Anche se le diete vegetariane, o addirittura vegane, sono sempre più diffuse, noi italiani restiamo, come tutti gli occidentali, carnivori: mangiamo circa 38 chili di carne a testa all’anno (dati Ismea, Università di Bologna).
Facciamo bene? Non proprio, sia per la nostra salute – un consumo eccessivo di carne ci pone a rischio di malattie cardiovascolari e di alcuni tipi di tumori – sia per l’ambiente.
L’allevamento degli animali da carne, soprattutto erbivori, incrementa l’effetto serra ed è una delle cause di deforestazione, perdita di biodiversità e degrado dei terreni.
1. Le differenze
Dal punto di vista nutrizionale sono definite carni rosse quelle di manzo, vitello, maiale, agnello, cavallo, capra e pecora.
Sono carni bianche quelle di pollo, tacchino e coniglio.
La differenza si basa su caratteristiche biologiche, prima fra tutte la presenza, nella carne rossa, di mioglobina, una molecola di colore rosso contenente ferro che permette il trasporto dell’ossigeno ai tessuti, specie ai muscoli.
Negli animali di grandi dimensioni e con fibre muscolari sviluppate si può trovare un’alta concentrazione di mioglobina, anche se fattori come sesso, età dell’animale, mangime o tipo di allevamento possono influenzare il colore della carne.
A causa della mioglobina, le carni rosse sono meno digeribili delle bianche.
Carne rossa e carne bianca a confronto
Dal punto di vista nutrizionale, la carne rossa e quella bianca sono simili.
La prima (in particolare bovino e agnello) ha più ferro e può essere consigliata a chi si trova in condizioni accertate di anemia da carenza di ferro, ma limitandone il consumo a una volta alla settimana.
2. Attenti al grasso
Tutta la carne è un’ottima fonte di proteine di alto valore biologico, che contengono cioè tutti gli amminoacidi essenziali nelle giuste proporzioni.
È inoltre fonte di ferro nella forma più facile da assorbire (ferro eme), di vitamine del gruppo B, tra cui la B12 e la B9 (acido folico), e vitamina D.
Ma quello che può fare davvero la differenza tra le varie tipologie di carne è il contenuto di grasso. La carne più magra, sia rossa sia bianca, è di maggiore qualità perché contiene una percentuale maggiore di muscolo e minore di grasso.
Per esempio, le razze bovine non forniscono tutte la medesima qualità di carne: alcune sono più magre, altre invece producono geneticamente più grasso, che si trova anche nel muscolo e che conferisce una maggiore appetibilità all’alimento, ma lo rende meno sano per quanto riguarda l’impatto sul nostro colesterolo e, più in generale, sul rischio cardiovascolare.
Si tratta infatti di grassi saturi di cui dobbiamo ridurre l’apporto nella nostra dieta.
Anche il tipo di allevamento – biologico, estensivo (in ampi spazi all’aria aperta) o al contrario intensivo (al chiuso in spazi ristretti) – e il tipo di alimentazione dell’animale (erba al pascolo, fieno, insilati controllati o, al contrario, mangimi poco selezionati) condizionano la composizione nutrizionale della carne e quindi la sua qualità.
La carne bianca è meno grassa di quella rossa, anche perché la maggior parte del grasso si trova nella pelle, che possiamo eliminare.
Dovremmo però fare attenzione pure all’aspetto di quella parte di grasso che anche nella carne bianca resta attaccato al muscolo.
Se è di colore giallo significa che l’animale ha avuto un’alimentazione più sana perché ricca di carotenoidi antiossidanti che sono sostanze liposolubili (cioè si sciolgono nel grasso) e lo colorano naturalmente.
3. Il rischio tumori
Non esistono ancora sufficienti studi che correlino il consumo di carne bianca a un aumentato rischio di sviluppare alcuni tipi di tumore e quindi non possiamo trarre conclusioni definitive.
Al contrario, molte ricerche sono state condotte sugli effetti del consumo di carne rossa e, in particolare, di quella lavorata (salumi, insaccati, affumicati) e il rischio di tumori.
Anche per questo, nel 2015, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), che è un organismo dell’OMS, è giunta alla conclusione che la carne rossa deve essere classificata come “probabilmente cancerogena” e quella rossa lavorata come “sicuramente cancerogena”.
Il Codice europeo contro il cancro pubblicato dalla Commissione europea insieme alla IARC dice infatti: “Evita la carne conservata, limita la carne rossa e i cibi ad alto contenuto di sale”.
Stiamo comunque parlando di aumento del rischio di tumori che è poi sempre proporzionato alla quantità di consumo.
Se mangiamo carne rossa tutti i giorni, soprattutto quella lavorata degli insaccati e dei salumi, che contiene anche additivi di salatura e stagionatura per la conservazione (es. nitriti e nitrati) non salutari per l’organismo, andiamo incontro a uno stato di infiammazione prolungata nel tempo, a partire dall’intestino, aumentando la probabilità di sviluppare tumori, in particolare al colon-retto.
Questa patologia è infatti il terzo tumore più frequente nei Paesi industrializzati, dove il consumo di carni rosse è ancora molto elevato.
Ma quanta mangiarne? "Dovremmo limitarci a una porzione (100 grammi) di carne rossa alla settimana, una o due se bianca. Negli altri pasti il valore proteico della carne può essere sostituito da pesce, uova o legumi, questi ultimi però associati ai cereali, di preferenza integrali, per essere sicuri di assumere tutti gli amminoacidi, compresi quelli essenziali al nostro organismo", avvertono gli esperti.
4. Come cuocerla? Troppa carne fa male anche all’ambiente
Il modo in cui cuociamo la carne può aumentare o, viceversa, ridurre, il rischio di conseguenze negative per la salute, fino al rischio oncologico.
La grigliata è di sicuro il metodo di cottura peggiore perché l’imbrunimento della carne, causato dalle alte temperature, produce sostanze che hanno effetti cancerogeni dimostrati e che contribuiscono anche al rischio di malattia cardiovascolare.
Ma alcune ricerche hanno dimostrato che se, prima di grigliarla, mariniamo la carne per alcune ore in olio evo con erbe aromatiche come timo, maggiorana, rosmarino insieme ad aglio e cipolla, che hanno proprietà antiossidanti, riduciamo di circa il 40-50 per cento la quantità di sostanze tossiche che si formano con la cottura ad alta temperatura.
Troppa carne fa male anche all’ambiente! I prodotti di origine animale – carne, uova e latte – che provengono da allevamenti di bestiame hanno un grande impatto sull’ambiente, soprattutto per l’uso di suolo e per le emissioni di gas a effetto serra in atmosfera.
Si è calcolato che per produrre la carne di ruminanti (come bovini e agnelli) si possono emettere fino a 250 grammi in più di gas serra per grammo di proteine rispetto ai legumi.
Inoltre, il bestiame utilizza circa il 70 per cento dei terreni agricoli, tra cui un terzo di quelli seminativi, necessari anche per la produzione agricola.
L’allevamento di erbivori e la produzione di foraggi sono le principali cause agricole della deforestazione, della perdita di biodiversità e del degrado dei terreni.
5. Ormoni: l’Europa li vieta agli allevatori
Dal 1981 è vietato in Europa usare ormoni e sostanze con effetto ormonale per promuovere la crescita degli animali da allevamento (direttiva 81/602/EEC).
Nel 2020 un’indagine del Ministero della Salute sui residui negli animali e nei prodotti di origine animale (miele, latte e uova) ha riscontrato irregolarità, tra cui la presenza di sostanze proibite come gli ormoni anabolizzanti, solo nello 0,1 per cento dei 32.564 campioni analizzati.
Eppure, la percezione di molti europei è diversa, come emerge da un sondaggio Eurobarometro curato dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA): il 44 per cento circa degli europei è preoccupato per l’uso improprio di antibiotici, ormoni e steroidi negli animali da allevamento.
Gli antibiotici, in effetti, sono ammessi per curare le infezioni non trattabili in altro modo, ma esiste il “tempo di sospensione”, stabilito dal veterinario, necessario all’animale per smaltire l’antibiotico nell’organismo: in questo lasso temporale l’animale non può essere macellato né possono essere consumati i suoi prodotti (uova o latte).
Oggi, soprattutto in Italia, l’uso di antibiotici negli allevamenti si sta progressivamente riducendo: un tempo erano somministrati anche per prevenire le malattie, oggi non più.
Così si cerca di ridurre la circolazione di “superbatteri” resistenti agli antibiotici, che creano molti problemi nella gestione delle infezioni (antibiotico-resistenza), soprattutto all’uomo e in particolare ai soggetti fragili.