La domesticazione, dal punto di vista biologico, è un fenomeno di simbiosi nel quale la specie domesticante protegge, nutre e cura la specie addomesticata, tanto da assicurarle un elevato successo riproduttivo che tuttavia viene interamente utilizzato dalla specie domesticante per i suoi scopi.
Tra le specie domesticanti, oltre all’uomo, se ne conoscono diverse di formiche che allevano e sfruttano afidi delle piante, coltivano funghi su substrati di foglie e schiavizzano a fini lavorativi formiche di specie diversa dalla propria.
Per potere essere addomesticate con successo» le specie necessitano di determinate caratteristiche biologiche:
“Una specie di mammiferi” ha scritto Juliet Glutton-Brock, “può diventare domestica solo se è in grado di adattarsi a vivere e a riprodursi isolata, all’interno del sistema sociale umano; questo significa che, per natura, essa deve conformarsi, grosso modo, allo stesso tipo di società.
Gli animali candidati alla domesticazione non devono essere solitari ma gregari e la dominanza deve essere stabilita attraverso un ordine gerarchico o di rango, e non mediante la difesa di territori esclusivi.”
Queste condizioni sono evidentemente valide per gli animali che vengono allevati dalla nostra specie ma, con poche variazioni, potrebbero essere adattate anche alle specie domestiche delle formiche la cui società non è poi tanto radicalmente diversa dalla nostra.
Oggi la domesticazione operata dagli esseri umani è un processo cosciente e anche tecnologico ma all’inizio, quando il cane incontrò la nostra specie, forse quarantamila anni fa o anche di più, ciò che avvenne non era in alcun modo pianificato.
Il lupo era un efficiente cacciatore sociale e i primi Homo sapiens, o addirittura gli Homo erectus, che già cacciavano prede di una certa mole e usavano il fuoco, lo erano parimenti, avendo evoluto le loro capacità venatorie a partire da quelle di primati simili a scimpanzè, i quali ultimi sono ben noti come cacciatori sociali.
E’ ragionevole pensare che, se anche gli scimpanzè cacciano scimmie più piccole e vari altri animali, nei cinque o sei milioni di anni che trascorsero dagli uomini-scimpanzè fino alla nostra specie, tutti i primati intermedi si siano sempre dedicati alla caccia. Queste previsioni sono corroborate dalla paleontologia umana.
Gli uomini del paleolitico erano in grado di uccidere bisonti, cervi, cavalli selvatici e molti altri animali, talvolta in numeri rilevanti, e di produrre un gran numero di carcasse che dovevano attirare i numerosi lupi che vivevano delle stesse prede.
A poco a poco, la convivenza di uomini e lupi intorno ai branchi delle prede dovette dar luogo a un modus rivendi fra di essi e successivamente il modus rivendi dovette divenire una feconda collaborazione.
Per fortuna dei nostri antenati (e probabilmente anche nostra che altrimenti non saremmo arrivati al punto in cui siamo) non sempre le cose andarono in un modo tanto storto e il sodalizio tra uomo e lupo, altrove si andò evolvendo in una efficiente collaborazione.
In tal modo il lupo diventò cane e il cane fu tanto strettamente legato al carro umano da divenire non solo ausiliario da caccia ma anche da guardia, da pastore, da pura e semplice compagnia. Il piacere umano del contatto con gli animali in generale deriva anche dalla sensazione di libertà che un animale è in grado di darci.
Ha scritto Egidio Gavazzi: “Colui che desidera un cucciolo ma non può portarselo a casa perché il regolamento del condominio in cui vive non glielo consente, non è una persona libera… non conosce quella libertà fisica, primitiva e naturale che nutre lo spirito attraverso la pelle e che viene prima, come necessità, delle libertà politiche e intellettuali.”
Oggi parleremo dei due animali domestici più vicini e amati dall’uomo: i cani e i gatti. Buona lettura.
1. Il cane e l’addomesticamento del lupo
Il più antico animale domestico è senza alcun dubbio il cane che infatti è anche l’unico a non essere legato alla rivoluzione agricola del neolitico ma, al contrario, sembra essere associato alla nostra specie già a partire dal lungo periodo in cui i nostri antenati furono cacciatori-raccoglitori.
Il progenitore unico del cane domestico è ritenuto attualmente il lupo dal quale, comunque, sono derivate razze canine in gran numero.
Attualmente sono 400 quelle ufficialmente riconosciute e a queste vanno aggiunte quelle “locali” non riconosciute ma effettivamente esistenti e l’autentica miriade di meticci possibili che popolano i canili e, con le loro infelici storie, inteneriscono gli zoofili.
Per quanto riguarda la taglia si va dai cani minuscoli come il chihuahua e il pechinese fino a quelli giganteschi come l’alano o il San Bernardo; per quanto riguarda le specializzazioni, esistono cani da caccia capaci di agire in ferma o in cerca, cani levrieri in grado di correre come il vento, temibili cani da guardia come i mastini, i dobermann e gli alani, selvaggi e operosi cani da pastore con numerose varianti, cani da compagnia e via dicendo.
Il legame tra uomo e lupo è quasi certamente molto più antico dei 15 mila anni ufficiali del più antico reperto fossile conosciuto di cane domestico e potrebbe essersi consolidato nel cuore dell’ultima glaciazione, da 50 a 100 mila anni fa.
Uomo e lupo si erano evoluti entrambi per praticare la caccia di gruppo ma le rispettive nicchie ecologiche erano abbastanza diverse per potere consentire l’avvio di una storica e feconda collaborazione.
Sulla base dell'analisi del DNA mitocondriale di 162 lupi in 27 località di tutto il mondo e di 140 cani di 67 razze diverse, Vilà et al. (1997) hanno non soltanto confermato che il lupo è effettivamente il progenitore del cane domestico ma anche che:
(a) l’addomesticamento si è svolto quasi certamente molte volte in molte diverse zone del pianeta,
(b) la distanza molecolare tra cani domestici e lupi suggerisce una divergenza iniziata circa centomila anni fa!
Dunque, l’addomesticamento del lupo sembra veramente un evento straordinariamente antico, forse davvero l’avvio di una simbiosi che separò i lupi “buoni” da quelli “cattivi” che non vollero collaborare e rimasero in uno stato selvatico e antagonista.
La selezione che ha dato luogo al cane domestico deve essere stata operata sulla base di una certa mitigazione delle caratteristiche di aggressività della specie selvatica originaria ma la verità è che la selezione dovette soprattutto escludere quegli individui che aspiravano a guidare un branco favorendo invece quelli che, nella loro nuova situazione, accettavano di sottomettersi a un essere umano.
L’ideale di cane non è, e soprattutto non era, un cucciolone sempre buono e dolce ma piuttosto un tipo di cane sottomesso al padrone ma pronto a diventare aggressivo al comando di questi, per la caccia, per la difesa contro i carnivori selvatici e per la difesa del gruppo contro gli esseri umani estranei.
I più antichi cani da guardia dovevano essere in grado di riconoscere tutti i componenti di una famiglia allargata, una propria tribù di cinquanta o forse di cento individui umani e canini.
2. L’abbaiamento del cane e i resti subfossili di cani domestici
Si dice giustamente che, per le interazioni con il mondo esterno, i cani facciano affidamento soprattutto sull’olfatto. Tuttavia, anche i cani hanno occhi e poiché sono animali intelligenti, li usano saggiamente.
L’abbaiamento è un comportamento decisamente interessante perché è un tipo di vocalizzazione del tutto occasionale per i canidi selvatici mentre diventa un mezzo di comunicazione regolare per il cane domestico.
Le ragioni di questa evoluzione si riassumono nel fatto che la comunicazione tra lupi selvatici è essenzialmente attuata mediante diverse posture del corpo cui si accompagnano sicuramente stimoli olfattivi.
Per comunicare con gli esseri umani i cambiamenti di postura vanno ancora bene ma agli stimoli olfattivi va sostituito qualcosa di diverso. Una vocalizzazione viene percepita dai cani come un mezzo idoneo per dialogare, purché però non si tratti di una vocalizzazione specializzata a fini territoriali come l’ululato.
Ecco, dunque, che viene ripescato l’abbaiamento che diventa il mezzo più importante per comunicare con gli esseri umani e anche con altri cani: è una sorta di primitivo linguaggio che esprime moltissime cose diverse con piccole differenze di posture o di ritmi vocali che purtroppo non tutti gli esseri umani, neppure tutti i padroni di cani sono in grado di apprezzare.
I resti subfossili di cani domestici sono stati ritrovati in varie località archeologiche dell’Asia occidentale, Europa orientale e settentrionale e anche Nordamerica. Nell’Asia occidentale la morfologia dei reperti corrisponde alle sottospecie araba e indiana del lupo mentre in Europa e in America essi corrispondono ai più massicci lupi del nord.
Più tardi, quando si entra nel neolitico e i resti si fanno più comuni, essi sono anche più minuti e decisamente più “canini” nel senso moderno del termine. Possiamo senz’altro affermare che i rapporti di cooperazione tra uomini e lupi sono antichissimi ma di quale genere fossero quando ancora non erano sviluppate la pastorizia e l’agricoltura possiamo soltanto fantasticare.
Il cane, così come oggi lo conosciamo, si origina poco prima della rivoluzione agricola del neolitico e alcune razze sono già ben caratterizzate diverse migliaia di anni fa. Per esempio, in un bassorilievo del palazzo di Ashurbanipal, a Ninive (in Mesopotamia, nel territorio dell’attuale Irak), sono raffigurati grossi cani da guardia tenuti al guinzaglio che assomigliano in tutto e per tutto a mastini.
3. Canis lupus e Canis familiaris?
Non c’è dubbio che, nella lunga storia della sua derivazione da un animale selvatico come il lupo, il cane si sia allontanato moltissimo del suo progenitore, forse tanto quanto l’uomo moderno si è allontanato dal cacciatore raccoglitore del paleolitico.
Possiamo tranquillamente affermare che il cane non è più il lupo, ma possiamo davvero affermare, come molti fanno, che il cane è una nuova specie da contrapporre addirittura a Canis lupus con la nuova denominazione Canis familiaris?
Il problema è che le razze canine sono talmente numerose e talmente diverse l'una dall'altra da costituire un firmamento difficilmente unificabile sotto un’unica denominazione comune di tipo linneiano senza il rischio di una grave forzatura.
Il fatto è che anche le specie viventi in natura sono composte da popolazioni diverse che sono poi le vere unità adattate e che una specie non è definita neppure dalla nicchia ecologica (che non è sua ma di ciascuna delle sue popolazioni), ma solo dalla potenziale interfecondità ma unicamente in condizioni naturali.
Beninteso, il concetto di cane, filosoficamente parlando, è chiarissimo; ciò che invece non è affatto chiaro è se il cane (e con esso tutti gli animali domestici profondamente modificati rispetto alla specie originaria) possa davvero essere definito come una specie diversa dal lupo.
A parere di molti esperti non lo è, così come le miriadi di forme coltivate di rosa sono bensì la rosa coltivata ma non sono una nuova specie rispetto alla rosa selvatica e tantomeno molte nuove specie. Tutti i cani domestici fanno ancora parte della specie Canis lupus in qualità di popolazioni domestiche distinte da quelle selvatiche e ben distinte anche tra loro.
Chi non distingue un cane bassotto da un levriero? Chi non è in grado di riconoscere che la tenue barriera che impedisce, o almeno diminuisce, l’interfecondità tra le diverse razze (popolazioni virtuali) di cani è creata dall'uomo allevatore e anche dalla innegabile circostanza che ogni bastardino ha probabilmente un adattamento modesto dato che ha vita dura e spesso anche breve?
La parola cane indica quindi una costellazione di popolazioni virtuali di lupi domestici, non una nuova specie. La speciazione può avvenire soltanto in natura, non nella situazione tutelata di un allevamento, piccolo, grande o piccolissimo che esso sia. Questa è una opinione personale e discutibile ma basata biologicamente.
Lasciando ora da parte le questioni teoriche sembra comunque superfluo addentrarci a parlare del cane come compagno degli esseri umani. A caccia o di guardia a una proprietà privata, a un gregge o semplicemente di compagnia a una o più persone, il cane è sempre un animale molto speciale che ha bisogno di essere compreso da qualcuno che abbia un occhio attento alla comunicazione non verbale.
Come ha scritto il grande Jerome K. Jerome, "egli non vi chiederà se abbiate torto o ragione, se siate un santo o un criminale... ma semplicemente sarà dalla vostra parte con una piena convinzione che potrà facilmente arrivare fino al sacrificio della vita".
In breve, il cane è un animale sociale, molto più sociale di noi umani che, in generale, siamo pronti a mettere avanti una fitta serie di distinguo prima di decidere di dare o non dare il nostro appoggio a qualcuno, sia pure un ottimo amico che abbia a suo favore molte ottime ragioni.
Il cane è una lezione vivente di lealtà e di fedeltà ed è un vero peccato che tanta gente che ne possiede uno riesca a vivergli accanto per molti anni senza mai rendersi conto di questa semplice realtà.
4. La storia della domesticazione del gatto
Il caso del gatto configura un’altra simbiosi liberamente scelta dall’interessato ma, a differenza di quella del cane, si tratta di una simbiosi decisamente limitata a uno stadio molto meno avanzato.
Juliet Clutton-Brock, che infatti definisce la renna, il dromedario e l’elefante come “prigionieri sfruttati” (per sottolineare la loro condizione non compiutamente domestica), suggerisce di attribuire al gatto la qualifica di “prigioniero sfruttatore”.
Anche questa non è esatta perché il gatto è tutt’altro che un prigioniero, è uno sfruttatore libero che ha imparato a non temere l’uomo e che talora, su questa via, esagera cacciandosi nei guai.
In effetti, tra gli animali domestici oggi esistenti, il gatto è l’unico in grado di trasferirsi in campagna o tra i boschi e vivere agevolmente di caccia, catturando sia animali selvatici sia domestici.
Questa situazione fu pienamente recepita dalla legge sulla caccia che, fino a pochi anni fa, considerava il gatto vagante al di fuori dell’abitato come un animale selvatico nocivo sul quale era permesso sparare a vista.
Vediamo in che modo si è giunti a una tale situazione. La simbiosi del gatto con la nostra specie inizia con le prime coltivazioni di cereali. Non appena questi incominciano a venire raccolti e ammassati, topi e uccelli reagiscono affollandosi intorno all’inusitata fonte di cibo per godere dell’improvvisa abbondanza.
Se ne accorgono subito i gatti che escono dall’ombra e si dedicano alla facile predazione di questi ingenui golosi intorno ai depositi di cereali. A loro volta, si accorgono della nuova situazione i coltivatori che ringraziano gli dei per l’inatteso aiuto e decidono che un animale tanto utile deve essere anche sacro.
Nell’antico Egitto veniva venerato e imbalsamato e ne sono rimaste molte mummie a testimoniare il buon nome di questi animali.
È difficile datare la domesticazione del gatto, in primo luogo perché di vera e propria domesticazione non si tratta visto che il controllo umano sulla sua riproduzione rimane tuttora scarso, in secondo luogo perché i gatti domestici assomigliano molto ai selvatici e i reperti ossei sono quindi ben difficilmente attribuibili all’una o all’altra linea su basi puramente morfologiche.
Lo Zeuner (1963) ha reperito tuttavia a Gerico resti ossei di gatti in ambiente neolitico preceramico, cioè circa 7000 anni fa.
Più recentemente, il Davis (1987) ha trovato una mandibola di gatto anche in un sito neolitico dell’isola di Cipro (6000 anni fa), dove non sembra che siano mai esistiti felini selvatici e dove quindi il gatto doveva essere stato importato.
Resta tuttavia il fatto che in molti altri siti neolitici si trovano non solo ossa di gatti ma anche di tassi, lontre e volpi e che è probabile che tutti questi animali, nella loro versione selvatica, venissero anche uccisi per le loro pelli.
In definitiva, la storia della domesticazione del gatto appare piuttosto frammentaria dai documenti archeologici mentre può essere ricostruita virtualmente con la logica dei rapporti ecologici in una primitiva società di coltivatori di cereali.
In ogni caso, i gatti domestici assomigliano al loro progenitore selvatico Felys sylvestris molto di più di quanto i cani assomiglino al lupo.
5. Superstizioni e passioni sui gatti
Molto diffusa è tuttora la colorazione del mantello selvatica che è quella di soriano tigrato.
Le parti superiori del corpo sono coperte da una stretta successione di strisce verticali ondulate che, sulle cosce, tendono a scomporsi in una serie di macchie. In domesticità sono apparse altre colorazioni: nera, bianca, marmorizzata, pezzata, tricolore e altre di razze particolari come il siamese.
Oggi, cessato in buona parte il suo ruolo come cacciatore di topi e di uccelli parassiti, il gatto viene allevato da molti come animale da compagnia poco impegnativo e considerato molto piacevole, malgrado i danni che esso può arrecare agli uccelli domestici e selvatici e ad altri piccoli animali.
La dilagante passione per i gatti fa sì che questi oggi esistano in numeri che, a livello mondiale, raggiungono le centinaia di milioni e, nei paesi sviluppati, alimentino un fiorente mercato di mangimi e di accessori.
Purtroppo questo mercato ha anche commercializzato, in forma di crocchette o di scatolette, molto pesce di bassa qualità non adatto all’alimentazione umana che un tempo non veniva affatto pescato, col risultato di privare di una risorsa importante gli uccelli marini e provocare così la loro diminuzione.
Alla passione sfrenata per i gatti da parte di molte persone fa riscontro un odio altrettanto sfrenato di altre che, alimentato dalla superstizione, ebbe la massima diffusione nel medioevo.
In quegli anni oscuri, in cui del resto venivano bruciati vivi gli “eretici” e le "streghe”, cioè povera gente che si sforzava di pensare e talvolta di migliorare il mondo, trovarono la morte anche moltissimi gatti che avevano il torto di muoversi di notte, emettere miagolii terrorizzanti e mostrare una capacità di sopravvivenza alle cadute che, nella mente degli ingenui, li faceva mettere in relazione con il demonio.
Qualcuno ha anche ipotizzato che questo massacro di gatti abbia comportato la conseguenza di un forte aumento di ratti infetti e quindi di diverse ondate di epidemie di peste.
Onestamente, non possiamo sapere se fu davvero così ma, se così fosse stato, si sarebbe trattato di un terribile boomerang contro l’ignoranza o, per meglio dire, contro gli ignoranti dato che l’ignoranza in sé non fu minimamente diminuita da esso.
Presso gli antichi egizi il gatto, insieme con la mangusta, l’ibis e il falco pellegrino, era un animale sacro che, quando moriva, veniva sottoposto al trattamento per la mummificazione.
Secondo lo storico greco Erodoto che fu uno dei primi europei che visitarono l’Egitto, l’uccisione di un gatto era un delitto in quel paese, ma l’analisi di molte delle mummie ritrovate ha consentito di accertare che molti dei felini imbalsamati erano stati uccisi per dislocazione delle vertebre cervicali.
Si è ipotizzato che si trattasse di sacrifici rituali da parte di sacerdoti, uccisioni che evidentemente dovevano essere considerate con un occhio diverso rispetto a quelle avvenute senza un motivo sacro.
Dall’antico Egitto, le credenze superstiziose sui gatti sono giunte fino alle soglie della nostra epoca. In Gran Bretagna, fino al 18° secolo molti ritenevano che il mezzo più sicuro per tenere alla larga da un edificio ratti e topi fosse di murare un gatto (si spera che perlomeno fosse già morto) dentro una parete.
Nel quartiere londinese di Bloomsbury, recenti lavori di ristrutturazione hanno riportato alla luce corpi mummificati di gatti che talora venivano murati insieme con un ratto, talvolta addirittura opportunamente sistemato tra le fauci del malcapitato felino.
Nell'intera Europa sono ancora molto numerose le persone che ritengono che la vista di un gatto nero che attraversa la strada sulla quale si sta camminando sia foriera di terribili guai.