È una delle parole italiane più conosciute al mondo assieme a pizza, bravo!, spaghetti e cappuccino.
Ciao è la forma di saluto più comune e “democratica”, la più facile da pronunciare, utilizzabile sia incontrando sia congedandosi da qualcuno.
È patrimonio di grandi e piccini, uomini e donne, persone umili e altolocate.
È anche un’azione, in quanto può essere accompagnata o sostituita da un preciso gesto della mano, anch’esso universalmente noto. Deriva da schiavo e cominciò a essere usata nel Norditalia per poi diffondersi al Centro e al Sud.
Ma fu con l’inno dei partigiani, Bella ciao, che nel Dopoguerra divenne la forma di saluto più comune nel nostro Paese, mentre un’altra canzone, cantata nel 1959 al Festival di Sanremo, ne sancì la notorietà in tutto il mondo.
1. Deriva da schiavo
Secondo il linguista Nicola De Blasi, nel 2018 la parola Ciao ha compiuto 200 anni di vita.
È infatti al 1818 che risalgono le sue prime attestazioni scritte, anche se ciò non significa che non fosse già adoperata in precedenza.
«L’origine di ciao», afferma De Blasi, «è riconducibile al latino medievale sclavum (variante di slavum), che in origine aveva il significato di “slavo”. In seguito, quando a essere ridotte in schiavitù erano le persone di origine slava, ha assunto
l’accezione di “schiavo”. In Italia, è quindi nella seconda metà del Duecento che si fissa l’uso di sclavus nel significato di “schiavo”. Diventerà dominante nel corso del secolo successivo».
Ma che rapporto c’è tra la condizione di schiavo e la forma di saluto oggi più nota in Italia? «Probabilmente dalla seconda metà del Quattrocento comincia ad affermarsi l’uso di salutare qualcuno, di persona o in una lettera, dichiarandosi “suo schiavo”», continua De Blasi.
«Si tratta di una formula di cortesia non dissimile dal “Cosa comanda?”, con cui Don Abbondio si rivolge ai Bravi nel primo dialogo dei Promessi sposi (1827) o dal “In che posso ubbidirla?” con cui don Rodrigo accoglie Fra Cristoforo nel capitolo VI dell’opera».
Naturalmente, chi, in saluto, si dichiarava pronto a obbedire o a servire non voleva che le sue parole fossero intese alla lettera.
Si trattava di una convenzione cortese tipica di una società basata su gerarchie rigorose oggi inimmaginabili, in cui espressioni come Signore, Padrone, Vostra Signoria e formule come vostro servo, vostro servitore, vostro schiavo erano all’ordine del giorno.
Quest’uso sopravvisse fino almeno a tutto l’Ottocento, come testimonia, fra l’altro, il romanzo di Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico (1895), nel quale uno dei personaggi racconta: «Il povero papà viene a mancare, io cerco la lettera nel cassettone, non la trovo. Frugo tutta la casa; non la trovo. Cosa vuole? Mi dò pace con l’idea che non vi sarà niente da fare e non ci penso più. Schiavo, andiamo avanti».
Da questo esempio apprendiamo che, nei discorsi correnti, schiavo era anche un modo per chiudere un argomento e per proseguire con un altro tema.
2. Da un capo all’altro del Paese
L’uso di ciao è documentato in origine soprattutto in scritti veneziani e genovesi e solo gradualmente si estese alle altre aree della nostra penisola.
Anzi, afferma De Blasi, «una cosa è certa: ciao non ha avuto fortuna immediata, ma si è affermato lentamente attraverso un percorso non sempre lineare e talvolta ostacolato. Nell’italiano standard è molto recente. Le basi di partenza del suo viaggio nell’italiano sono state Milano e Torino, da cui ha iniziato la sua diffusione, staccandosi da voci dialettali che forse avevano avuto in Venezia il primo centro propulsore».
Lo confermano alcuni testi napoletani dell’Ottocento, secondo i quali, prima dell’Unità d’Italia, ciao era avvertito come un termine piemontese, tipico dell’autorità costituita, non dissimile dall’espressione cerea (“Saluto alla Signoria Vostra”) che ancora oggi conserva una forte marca regionale.
Nella Roma del 1870, la rivista satirica La Frusta così si prendeva gioco dei settentrionali arrivati in città: «Perché i nostri fratelli invece di dire addio, dicono ciao? Perché avendo tutti gl’istinti del gatto, ne imitano anche il miagolamento».
Insomma, quasi alla fine dell’Ottocento, sia a Napoli sia a Roma, ciao era visto come un marchio di provenienza settentrionale che suscitava reazioni piuttosto negative. Le cose non cambiarono molto qualche anno più tardi.
Il linguista Mario Alinei (1926-2018) ricordava che, negli anni Trenta del Novecento, a Roma, sentiva il saluto ciao solo dalla sua tata piemontese, «mentre fuori di casa non era usato». Nei dizionari della lingua italiana pubblicati prima della Seconda Guerra mondiale, la parola ciao mancava.
L’unico a registrarla era il Dizionario moderno (1905) di Alfredo Panzini, come “voce dell’Alta Italia” sinonimo di addio, aggiungendo che «è anche voce usata in Lombardia come esclamazione di chi si rassegna a cosa fatta e che pur dispiaccia».
Anche il Vocabolario etimologico italiano di Angelico Prati (1951) definisce ciao «un saluto che dal Veneto o da Milano è penetrato sino a Roma, dove non è rado», a significare che ancora a metà del Novecento la parola non era percepita come universalmente italiana.
3. Nell’inno dei partigiani
Ma è proprio dopo la Seconda Guerra mondiale che ciao comincia a conoscere una larga circolazione.
Vi contribuisce il successo di Bella ciao, canzone della Resistenza intonata dai partigiani tra 1943 e 1945, che conobbe una vasta celebrità popolare negli anni Cinquanta e Sessanta, grazie anche a iniziative discografiche, come per esempio un disco di canti popolari italiani interpretati da Yves Montand (1921-1991), famoso attore francese, nato in Toscana.
Curiosamente Bella ciao risale a un canto piemontese ottocentesco, il cui testo era diverso e mancava della parola ciao, aggiunta in un secondo momento.
«Inoltre il nuovo saluto si è giovato dei mezzi della modernità (televisione, radio, dischi) e ha ricevuto una spinta decisiva anche dalle generazioni più giovani», ricorda Nicola De Blasi.
«Per esempio è possibile che per qualche tempo ciao abbia trovato un habitat favorevole tra i giovani chiamati a svolgere il servizio militare».
4. La formalità passa di moda
La definitiva affermazione in italiano di ciao coincide con una profonda ristrutturazione in senso informale dei rapporti personali in cui, tra l’altro, si fa strada e si impone progressivamente l’uso del “tu” a scapito del “lei” e del “voi”.
Ciò è tanto più rilevante se si pensa che, soprattutto fra i nati all’epoca della Grande Guerra (1915-1918), non era raro rivolgersi ai genitori con il “voi”.
- Variazioni sul tema
Da un po’ di tempo da ciao sono derivate alcune variazioni sul tema che stanno sempre più prendendo piede.
Ad esempio, ciao è spesso pronunciato semplicemente come cià, soprattutto nei contatti più frettolosi e confidenziali e, non di rado, questo è seguito da altri saluti omologhi per cui capita di sentire telefonate che si chiudono con cià cià cià.
Ciao può diventare ciaissimo o ariciao, anche se ad aver conosciuto fortuna è soprattutto l’accrescitivo ciaone, che ha avuto risonanza nel 2016 e viene adoperato con funzione di ironia o scherno.
- Addio ha cambiato significato
Il successo contemporaneo di ciao ha avuto ripercussioni su altre forme di saluto.
Ad esempio, ha modificato il significato di addio, oggi considerato un saluto a carattere definitivo, tanto che si parla di “addio al celibato” o di “addio al nubilato”.
Fino all’inizio del Novecento, invece, addio era un equivalente di arrivederci, abbinato tanto al “lei” quanto al “tu” e usato tra persone che si incontravano.
5. Quando ancora nelle lettere ci si firmava schiavo e Ciao, ciao bambina
- Quando ancora nelle lettere ci si firmava schiavo
Secondo il Grande Dizionario della lingua italiana, l’ultimo esempio documentato dell’uso di schiavo come forma di saluto risale a una lettera scritta allo storico Ludovico Antonio Muratori dal librettista e drammaturgo Pietro Antonio Bernardoni, morto nel 1714:
«Riverite tutti i padroni e salutate tutti gli amici; non ci vedo più. Manfredi ha poi avuta la lettera. Schiavo».
Come confermano tante testimonianze, tuttavia, l’uso di schiavo come saluto nel parlato si prolungò almeno fino a tutto l’Ottocento, coesistendo spesso con ciao.
- Ciao, ciao bambina
Alla diffusione internazionale della parola ciao ha contribuito senz’altro il successo della canzone Piove, con cui Domenico Modugno, in coppia con Johnny Dorelli, vinse il Festival di Sanremo nel 1959. Il ritornello della canzone, Ciao, ciao bambina, divenne presto un tormentone e fu ripreso da numerosi interpreti che lo sostituirono al titolo originale.
Ad esempio, la versione inglese dei Four Aces era intitolata Ciao Ciao Bambina (Piove) e l’etichetta del disco riportava la trascrizione Chiow Chiow Bambeena, concepita per aiutare gli inglesi nella pronuncia.
In tedesco Caterina Valente incise Tschau Tschau Bambina, mentre in spagnolo il titolo divenne Chao chao bambina. Con il successo della canzone di Modugno, ciao divenne il saluto italiano più noto al mondo.
Oggi è registrato nei dizionari ufficiali di Paesi come il Brasile, l’Argentina, il Venezuela, la Francia, la Germania, l’Inghilterra ed è noto perfino in Africa e Asia.
Nella foto sotto, Festival di Sanremo 1959. I cantanti Johnny Dorelli (a sinistra) e Domenico Modugno vincono la competizione canora con Piove, che contiene il ritornello “Ciao, ciao bambina”.