Cefalonia: la strage nazista dei soldati italiani

Dopo la campagna contro la Grecia dell’ottobre 1940, vinta grazie all’intervento tedesco, le truppe italiane avevano occupato il territorio ellenico.

La 33a divisione di fanteria Acqui venne rischierata nelle Isole Ioniche il 29 aprile 1941 con compiti di presidio.

In trenta mesi di occupazione, la contraerea… ha sparato solo tra l’11 e il 16 dicembre ’41 per difendere il naviglio di un trasporto truppe verso l’Africa da una manciata di aerosiluranti inglesi.

La situazione a Cefalonia cambiò dopo il 25 luglio 1943, alla caduta di Mussolini. I rapporti tra italiani e tedeschi sembravano inalterati, ma in realtà i vertici italiani tramavano con gli alleati per sfilarsi dal conflitto col minor danno possibile.

Hitler lo sospettava e diede ordine ai suoi generali di occupare le postazioni chiave nella nostra penisola e negli altri territori controllati dagli italiani: come appunto Cefalonia, dove vennero inviati 1.800 uomini più una batteria di cannoni semoventi (8 Sturmgeschütz III con cannoni da 75 mm più 1 con un pezzo da 105).

Quanto alle forze italiane sull’isola, erano più numerose (circa 11.700 uomini) ma molto inferiori nella qualità dell’armamento e nella copertura aerea (la Regia Aviazione era assente).

La strage nazista dei soldati italiani si consumò dal 22 al 24 settembre 1943 a Cefalonia, isola greca delle Ionie che gli italiani occupavano dal 1941.

Fu il più grave eccidio nazista contro di noi e venne ordinato da Hitler in persona, che intendeva vendicarsi del nostro tradimento: con l’armistizio di Cassibile ci eravamo arresi agli Alleati, venendo meno al patto coi tedeschi.

1. 8-9 settembre

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La convivenza tra gli alleati restò accettabile fino all’8 settembre, quando tutto cambiò di colpo.

Poco prima delle sette di sera il radiotelegrafista della marina intercettò Radio Londra secondo la quale gli Alleati avevano accolto la richiesta di armistizio dell’Italia.

Inizialmente si pensò a un trucco, ma verso le 19.30 tutte le radio della divisione poterono ascoltare il messaggio ufficiale del generale Pietro Badoglio, che tra l’altro dichiarava: «Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

Questi “altri attacchi” potevano provenire solo dai tedeschi, ma il fatto di non averli espressamente menzionati creò incertezza.

Il generale Carlo Vecchiarelli, comandante delle truppe italiane in Grecia, alle 21.30 dello stesso 8 settembre diramò quest’ordine: «Se i tedeschi non faranno atti di violenza armata, gli italiani non, dico non, faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con i compiti attuali».

E così il generale Antonio Gandin sull’isola di Cefalonia non poté che aspettare, perdendo la possibilità di sopraffare i tedeschi che in quel momento erano solo un decimo del contingente italiano.

 

Le sue truppe erano disperse in tanti piccoli drappelli sul territorio dell’isola, aspro e difficile da controllare: Cefalonia infatti è percorsa in senso longitudinale da un’alta e ripidissima montagna, il monte Aimos.

La zona pianeggiante più ampia è sul lato occidentale, attorno al golfo di Argostoli, vicino a cui si trovava il quartier generale italiano a Prokopata. Sull’altro lato del golfo, a Lixuri, era concentrato il grosso dei tedeschi.

Lo snodo strategico per il controllo dell’isola era la zona di Kardakata, a nord del golfo, perché qui si poteva aggirare il monte Aimos e bloccare sia Argostoli sia Lixuri. Non a caso qui Gandin aveva schierato inizialmente una delle sue batterie.

Il 9 settembre arrivò un altro messaggio dal comando delle truppe in Grecia, in cui si ordinava di consegnare ai tedeschi le armi pesanti (cannoni e mortai). Gandin non obbedì, mentre in un paio di posti di blocco le truppe italiane respinsero, senza sparare, reparti tedeschi che cercavano di passare.

 

I tedeschi intanto avevano ricevuto l’ordine di attivare il piano Asse, ossia il disarmo delle truppe italiane.

Il comandante tedesco, il colonnello Hans Barge, finse di intavolare trattative con l’ex alleato sapendo di essere in grave inferiorità numerica, mentre aspettava i rinforzi che sapeva prossimi. Anche Gandin aspettava ordini, ma in quel momento il re Vittorio Emanuele III stava fuggendo da Roma verso Brindisi, lasciando senza guida il Paese.

Così non ne ricevette. Il comando tedesco aveva ben chiara l’importanza delle isole Ionie e voleva garantirsene il controllo il prima possibile come già aveva fatto con Corfù, Zante e Leucade.

Restava solo Cefalonia. Gli Alleati, al contrario, non si resero conto dell’occasione che avevano per garantirsi una perfetta testa di ponte per la Grecia, di conseguenza non intervennero.

Cefalonia (foto sotto) è la maggiore delle isole Ionie (Grecia). La capitale è la città di Argostoli.

 

2. 10-14 settembre

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Anche il 10 settembre si continuò a trattare, mentre tra soldati e ufficiali italiani montavano forti sentimenti antitedeschi.

Secondo la ricostruzione di Caruso, il sentimento prevalente era il desiderio di tornare a casa.

Gli italiani percepivano che la consegna delle armi ai tedeschi era in realtà una resa che avrebbe reso impossibile rivedere l’Italia.

Così tra gli ufficiali si creò una drammatica spaccatura tra chi voleva obbedire agli ordini di Vecchiarelli e cedere le armi per evitare di essere schiacciati dai nazisti e quelli che invece volevano tenerle, sapendo che avrebbero dovuto usarle contro la Wehrmacht.

Gandin continuò una tattica attendista, sperando in un accordo che salvasse la vita e l’onore dei suoi soldati.

 

I tedeschi invece avevano già preso le loro decisioni: l’11 settembre Barge inviò un messaggio in cui chiedeva agli italiani, in cambio di un “trattamento cavalleresco”, la consegna del materiale bellico.

Hitler in persona tuttavia aveva già ordinato la vendetta: gli italiani che non continuavano la guerra al fianco dei tedeschi dovevano essere fucilati come traditori. Secondo i tedeschi, gli italiani vennero informati di questa direttiva; secondo i nostri connazionali, invece, fu tenuta loro nascosta.

Gandin tentò la conciliazione ritirando le truppe che controllavano il passo di Kardakata, il che fu un errore cruciale perché indebolì in modo decisivo le posizioni italiane.

 

Il 12 settembre, in un incontro tra Gandin e alcuni ufficiali italiani (i capitani Amos Pampaloni e Renzo Apollonio) emerse la spaccatura tra il generale che ancora sperava di raggiungere un compromesso e una parte dei subalterni che invece avevano deciso di combattere comunque.

Il 13 settembre i tedeschi tentarono un colpo di mano attraverso il golfo di Argostoli, facendo salpare due motozattere zeppe di soldati per sbarcare direttamente nella capitale dell’isola. Vennero avvistate dalle batterie italiane che aprirono il fuoco e ne affondarono una.

La seconda arrivò ad Argostoli ma i soldati vennero fermati da un cessate il fuoco provvisorio. In giornata, secondo alcune fonti, Gardin avrebbe organizzato una sorta di referendum tra i soldati per chiedere se volevano arrendersi o combattere: molti storici oggi mettono fortemente in dubbio questa versione.

Secondo alcuni testimoni, si trattò solo di una specie di conta per sapere quanti soldati sarebbero stati pronti a passare con i tedeschi. La decisione di resistere fu presa da Gandin quando arrivò un messaggio dal Comando Supremo italiano, che diceva: «Considerate le truppe tedesche nemiche».

 

3. 15-21 settembre

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Ormai era troppo tardi. Il 15 settembre i bombardieri Stukas colpirono duramente le posizioni italiane sull’isola.

Tuttavia i primi attacchi tedeschi, che premevano sia da terra sia dal mare su Argostoli, vennero respinti, pur con gravi perdite.

Si trattò solo di un rinvio: da Preveza, in Grecia, arrivavano infatti continuamente truppe tedesche, che rapidamente eguagliarono quelle italiane.

Viceversa Gandin perse tempo e uomini tentando inutilmente di conquistare un fortino tedesco a capo Munta. Tra il 20 e il 21 l’avanzata tedesca diventò inarrestabile.

Ovunque i reparti italiani venivano presi di sorpresa o sopraffatti. Gli altri reparti che Gandin voleva guidare alla riconquista di Kardakata vennero circondati a uno a uno e costretti, dopo una strenua resistenza, ad arrendersi.

 

Curiosità: Stuka fu l’aereo tedesco più famoso. Lo Junkers Ju 87, detto anche Stuka (foto sotto), fu usato per colpire le posizioni italiane a Cefalonia.
Simbolo della potenza nazista, è un bombardiere biposto in picchiata.
Era progettato per sganciare la sua unica bomba dopo una velocissima discesa quasi verticale, in cui il pilota prendeva la mira sul bersaglio, sganciava la bomba a bassissima quota e poi cabrava (ossia puntava verso l’alto) con una violenta manovra che metteva a dura prova la struttura dell’aereo.
Ne furono costruiti più di 5.700 esemplari in una decina di versioni, che combatterono su tutti i fronti.

4. 22-24 settembre

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Il 22 Gandin ordinò la resa generale. I reparti tedeschi fucilarono centinaia di prigionieri sul posto, sul ciglio di un burrone per farli cadere di sotto o dopo averli fatti marciare per chilometri e averli rifocillati, illudendoli di aver salva la vita.

Il cosiddetto vallone di Santa Barbara divenne tristemente famoso perché furono qui fucilati centinaia di soldati; un’altra località nota è la Casetta Rossa, dove il 24 settembre vennero fucilati almeno 129 ufficiali.

Le loro salme furono gettate in mare appesantite con sassi. I sopravvissuti furono in seguito imbarcati per la Grecia su navi che affondarono.

 

Le polemiche furono tante. Sul numero di morti a Cefalonia si sono aperte molte polemiche. La lotta della Acqui fu interpretata come il primo episodio della resistenza contro i nazisti e le prime stime furono forse gonfiate (si parlò di 9.500 soldati e 400 ufficiali trucidati).

Secondo lo storico Giorgio Rochat (1996), ci furono 1.200 caduti in combattimento e circa 5mila uccisi dall’esercito tedesco, più altri 2mila prigionieri morti in mare. La storica Elena Aga Rossi nel 2016 ridimensiona le cifre del massacro, affermando che le vittime furono 1.600-2.500.

Resta il fatto che i soldati tedeschi uccisero a sangue freddo uomini che ancora indossavano l’uniforme dell’esercito (e quindi non potevano essere equiparati ai partigiani) e che obbedivano agli ordini del governo italiano.

Non vennero processati o subirono condanne molto lievi: in particolare il generale Lanz se la cavò con una condanna a 12 anni, di cui scontò solo i primi 3. Il governo italiano non presentò alcuna accusa contro di lui.

 





5. I protagonisti

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- ANTONIO GANDIN
Nacque ad Avezzano (AQ) nel 1891 in una famiglia di militari. Si laureò in lettere e poi frequentò la Regia Accademia Militare di Modena uscendone sottotenente nel 1910.
Partecipò alla guerra italo-turca (1911) e poi alla Prima Guerra mondiale dove ebbe 2 medaglie al valor militare.
Dopo il conflitto insegnò alla Scuola di guerra e nel 1937 entrò nello Stato Maggiore dell’Esercito.
Promosso generale nel 1940, fino al 1942 fece parte del Comando Supremo militare italiano e partecipò alla spedizione in Russia. Fu fucilato dai tedeschi il 24 settembre 1943. Il suo corpo non è stato ritrovato.

 

- RENZO APOLLONIO
Nato nel 1914, è uno dei personaggi più controversi nei fatti di Cefalonia.
Come il collega Amos comandava una batteria di cannoni e fin dai primi giorni si schierò contro i tedeschi. Nel dopoguerra venne considerato uno degli eroi di Cefalonia per aver incitato alla resistenza contro i nazisti.
Col passare del tempo emersero dubbi soprattutto perché, sfuggito al primo massacro e poi catturato, fu condannato a morte e infine graziato per passare nelle file dei tedeschi.
Venne accusato di doppiogiochismo, ma finita la guerra fece prevalere la sua versione ottenendo l’appoggio di importanti leader politici di sinistra.

 

- PIETRO BADOGLIO
Nato a Grazzano (AT) nel 1871, durante la battaglia di Caporetto era comandante delle artiglierie, cui non diede l’ordine di sparare contribuendo alla disfatta.
Diventato maresciallo dell’Impero dopo la conquista di Addis Abbeba nel 1936, venne chiamato da Vittorio Emanuele III a sostituire Mussolini dopo il 25 luglio.
Fu lui a condurre le confuse trattative che portarono alla resa dell’Italia l’8 settembre 1943. Morì a Grazzano nel 1956.








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