Clemente e rispettoso del nemico sconfitto, Ciro il Grande riuscì a conquistare un vastissimo impero che si estendeva dal Medio Oriente al Mediterraneo.
Le sue doti di regnante giusto e magnanimo divennero proverbiali, al punto che fu esaltato come “predestinato” anche nella Bibbia.
Ma chi era veramente Ciro il Grande? Scopriamolo insieme!
1. Il "re dei quattro angoli del mondo"
“Il Signore, il Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra”.
Questa frase, attribuita a Ciro II il Grande dal libro biblico di Esdra, è emblematica dell’epopea di un re che fu principalmente un uomo di guerra e che sulle battaglie costruì la sua grandezza, ma che tra una conquista e l’altra si dimostrò così tollerante nei confronti dei popoli da lui vinti e sottomessi da diventare il prototipo del monarca severo ma giusto, votato a governare sugli uomini per la stessa volontà del Cielo.
In un altro libro biblico, quello di Isaia, egli appare come il prescelto da Dio “per atterrare davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re [cioè deporli], per aprire davanti a lui le porte, in modo che nessuna gli resti chiusa”.
E in effetti Ciro II, membro della stirpe dei Teispidi, conquistò buona parte delle terre allora conosciute, che avrebbero formato il più grande impero nella storia dell’età antica, quello achemenide di Persia, portandolo a misurare l’iperbolica cifra di otto milioni di chilometri quadrati.
Le sue conquiste si estendevano all’Indo, toccando le rive del Mar Nero, del Mar Caspio, del Lago d’Aral e del Golfo Persico, sicché fra i suoi epiteti il più calzante appare sicuramente quello di "re dei quattro angoli del mondo".
Nella vicenda biografica di Ciro si fondono realtà e leggenda. Vissuto nel VI secolo prima di Cristo, Ciro II era figlio del re persiano Cambise e di Mandane, figlia del re dei Medi Astiage. Il regno persiano era allora di dimensioni assai ridotte: comprendeva soltanto una striscia di terra nel sud dell’odierno Iran, che dalla capitale Persepoli arrivava fino alla costa del Golfo Persico.
Molto più esteso era il regno dei Medi, che lambendo il Mar Caspio si spingeva a occidente fino alla Cappadocia, nella penisola turca. Fra le poche fonti di cui disponiamo (oltre ai rarissimi reperti documentari, quali il cilindro d’argilla che da lui prende nome), vi sono gli storici greci Senofonte ed Erodoto.
Quest’ultimo racconta che, alla nascita di Ciro, nel 590 avanti Cristo, Astiage ebbe in sogno la premonizione che il nipote avrebbe dominato l’Asia, spodestandolo. Astiage ordinò allora a un suo fedelissimo, Arpago, di uccidere il neonato.
Ma Arpago non si sentì di compiere una missione così crudele e preferì disfarsi dell’infante attraverso un pastore, che avrebbe dovuto abbandonarlo in una regione impervia e popolata di animali feroci. Neppure il pastore, però, fece quanto gli era stato ordinato: il figlio che aveva appena avuto dalla moglie era morto, e l’uomo decise di crescere in sua vece Ciro.
Per far credere ad Arpago di averlo ucciso, gli mostrò il corpo senza vita del suo figlioletto. Il re Astiage si sarebbe accorto di essere stato tradito nelle sue volontà soltanto molti anni più tardi, quando Ciro era ormai ragazzo; ma a quell’epoca non avrebbe più potuto disfarsi di lui.
Una simile ricostruzione delle origini del futuro imperatore è tutt’altro che inedita nel mondo antico e serve a presentarlo sin da subito come un predestinato, esattamente come avviene per altri sovrani – per esempio Romolo – destinati a cambiare il corso della Storia.
2. Le campagne militari
Proprio contro il potente nonno Astiage, Ciro, succeduto al padre nell’anno 558, mosse la sua prima guerra.
Questa durò otto anni e si concluse con la sconfitta di Astiage, che venne deposto, mentre il suo vasto regno finì sotto il dominio persiano. Il lungo conflitto era cominciato male per Ciro, che dopo il primo confronto sul campo di battaglia era stato costretto a ritirarsi inseguito dall’esercito nemico.
A salvare il re persiano da una rapida uscita dalla scena della storia intervenne, secondo quanto riferisce una cronaca babilonese del tempo, una rivolta delle truppe di Astiage contro il loro stesso sovrano, che fu fatto prigioniero e portato davanti a Ciro. Questi però, anziché giustiziarlo, gli risparmiò la vita.
Subito dopo entrò da vincitore a Ecbatana, capitale del regno dei Medi, e ne fece trasportare il tesoro nella sua capitale. Invece di distruggere Ecbatana e uccidere tutti gli abitanti, come avrebbe fatto qualunque altro sovrano dell’epoca, la lasciò intatta, elevandola a capitale estiva.
L’improvvisa espansione dell’impero achemenide – che prende il nome da Achemene, il leggendario fondatore della dinastia regnante – fino ai confini del suo regno mise in allarme Creso, sovrano della Lidia, regione centro-occidentale della penisola turca.
Creso – le cui ricchezze erano proverbiali – dichiarò guerra a Ciro, ma nel volgere di un decennio le sorti del conflitto gli si rivelarono avverse al punto che dovette ritirarsi nella capitale del suo regno, Sardi.
Per trovare una via d’uscita all’assedio nel quale l’avevano stretto i persiani, chiese aiuto alle altre potenze sue alleate, ovvero Babilonesi, Egizi e Spartani. Nessuno dei loro eserciti, però, fece in tempo ad arrivare in suo soccorso prima che Sardi capitolasse e Creso cadesse prigioniero di Ciro.
E qui storia e leggenda tornano a mescolarsi tra loro. Ciro avrebbe deciso di uccidere il re nemico, bruciandolo sul rogo. Non appena furono appiccate le fiamme, Creso si mise a invocare il nome di Solone, il saggio ateniese che lo aveva ammonito di non interessarsi troppo alle ricchezze e ad adottare un tenore di vita più moderato.
Ciro a quel punto interruppe il supplizio per farsi spiegare da Creso l’aneddoto; poi, ravvedutosi, decise di risparmiargli la vita e di nominarlo suo consigliere.
3. La conquista di Babilonia
La presa della Lidia permise alla Persia, assurta ormai a potenza dominante nel Medio Oriente, di affacciarsi sul Mediterraneo e sull’Egeo, e di entrare in contatto con le sviluppate polis greche poste lungo la costa turca.
Negli stessi anni le truppe di Ciro sottomettevano le tribù che abitavano i vasti territori a sud-est del Mar Caspio, spingendosi a oriente fino a Kabul, nella regione del Gandhara (l’attuale Afghanistan).
Il regno persiano arrivava così a comprendere altri territori che erano sì periferici e arretrati rispetto ai centri della civiltà, quali la Mesopotamia e la Valle dell’Indo, ma che rivestivano il ruolo strategico di proteggere la Persia “alle spalle” da eventuali attacchi.
L’impero poteva adesso ambire a scalzare l’ultima potenza che ancora lo sovrastava: Babilonia. Sulla carta, non era affatto un’impresa semplice. Oltre che molto esteso, l’impero neobabilonese era estremamente potente: controllava tutte le regioni più ricche del Medio Oriente, Mesopotamia, Siria e Fenicia.
La capitale, poi, era praticamente imprendibile, circondata sia da mura imponenti, sia da un enorme fossato riempito dalle acque derivate dal fiume Eufrate, che la attraversava.
Ciro pensò di deviare proprio le acque del fiume, costruendo appositi canali. Babilonia, però, restava una fortezza difficilmente espugnabile. A favore del re persiano giocarono i gravi dissidi interni tra la classe sacerdotale e il sovrano, Nabonedo.
Questi aveva rimpiazzato il principale dio venerato dai sacerdoti, Marduk, con un’altra divinità assira. In realtà, la questione non era tanto teologica, quanto pratica: il clero babilonese accusava Nabonedo di avere origini straniere e di non avere quindi diritto a sedere sul trono; accuse che avevano peraltro fondamento.
Per certi versi, questo braccio di ferro tra clero e sovrano per il potere ricorda quello che per secoli avrebbe diviso la Chiesa cattolica e gli imperatori europei nel Medioevo.
A far pendere l’ago della bilancia a sfavore di Nabonedo fu proprio Ciro: quando le sue armate mossero all’attacco, il re babilonese non pensò ad altro che a fuggire, forse perché consapevole di non poter contare sull’appoggio unanime dei suoi, o forse per guadagnare tempo e stringere un’alleanza con l’Egitto.
Fatto sta che Ciro poté entrare nella capitale dell’impero nemico senza colpo ferire: gli abitanti, abbandonati a se stessi da Nabonedo, deposero le armi e gli aprirono le porte, confidando nella magnanimità dell’imperatore persiano. Mai conquista si era rivelata tanto facile.
4. La clemenza di Ciro
Le speranze dei Babilonesi si rivelarono ben riposte. Ciro non solo non si abbandonò a saccheggi o massacri, ma rispettò la popolazione appena sottomessa e confermò persino i funzionari già in carica.
Dando prova di abilità e saggezza, trovò un alleato naturale nel nemico giurato di Nabonedo, il clero locale, al quale si presentò come figlio del dio Marduk, da lui inviato per governare il suo popolo.
Ai sacerdoti non pareva vero di poter tornare a celebrare in libertà i propri culti: il nuovo sovrano restituì a ogni città le immagini sacre che Nabonedo aveva con scato.
Anche gli Ebrei, che cinquant’anni prima erano stati deportati nella città come schiavi dal re babilonese Nabucodonosor in seguito alla ribellione del regno di Giuda, salutarono Ciro come liberatore, perché permise loro di tornare in Palestina, come pure di ricostruire il tempio di Gerusalemme, che lo stesso re aveva fatto distruggere insieme alle mura della città.
Quello che prima di Ciro era un piccolo regno tribale era divenuto grazie a lui un impero senza rivali, il più grande e potente del tempo; e tutto questo in soli diciotto anni.
Oltre a un temibile esercito, l’impero persiano contava numerose, grandi e ricche città, che vivevano in pace; ad esse si era aggiunta la nuova capitale, Pasargade, fondata dallo stesso Ciro, che vi aveva edificato splendidi monumenti. Il porto dell’impero era la Fenicia.
La rinuncia di Ciro a infierire sui popoli sottomessi, insieme alla concessione di una insperata libertà e autonomia e al rispetto dei loro culti e usanze, fece guadagnare ai persiani la benevolenza e a lui la fama di imperatore tollerante e generoso. Forse si era convinto di essere anche invincibile.
La successiva campagna militare, però, avrebbe riservato a Ciro ben altra sorte rispetto a quella, inaspettatamente fortunata, di Babilonia. L’ambizione dell’imperatore, unita forse a un pizzico di superbia, furono le cause della sua repentina rovina.
Dopo aver riorganizzato le istituzioni dei suoi territori, amministrati da governatori provinciali detti satrapi, l’imperatore puntò la sua attenzione sulla parte orientale dell’Iran, dove attaccò i nomadi sciti Massageti, capeggiati dalla regina Tomiri. Già il primo scontro sul campo gli fu sfavorevole.
Su suggerimento dei suoi consiglieri, allora, Ciro tese una trappola agli inseguitori: lasciò dietro di sé un accampamento zeppo di scorte di vino, bevanda ignota agli sciti che se ne ubriacarono. I persiani tornarono allora all’attacco ed ebbero facilmente ragione di loro.
Fra gli sciti caduti in mano dei persiani c’era anche il figlio della regina, Spargapise, comandante dell’esercito nemico. Per riscattare l’onta della prigionia, Spargapise si tolse la vita, scatenando la sete di vendetta della madre. Tomiri sfidò Ciro in campo aperto e sbaragliò l’esercito persiano.
Lo stesso imperatore cadde in combattimento. Non ancora soddisfatta, la regina cercò il suo corpo e, quando lo trovò, lo fece decapitare, immergendo poi la testa in un otre pieno di sangue per irridere la sua sete di conquiste e, appunto, di sangue.
Correva l’anno 529 e Ciro aveva da poco superato la sessantina; gli succedeva il figlio Cambise II. I resti di Ciro il Grande furono trasportati a Pasargade e sepolti nel mausoleo che si può ammirare ancora oggi (nella foto).
5. La Bibbia lo chiama “IL MESSIA” e la prima carta dei diritti umani conosciuta
- La Bibbia lo chiama “IL MESSIA” e la prima carta dei diritti umani conosciuta
Per la Bibbia Ciro il Grande fu nientemeno che il “messia”, cioè il “consacrato”.
Così lo definisce il libro di Isaia, secondo il quale è lui il prescelto dal Signore per compiere una missione quanto mai difficile e importante: liberare il popolo di Israele, permettendogli così di tornare in patria e di ricostruire il tempio di Gerusalemme, distrutto nel 586 avanti Cristo, pochi anni dopo la nascita dell’imperatore persiano.
“Io dico a Ciro – si legge in Isaia –: Mio pastore”; e secondo alcuni “pastore” è il significato del nome ebraico di Ciro, “koresh”, modulato sul persiano “kurush”.
“Egli”, prosegue il profeta biblico, “soddisferà tutti i miei desideri, dicendo a Gerusalemme: Sarai riedificata; e al tempio: Sarai riedificato dalle fondamenta. Così parla il Signore al suo unto, a Ciro”.
Per il testo sacro delle religioni ebraica e cristiana, dunque, Ciro sarebbe stato consacrato e preso per mano da Dio, che lo avrebbe fatto salire al trono e guidato di vittoria in vittoria affinché portasse a termine un “piano superiore”: la liberazione del suo popolo eletto, Israele, come poi accaduto.
Il profeta che preconizza questo destino “divino” di Ciro in realtà non è Isaia, ma un altro, anonimo, il cui testo è confluito in quello del grande profeta vissuto nell’VIII secolo avanti Cristo.
Gli “appassionati oracoli” – come li ha definiti il biblista e teologo monsignor Gianfranco Ravasi – che il “Secondo Isaia” riserva all’imperatore persiano dovevano convincere gli Ebrei rassegnati all’esilio in Babilonia, al punto da costruirvi la propria casa e avviare commerci, a tornare in patria, grazie al nuovo corso politico introdotto da Ciro.
Un altro testo biblico, il libro di Esdra, riporta in questi termini l’editto dell’imperatore a favore degli Ebrei: “Il Signore mi ha incaricato di costruirgli un tempio in Gerusalemme. Chi di voi proviene dal suo popolo abbia il suo Dio con lui e torni a Gerusalemme di Giudea e ricostruisca il tempio del Signore Dio di Israele”. - La prima carta dei diritti umani conosciuta
Nel 1879 tornò alla luce fra le rovine dell’antica città di Babilonia uno straordinario reperto archeologico: il “cilindro di Ciro” (nella foto), oggi conservato al British Museum di Londra; una sua copia è nella sede delle Nazioni Unite a New York.
Si tratta di un cilindro di argilla interamente ricoperto di iscrizioni in accadico cuneiforme. Il testo che è stato decifrato si apre con una lista di crimini attribuiti a Nabonedo, re di Babilonia del VI secolo a. C., come l’aver dissacrato i templi degli dèi e l’aver imposto ai sudditi i lavori forzati.
Contrariato dal comportamento del re, il dio babilonese Marduk chiamò un re straniero, Ciro di Persia, a conquistare Babilonia e a spodestare Nabonedo per diventare il nuovo sovrano, con la benedizione divina. Sul cilindro si legge poi che Ciro fu accolto pacificamente dai babilonesi.
Egli riportò l’ordine nella Mesopotamia, restaurò templi e luoghi di culto e rimandò al loro luogo di origine i prigionieri, insieme alle loro immagini sacre; in fine, riparò le mura della città. Secondo alcuni studiosi, il documento sarebbe la prima carta dei diritti umani della storia.
A Ciro viene attribuito un atteggiamento insolitamente magnanimo nei confronti dei tanti popoli da lui sottomessi: una politica che sembra riflettere moderni princìpi di tolleranza e di rispetto per gli sconfitti.
Non solo: le iscrizioni sul cilindro attesterebbero il rimpatrio, a opera dello stesso imperatore persiano, del popolo ebraico che pose fine alla sua deportazione e prigionia in Mesopotamia (la “cattività babilonese”).
In realtà, nel “cilindro di Ciro” non vi è alcuna citazione né degli Ebrei, né di Gerusalemme o della Giudea; gli unici luoghi di culto menzionati sono quelli della Mesopotamia.
Inoltre, altri studiosi sottolineano come in quella regione esistesse già assai prima di Ciro una tradizione, che risale fino al terzo millennio a.C., di dichiarazioni come queste, pronunciate dai re all’inizio del loro regno.