie­dere che la Campania, che ha una delle migliori legislazioni in Italia per quanto riguarda i cani alla ca­tena, introduca delle sanzioni. Tra giugno e luglio presenteremo le fir­me al governatore De Luca».

 

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2. È materia regionale e l'Italia si presenta frammentata

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La realtà contrasta con la legge. Nel nostro Paese, la materia "cane a catena" è regola­ta sotto l'aspetto normativo a livello regionale (e provinciale, per le Province Autonome di Tren­to e Bolzano).

Questo nonostante la presenza di alcune norme nazio­nali, come l'Accordo Stato-Regio­ni su "Benessere animale e pet-therapy" del 2003, che ribadisce l'ob­bligo per chiunque conviva o si oc­cupi di un cane di assicurargli "un adeguato livello di benessere fisico ed etologico" e "un'adeguata possibilità di esercizio fisico".

En­trambe, è evidente, sono condizio­ni incompatibili con la vita alla ca­tena. Inoltre, ricordiamo che l'arti­colo 727 del codice penale puni­sce chiunque detenga animali "in condizioni incompatibili con la lo­ro natura, e produttive di gravi sof­ferenze".

E stare legati alla catena indubbiamente provoca sofferenza e non ha nulla a che fare con la na­tura del cane.

Sull'argomento, in Italia, ci tro­viamo di fronte a ben dicias­sette normative: una fram­mentazione che, in parte, ha sor­preso i promotori del Rapporto, co­me conferma Gaia Angelini: «Non ci aspettavamo una così grande dif­formità. Soprattutto non ci aspetta­vamo una formulazione della mag­gior parte di queste leggi in una maniera assolutamente inefficace. Spesso infatti chi vorrebbe interve­nire, le autorità o gli stessi cittadini, non può contare su una legge chia­ra che faccia in modo che il cane venga liberato».

Anche nelle regio­ni più virtuose, che sono Campa­nia, Umbria e Marche, dove vige il divieto assoluto di tenere cani alla catena, le norme sono spesso de­suete o formulate in modo vago e inefficace, così da comprometterne l'applicabilità.

Le sanzioni variano da regione a regione o sono addi­rittura assenti, come in Campania. Altre cinque regioni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Puglia e Abruzzo) hanno introdotto un di­vieto generale accompagnato, tut­tavia, da deroghe che impediscono di tutelare davvero i cani. Manca poi del tutto una normativa in Basi­licata, Liguria e Sicilia.

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3. Stabilire norme efficaci. Il primo passo da compiere

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L'analisi del quadro normati­vo è stata il primo passo verso la formulazione di una se­rie di raccomandazioni alle autori­tà competenti.

In particolare, nel Rapporto si chiede
- che siano sta­bilite norme chiare ed efficaci che vietino la pratica di tenere i cani alla catena;
- che le leggi siano for­mulate in modo tale da consentir­ne una rapida attuazione;
- che sia­no definite chiaramente le autorità responsabili dell'attuazione e del­la vigilanza sulla loro applicazio­ne;
- che siano previste sanzioni effi­caci;
- che si promuovano campagne di sensibilizzazione del pubblico alle esigenze biologiche, etologi­che e fisiologiche dei cani.

Soprat­tutto, che si promuova l'adozione delle migliori prassi europee al fi­ne di armonizzare le normative in base ai più alti standard di benes­sere animale.

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Il paradosso. No agli zoo e sì alla catena? Nel suo ben noto ed eroico la­voro in difesa dei randagi in Romania, Sara Turetta si è im­battuta molte volte in cani tenuti al­la catena.

Ma, ricorda, queste situa­zioni sono presenti anche nel nostro Paese, soprattutto nelle campagne. La presidente di Save the Dogs rileva poi, con sconcerto, questa anomalia: «Ormai è ritenuto inaccettabile che un animale sia chiuso nelle gabbie di uno zoo. È paradossale che invece si accetti che il cane, cioè l'animale più vicino a noi, quello che dovrebbe es­sere parte della famiglia, possa vivere a catena.
È assurdo che ci siano an­cora questi vuoti normativi, che non si rispettino i diritti alla libertà di mo­vimento, alla socialità dei cani.
So­no cinquant'anni che si parla del­ le cinque libertà fondamentali degli animali, che si parla del diritto di un animale a esprimere le proprie carat­teristiche etologiche, eppure...»
. Già.

 

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4. La situazione all’estero. Nessuna linea guida dall’Unione Europea

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La materia "cane a catena", si è scoperto, non rientra nel­le competenze specifiche dell'Unione Europea, con la con­ seguente presenza di numero­ se normative differenti anche al di fuori dell'Italia.

Analizzando le leggi in vigore, i promotori del Rapporto hanno individuato due possibili modelli di riferimento.

Si tratta della normativa austriaca, che prevede il divieto generale di tenere i cani alla catena (con alcune eccezioni chiare e ben defini­te) e la presenza di un regime san­zionatorio, e la normativa svedese, recentemente adottata, che resta un modello positivo nonostante la presenza di deroghe formulate in modo meno dettagliato.

Oltre oce­ano, altrettanto virtuosa è la Cali­fornia, la cui legislazione in mate­ria ricalca quella austriaca.

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C'è un pessimo retaggio da cancellare. Già nel 1990 l'etologo Do­nald Broom, professore emerito di Benessere anima­le all'Università di Cambridge, scri­veva:
"È mia opinione che le perso­ne abbiano degli obblighi verso gli animali con cui interagiscono. Que­sti obblighi riguardano la conserva­zione dell'habitat e delle specie, il fatto che gli individui debbano o no essere uccisi e il benessere anima­le".

Benessere animale che, ricorda Broom, è indipendente da qualsiasi considerazione etica o da qualcosa che l'uomo può dare. Il benessere è, piuttosto, una caratteristica stessa dell'animale, "è il suo stato rispetto ai suoi tentativi di adattarsi all'am­biente in cui vive"

Benessere signi­fica poter esprimere le proprie esi­genze essenziali, etologiche e com­portamentali.

Nel caso di un cane significa, per esempio, essere libe­ro di muoversi (magari per sfuggire a un pericolo) o di interagire con i propri simili e con gli esseri umani che si occupano di lui. Libertà di cui un cane costretto alla catena non può godere. Con gravi conseguenze per la sua salute fisica e psicologica.

La catena è un retaggio culturale, un retaggio di un mondo che non ci appartie­ne più. Le conoscenze etologiche e scientifiche così come la morale co­mune hanno fatto passi in avanti. È ora che anche il quadro normativo evolva, che il gap sia colmato.

 

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5. Stress, aggressività, sofferenza. Le tante conseguenze della vita alla catena

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Non si tratta solo di essere bravi proprietari. Non si trat­ta di pietà o di uniformarsi a un sentire collettivo che vuole gli animali "liberi".

Tenere un cane al­la catena ha conseguenze gravissi­me per la sua salute psicofisica.

Lo sottolinea molto bene il Rapporto promosso da Green Impact e Sa­ve the Dogs attraverso i contributi di esperti come il professor Enrico Alleva, etologo, socio dell'Accade­mia Nazionale dei Lincei e presi­dente di Fisna, e la dottoressa Hea­ther Rally, medico veterinario, spe­cializzata in animali selvatici e mo­nitoraggio di normative sul benes­sere degli animali.

La dottoressa Rally evidenzia come, in molte si­tuazioni, a non essere rispettati sia­no persino i bisogni primari del ca­ne: cibo, acqua, riparo dal freddo o dal caldo.

A questo si aggiungono il rischio di rimanere impigliati, e a volte strangolati nella catena o nella corda, di ferirsi con il collare, di essere aggrediti da animali selvatici, e la maggiore incidenza di ma­lattie o infestazioni da pulci e al­tri parassiti.

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E anche qualora le esi­genze minime del cane fossero ri­spettate, tenerlo alla catena signi­fica comunque limitarne la libertà di movimento e la possibilità di di­fendersi da una minaccia, cosa che provoca stress cronico, comparsa di comportamenti stereotipati, pau­ra e una maggiore aggressività nel momento in cui il cane si trova a fronteggiare una situazione per lui nuova.

A conferma di questo la ve­terinaria cita uno studio del 1994 del Centro per il Controllo e la Pre­venzione delle Malattie (CDC) de­gli Stati Uniti, dal quale si evince che i cani alla catena hanno pro­babilità 2,8 volte maggiori di mor­dere rispetto a quelli non tenuti al­la catena.

Un ultimo aspetto, il più importante, merita di essere sottoli­neato. Il cane è un animale socia­le: la sua salute psicofisica e la sua felicità sono strettamente legate al­ la possibilità di condividere la vi­ta con la sua famiglia e con i suoi simili.

"Tenere un cane costantemente alla catena", scrive Hea­ther Rally, "significa tenerlo 'lonta­no dagli occhi, lontano dal cuore', una situazione in cui i bisogni fon­damentali del cane vengono addi­rittura dimenticati e che sfocia nel­la sofferenza". Una sofferenza che non può più essere tollerata.

 

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